da "Tre liriche del Carducci" (1957)

Alternando il momento della sintesi con quello dell'analisi, l'esplorazione della lirica Nevicata propone una nuova interpretazione della poetica carducciana, entrando in quelle "zone d'ombra" già segnalate da Luigi Russo, in un nuovo intreccio energico di analisi tematica e stilistica. Il saggio del 1957 sarà poi raccolto nel volume Carducci e altri saggi (1960).

  I. 
  NEVICATA
  Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi, 
  suoni di vita più non salgon da la città, 
  non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro, 
  non d'amor la canzon ilare e di gioventù. 
  Da la torre di piazza roche per l'aëre le ore
  gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí. 
  Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
  spiriti reduci son, guardano e chiamano a me. 
  In breve, o cari, in breve - tu càlmati indomito cuore -
  giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò. 


Dirò subito che questa "barbara" è per me uno dei risultati più interi ed intensi della poesia del Carducci, una sintesi equilibrata ed energica delle sue tendenze più personali, una prova notevole delle sue possibilità di concentrazione lirica e di sicura realizzazione espressiva, della sua matura ricchezza di vibrazione e di suggestione sentimentale e fantastica tutta dominata in un'articolazione scandita e continua, in un quadro compatto, senza incrinature e cadute di tono.
Proprio in tal senso è una risposta positiva ai nostri dubbi, alla nostra insoddisfazione di fronte ai pericoli di diluizione dei nuclei lirici, di cadute e sbalzi di tono così frequenti nel Carducci anche in poesie ispirate che tante volte chiedono se non tagli antologici certo sorvoli rapidi su parti improvvisamente scadenti ed approssimative, in cui la tensione poetica autentica vien surrogata dai sobbalzi del declamato o da confidenze troppo discorsive o da compiacimenti illustrativi agevolati dalla tentazione della varietà e da certi conati di una poetica spesso poco sicura fra tecnicismo aristocratico e prezioso, facilità parlante e i più pesanti "doveri" e la pericolosa vocazione costituzionale del vaticinio civile e patriottico.
Qui invece (e del resto la brevità è propizia in generale al Carducci, malgrado la sua tendenza all'affresco e all'opera complessa in cui più raramente la sua forza regge all'impegno) la concentrazione è massima, la intuizione centrale si è svolta intera, ha riempito tutto il quadro sino ai suoi margini estremi, senza dispersioni, senza sbavature sentimentali, senza pose di outrance sentimentale e verbale, pur essendo ricca di una dolente sensibilità, di un impeto che tende, entro una costruzione squadrata e netta, ogni parola, ogni movimento di ritmo, ogni immagme con la pienezza e la sicurezza di una poesia che trova un consolidamento espressivo coerente ed unitario.
Certo, sia ben chiaro, sempre nei limiti di profondità di un poeta che mi pare rischioso ed errato mettere a paragone con quei maggiori poeti lontani o vicini (e sian questi Foscolo o Leopardi), da cui lo distacca (ed egli ne fu a suo modo cosciente se parlando della sua "religione per i grandi poeti", per "i grandi astri che ridono eterni", se ne dichiarava dolorosamente lontano quanto a propria forza creativa), una minore pienezza lirica centrale, una diversa profondità della parola che sale da zone interiori più circoscritte e meno complesse, realizzandosi in una minore assolutezza espressiva, in uno stile che mantiene spesso qualcosa di più greve e pesante, di meno limpido e puro, mentre la sua stessa serietà artistica e tecnica non può vincere spesso centrali incertezze, oscillazioni fra l'approssimativo e il prezioso. Ma, affermati francamente questi limiti costituzionali, mi pare che in questo componimento si possa cogliere uno dei momenti più intensi e realizzati delle vere possibilità poetiche carducciane.
In questa poesia, in questo eccezionale momento di riepilogo interiore da parte di un poeta che ha il pieno possesso di tutti i suoi mezzi e motivi lirici senza più distinzione fra ispirazione e tecnica, il Carducci rivedeva liricamente entro di sé, in un'attiva memoria dolente e vigorosa, lo svolgimento più profondo e l'approdo virile funereo della sua tormentata esperienza vitale, tesa fra orgogliosi impeti di affermazione, di possesso della realtà, di ideali umanistico-naturalistici, di intero contatto con gli uomini, condotti fino all'espansione euforica del Canto dell'amore, e il sentimento della difficoltà e fragilità di quel possesso, della resistenza di una realtà umana opaca e deludente. Sentimento quest'ultimo che lo aveva portato, proprio nel pieno della passione per Lidia, a immergersi cupamente nel tedio (parola e sentimento ben suo, al di là di certe forzature di posa romantica, corrispondente ad un polo del suo fondamentale contrasto di temperamento e di intuizione lirica della vita), a rifugiarsi fra i morti che non deludono e che non tradiscono, a contemplare la tomba non solo con l'orrore affascinato della sua condizione di totale esclusione, ma proprio nel suo fascino di rifugio, di suprema e dolorosa sicurezza, di risposta sdegnosa ed eroica alla mediocrità e alla viltà, agli inganni del presente e degli uomini impari all'altezza del sogno di una umanità intera e poetica, di quella schiatta "alta, gentile e pura" cui il Carducci aspirava ardentemente già all'aprirsi della sua maturità umana e poetica.
Di questa tensione alla morte, e al rifugio tra i morti si era fatto espressione concitata e sintetica il grido "il mio cuore è coi morti" che, nel '74, aveva dominato il ritornello doloroso di Brindisi funebre ("beviam, beviamo ai morti - con essi sta il mio cuor"), e aveva risuonato in tante lettere di anni successivi con la sicurezza di un leitmotiv profondamente consolidato in una precisa sentenza personale e poetica. E questa aveva trovato la sua precisa formulazione fra stimolo di esperienze dolorose e il contatto propizio con un testo di Hölderlin letto e tradotto parzialmente nell'agosto-settembre 1874: quella poesia Griechenland sul cui finale il Carducci tornò ancora nel 1903 variandone leggermente la traduzione con la mano mal certa in una delle ultime patetiche sue prove di scrittura a lapis, tanto quei versi gli erano cari, tanto egli aveva sentito la loro importanza nella chiarificazione di un suo sentimento che chiedeva e non trovava ancor bene espressione.
Quel finale di Griechenland infatti lo aveva aiutato, fra lettura e traduzione, a definire questo suo ardente e cupo desiderio della morte come rifugio dolente e consolatore e a precisarne le direzioni essenziali di una impetuosa discesa alla casa dei morti con quel "giù" così carico di tensione e di brama complicata dal sentimento fisico della tomba e dell'Ade che il Carducci sentiva soprattutto come sotterraneo, non celeste, indissolubilmente legato alla sua sensibilità tutta terrena ed umana:

  Là dove il mirto e un miglior sol corona
  Anacreonte e Alceo là giù vo' gir! 
  Con i santi là giù di Maratona
  ne l'esil casa d'Hade io vo' dormir! 
  La mia lacrima estrema, Ellade bella, 
  scorra e risuoni il canto ultimo a te! 
  Alza le forci omai, fatal sorella, 
  perché tutto co' morti il mio cuor è. 


Poi, proprio nel 1880, la lettura e traduzione di un altro brano di Hölderlin (poeta-guida di questo motivo nella propizia consonanza di una posizione neoclassicoromantica di amore della Grecia e di nostalgia di un passato eroico e luminoso) venne a rinforzare, in un periodo di meditazione cimiteriale così intenso (aperto nel '79 dall'elegia Fuori alla Certosa di Bologna), la suggestione, il fascino della discesa fra i morti sempre più intensificato da un sentimento di precoce vecchiaia, di crescente solitudine e distacco, fra la scomparsa e la perdita di vecchi e giovani amici e la fine dell'amore per Lidia, prima ancora della sua morte.
Quando il 29 gennaio 1881, sullo sfondo sollecitante della cupa giornata invernale e nevosa (già l'anno precedente l'elegia Ave. In morte di G. P. si era aperta sullo sfondo di una giornata di neve: "Or che le nevi premono, | lenzuol funereo, le terre e gli animi, e de la vita il fremito | fioco per l'aura vernal disperdesi"), il Carducci scrisse la prima stesura di Nevicata, tutti quegli spunti e avvii del motivo che fermentava da tempo nel suo animo e nella sua fantasia, quelle parole e immagini già provate e incubate nelle lettere, nelle traduzioni da Hölderlin, nelle poesie precedenti (e con quelle altre parole e ritmi più suoi ed echi di altri poeti sentiti come congeniali alla situazione o ad elementi del suo svolgimento) vennero a raccogliersi entro una centrale intuizione, così diversa dalle forme di uno sfogo immediato e diaristico. E si composero, presero spazio poetico in un quadro in cui la situazione immediata e precisa (l'interno dello studio del poeta, la finestra dai vetri appannati, lo sguardo al cielo nevoso, l'attenzione al silenzio che nega e recupera i suoni consueti, stimolata dal tocco isolato delle ore della torre di piazza) si liricizza in rapporto all'espressione del motivo a lungo meditato e si dispone a prepararlo, a creargli suggestione e realtà di scena.
Una scena, che nella energica simmetria del componimento, occupa con la sua più diretta espressione tutta la prima metà della poesia sino al trapasso ad una scena più interiore, precisato nel verso 6 in cui il suono delle ore svolge la sua allusione più segreta, il suo intimo riferimento al misterioso sospiro di un mondo perduto e lontano dalla vita consueta, alla voce prima dei morti.
E in questa prima scena che crea l'atmosfera realistico-suggestiva e conduce dall'esterno all'interno, sulla guida di una sensibilissima disposizione progressiva pur nell'apparente giustapporsi staccato e pausato di impressioni a sé stanti, e sul filo unitario di un continuo riferimento all'attenzione centrale del poeta (prima lo sguardo al cielo cinereo e alla neve che lenta fiocca, poi la sensazione del silenzio che abolisce, ricordandoli e trasferendoli in una zona di nostalgia implicita e sommessa, i suoni del giorno consueto, poi l'attutito vibrare dell'unico suono che resiste e che nella sua unicità suggerisce l'avvio più deciso allo sviluppo della interpretazione più personale e poetica di tutte queste sensazioni e di questa dimensione insolita fra realtà e sogno interiore), la realizzazione di un così eccezionale e perfetto equilibrio in tensione raccoglie, come già dicevo, parole, immagini, ritmi più veramente carducciani nella loro funzione più matura e originale.
Si pensi per le parole-colore e suono al tematico "cinereo" (uno dei colori più tipici delle gamme carducciane nella loro bipartita tensione e nei loro impasti a contrasto), al "roco", che nell'eccellente incontro ritmico del verso 5 ("roche per l'aere le ore") riprende la prova di Mors più pesantemente onomatopeica ("e solo il rivo roco s'ode gemere"). O si pensi all'immagine del silenzio della giornata nevosa (Ave e alcune aperture di lettere), o, nella singolare e non più ripresa adozione di un particolare distico elegiaco, all'impasto di ritmo solenne e rapido, scandito e vibrante, di predominante lentezza energica e pensosa con esiti di squillo attutito e di suono cupo nei finali dei distici mediante un ardito impiego (non divertimento prezioso, ma funzione di poesia) delle cinque vocali accentate in fine di verso: quasi con una utilizzazione superiore delle tendenze di ritmo e di suono di Rime nuove e di Odi barbare sulla trama dominante delle seconde.
Poi, dopo il primo distico in cui più forte domina il silenzio e lo squallore della giornata invernale, un movimento più animato cresce nel secondo distico fino al chiaro recupero nostalgico, pur nella negazione, di freschi elementi vitali con il rilievo lieto di quell'"ilare" (vibrante incontro di immagine e suono) e lo squillo rapido del finale "e di gioventù". Mentre il ritmo più lento, monotono, scuro del terzo distico trova un esito più complesso nella direzione di uno sviluppo di distanza suggestiva, di suono che apre il passaggio ad una zona misteriosa, spirituale, approfondita dalla sua stessa misteriosa lontananza.
Proprio sull'avvio del verso 6 (dove la componente del singolare spiritualismo carducciano non prevarica in vaporosità, come troppo spesso succede nello sviluppo senile, lievito e pericolo di Rime e ritmi, fra gli esiti alti dell'Elegia del Monte Spluga e l'inconcludente misticismo della Chiesa di Polenta), la poesia si svolge nella sua parte più intensa, più lirica: quella a cui il Carducci da tempo soprattutto pensava, ma che aveva bisogno, per superare il grido autobiografico, la notazione epistolare-diaristica, appunto di tutta la mitizzazione scenica, del quadro realistico-fantastico entro cui l'appello ai morti, l'impeto della discesa fra loro trova la forza di trasfigurarsi fantasticamente, anche se nei modi energicamente compendiosi e concentrati che son propri del migliore Carducci.
Con un potente passaggio, la mitizzazione dei morti negli "uccelli raminghi" che picchiano ai vetri appannati, rivela il suo significato aperto e la forza dell'immagine iniziale, la sua ferma violenza tempestosa che imprime una eccezionale pienezza alle singole parole, e si ripercuote intera nel finale del distico traducendosi nell'energico riferimento personale in cui la posizione del dativo "a me" dopo "chiamano" per superare la semplice assimilazione al reggimento del primo verbo in un violento salire dell'onda poetica fino all'intensissima forma di dativo personale: "guardano e chiamano a me", che unifica tutto ormai nel rapporto diretto fra il poeta e i morti.
Al loro appello e al loro sguardo affascinante e inquieto risponde l'ultimo distico, in cui il motivo, maturato a contatto di Hölderlin, si svolge e si arricchisce nella risposta ai morti e nel brusco, patetico invito al cuore a placarsi. Un invito che in quella risposta si inserisce audacissimo a movimentare drammaticamente questo dialogo concitato e dolente, ricco di risonanze elegiache e affettuose, accelerato dalla urgenza che proveniva dall'appello dei morti e che si ripercuote nella replica del rassicurante "in breve", per concludersi nel denso, scuro sviluppo di suoni, di direzioni, di parole-immagini funerarie ("giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò"), tese da un'estrema energia volitiva, perentoria e tutta vibrante fra un sospirato desiderio di rifugio e di riposo da tutto ciò che la vita rappresenta di vile, di deludente, di mediocre, di malvagio e un dolente rimpianto e una prefigurazione di abbandono degli aspetti consolatori della vitalità. Aspetti negati assolutamente dai termini estremi del loro contrasto ("giù", "silenzio", "ombra") e che, d'altra parte, anche in questa poesia il Carducci aveva trovato modo di ricordare e vagheggiar sobriamente pur negandoli ("non d'amor la canzon ilare e di gioventú") nel quadro della giornata invernale e del suo simbolo cimiteriale secondo un modulo di contrasto essenziale alla sua visione poetica.
A questo risultato così deciso e pieno il Carducci giunse attraverso una elaborazione che, pur sulla base di un primo abbozzo sostanzialmente ben delineante i termini essenziali della poesia, indica molto significativamente per noi il procedere della sua espressione, e soprattutto isola bene i punti più significativi della poesia, il passaggio sempre più sicuro a quella totale immagine sintetica così sua e matura nello scarto dei pericoli di approssimazione, di letterarietà, o di vaporosità o pesantezza.
L'elaborazione di Nevicata si dispone in quattro momenti: due vicinissimi, il 29 e il 30 gennaio, uno più lontano, 11-18-19-20-21-24 marzo, l'ultimo, quello della stampa, avvenuta il 3 aprile quando la poesia venne pubblicata nella "Rassegna Settimanale" col titolo di Nevata.
Nel passaggio dall'abbozzo (che presenta un complesso insieme di varianti) del 29 gennaio alla stesura completa del giorno seguente, la poesia venne consolidandosi con una intensificazione del motivo centrale e con la sostituzione di forme più schiettamente carducciane ad altre più deboli, più esterne, più letterarie o approssimative.
Al verso 1 "ciel di cenere" diviene "ciel cinereo", addensando la forma precedente più pesante e distaccata nell'aggettivo ricco di vibrazioni foniche e allusive.
Al verso 3 la sistemazione è definitiva e assimila più personalmente i chiari echi leopardiani della Quiete dopo la tempesta. Come avviene anche al verso 5 ormai fissato nella sua forza di precisione e allusione musicale immaginativa, tolto l'ingombro della qualifica dell'aer "freddo" che distraeva dalla sensazione del suono delle ore che ora riempie grave e suggestivo tutto il verso.
Mentre al verso 6, ancora così insufficiente, il Carducci trovava almeno l'esito squillante ("manda" dell'abbozzo diviene "spedì"), che risponde all'esito accentato dei versi 2 e 4: passaggio dall'eco lieta e struggente di suoni vitali a quello misterioso di un primo appello alla visione interiore, anche se in forme d'immagine troppo aperta e direttamente funerea ("le ore | passano messagger che la morte spedì").
Al verso 7, eliminata la tentazione dell'eccesso realistico ("beccano") e cambiato l'approssimativo "annebbiati" in "appannati" così coerente visivamente alla sensazione attutita già realizzata in quella del suono roco delle ore, il verso si completa metricamente con l'acquisto di un minor distacco tra l'immagine simbolica e il suo spiegato contenuto prima troppo chiuso nel verso successivo. E nei versi 7-8 compare l'enjambement che dà sviluppo più concreto al passaggio dall'immagine al suo significato simbolico.
Il verso 8 trova il suo finale energico e doloroso, completando il percorso già seguito nelle varianti dell'abbuzzo ("m'aspettan là giù" variato in "chiaman là giù", e quindi, successivamente, in "invitano reduci", "chiaman reduci a me") e rimandando all'ultimo distico l'intera forza dell'indicazione del luogo cui il poeta è chiamato. E lo sguardo e l'appello dei morti vien meglio scandito, il riferimento personale diventa più intenso, per non dir poi, nell'ultimo distico, di come la forza perentoria del finale "riposerò" si opponga definitivamente al moto più blando (anche se forse più logicamente coerente all'idea della compagnia dei morti) del quasi pacificato "riposeremo là giù".
Molti punti però rimanevano ancora incerti e inadeguati e solo a distanza di mesi un nuovo ripensamento riesce ad avviare la soluzione dell'essenziale passaggio del verso 6 (accanto alla vecchia lezione "passano, messagger che la morte spedì" compare la lezione definitiva, ma con incertezze e cancellature, eliminate solo sulle bozze di stampa) mentre al verso 9 ugualmente si abbinano due lezioni di cui nelle bozze appar compiuta la scelta definitiva: "in breve, o cari, in breve - tu calmati indomito cuore" e (veramente assurda e spia di tentazioni contro cui il Carducci anche in questa poesia ispirata dové lottare) "spengiti, o mente altera, tu calmati indomito cuore" come varianti della prima parte del verso.
Fra le bozze e la stampa gli ultimi ritocchi, e fra questi la felice trasformazione del verso 4 che ne uscì tutto più mosso e illuminato da quel centrale "ilare", la modificazione del verso 2 che passa ad una forma più unitaria, ma ancora mancante del "più" essenziale al ritmo e alla precisazione della scena invernale silenziosa in contrasto con il fervore consueto delle giornate (modificazione quest'ultima apportata nella edizione delle Poesie del 1900) e l'estremo reinserimento del "giù" al verso 10 che il poeta aveva tentato nella terza stesura con una trasposizione sbagliata dei due termini del moto a luogo ("giù all'ombra") e che ora trova la sua collocazione e il suo accordo perfetto.
Così la poesia raggiungeva il suo equilibrio in tensione, la sua luce, il suo chiaroscuro, la sua musica interiore, la sua squadrata nettezza tutta vibrante di violenza appassionata, la sua virile fermezza.