da Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947)

Alcune pagine dal capitolo VI, "Introduzione alla poetica ariostesca". "Con quel volume - scriverà Binni nella premessa all'edizione 1994 di tutti i suoi scritti ariosteschi - contribuivo più compiutamente a una 'svolta' nel problema critico ariostesco in forza della salda impostazione di uno studio di poetica (era l'anno anche della più nota 'svolta' nel problema critico leopardiano, che per quanto mi riguarda, io promuovevo con il mio libro La nuova poetica leopardiana) e con un'articolazione di tutta l'opera ariostesca appoggiata a una presentazione della personalità ariostesca (...) e con un articolato raccordo fra opere 'minori' e Furioso, specie nelle Satire attraverso un ritratto interiore dell'Ariosto che appariva finalmente uomo-poeta, dotato di un senso delle 'cose' attivo e penetrante, base virtuale del suo slancio poetico a un sopramondo meglio precisato come rinascimentale (anche se un Rinascimento troppo burchkardtiano) non solo nelle misure artistiche, ma anche nelle forme letterarie."

Ma intanto se ci si domandasse di ricostruire subito la poetica ariostesca nel suo agire, diremmo anzitutto che essa si realizza essenzialmente nel Furioso e che nelle Liriche, Commedie, Satire fa delle prove idealmente se non sempre cronologicamente precedenti e funzionali, e perciò interessantissime, ma non definitive, verso la creazione di un tono madrigalesco-platonico nelle liriche italiane, verso un puro esercizio di costruzione in quelle latine, verso un tono realistico nelle Commedie, e realistico-discorsivo ben più interessante nelle Satire. Toni, che nel Furioso sussisteranno e si fonderanno su di un piano più alto, su di un piano totalmente fantastico, quasi in una diversa dimensione spirituale. Piena del senso bizzarro e 'romantico' della poesia cavalleresca, avvivata da ricerche particolari e non da una facile e generica bonarietà luminosa, ma tendente ad un sopramondo senza fratture, la poetica del Furioso mira a riprendere le molteplici esperienze letterarie e ad impostarle intorno ad una essenziale esperienza: quella del ritmo vitale nella sua varietà, nella sua avventurosità, nei suoi contrasti, nelle sue esplosioni e nei suoi abbandoni, filo che l'intelligenza individua in una concretezza amata e vissuta e che la fantasia solleva e redime in motivo poetico conservandogli nella massima purezza poetica il calore (che solo a volte diventa eloquente) dell'esperienza concreta, umana e definendolo continuamente in proporzioni musicali e pittoriche, insomma non contenutistiche, con quei tagli non striduli, ma sicuri che hanno tanto fatto parlare di ironia ariostesca. Donde la volontà di creare un tono fantastico e insieme naturale che tutta la critica migliore ha più o meno esattamente accertato, la volontà di creare (sogno massimo del '500!) un mondo che apparisse naturale, fuso, scorrevole in proporzioni perfette e tutte irreali, un mondo diremmo in cui la deformazione tanto cara ai quattrocentisti per superare la bruta realtà, conducesse ad un risultato così coerente ed organico, così limpido e umano da poter essere scambiato per una sublime continuazione di quel motivo di serenità vitale che il secolo sentiva come sine qua non di poesia. Una perfezione dunque che non nasce da un divino dipanare da cantastorie, ma da una mente poetica che agì su precise intuizioni di poetica, su direzioni non casuali, ma in cui ispirazione e decisione si fusero come avviene nella grande poesia che non è né costruzione intellettuale né immediatezza zingaresca.
Una profonda intelligenza poetica (che pure non esclude la spontaneità e vuole anzi provocare condizioni di azzardo suggestivo) è impiegata dall'Ariosto nel costruire le linee del suo poema, nell'incanalare la sua sensibilità musicale in un ordine che già di per sé può apparire quasi il simbolo della più alta civiltà cinquecentesca, il suo inveramento ideale, tanto è insieme perfetto ed intimo, tanto è multiforme, vario e pure armonico, impeccabile, ben lontano da un classicismo trissinesco, dal virgilianesimo di un Sannazaro, e insieme dal puro procedimento narrativo dei cantari anche se ripreso dal gusto di un Pulci o dalla serietà di un Boiardo.
La precisazione della poetica ariostesca nel suo capolavoro serve anche a liberare il Furioso da inutili problemi moralistici (patriottismo, satira della cavalleria, ecc.) che rimangono, sì, quelli storici, punti di contatto con i trattatisti del suo tempo, ma che sono superati in una ricerca meno parziale, superati e svolti secondo esigenze estetiche, dato che lo scopo della poetica ariostesca era la costruzione di un mondo che non fosse solo la semplice idealizzazione del mondo reale nella sua bruta evidenza e tanto meno la rappresentazione di una tesi o di un programma, ma un mondo assoluto, basato sul ritmo, sulla coerenza stilistica, sul puro fluire di una visione che dell'esperienza umana prendeva il più intimo calore, non il sussidio di fotografiche conferme.
Mirava l'Ariosto, con una tendenza che mai abbandonò nel lavoro lunghissimo del poema, a un sopramondo rinascimentale, quasi ad un al di là del suo naturalismo umanistico, quasi una Divina Commedia del '500, quasi l'unico paradiso che quell'epoca poteva sognare, paradiso di perfetta agevolezza, in cui le favole, le avventure, i viaggi, le belle donne sono come un'allegoria non medievale (ma ogni poesia è allegoria, ha un senso più profondo e più vero - proprio poeticamente - di quello che i comuni lettori credono di afferrare e di tradurre in prosa comune!) di quella aspirazione alla serenità, alla concordia nella varietà di quella visione naturalistica e platonica, totalmente umana che il Rinascimento possedeva ormai, oltre le polemiche umanistiche, oltre ed entro le ricerche archeologiche di un passato affascinante.
Questo sopramondo è costruito coerentemente alle sue premesse di superiore armonia con un metodo poetico che consiste nell'assumere il ritmo più profondo della vita nella sua molteplicità (qui il ritmo di una vita errabonda e avventurosa in concrete esperienze umane) come spunto della fantasia che vi costruisce una realtà non astratta gelida, ma di dimensioni nuove, irreali e pur non assurde e sbindite come nelle fantasie di certo romantiasmo scadente. Dimensioni nuove che si possono capire se ci si riferisce ai pittori dell'epoca e se si riflette in quale spazio si estrinsechi il viaggio della fantasia ariostesca. Spazio illusorio e pure concreto, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente accorciate, cui collabora un tempo ora fugace, ora rallentato, intimo alla libertà della memoria e pure chiaro come la divisione delle giornate reali.
Donde quella geografia strana e pur non astratta, a volte preciso paradiso naturalistico come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di un'Europa medievale che l'Ariosto risentiva dalle epopee cavalleresche: le brume settentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra di Francia. Donde un paesaggio concreto e soprareale, chiaro e suggestivo, perché il poeta vuole evocarlo con estrema semplicità, ma su misure irreali e mai pretende di farne, come un po' avveniva nei quattrocentisti, il protagonista della sua poesia, pronto a disfarlo in quel ritmo musicale che unisce, simbolo di una vita superiore, tutte le avventure, tutte le fiabe incastonate nel poema come meravigliosi scorci romanzeschi, tutti i personaggi che, si noti bene, la poetica ariostesca non cura in senso drammatico, come entità organiche inconfondibili e in sviluppo (come se fossero persone), ma che piuttosto vivono in funzione di tutta una scena, di tutto il ritmo fondamentale. Così ad esempio non è tanto un carattere che il poeta cerca in Angelica, quanto in quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità coesistenti con la sua grazia e la sua bellezza l'inizio di svolgimenti fantastici, di avventure poetiche diverse secondo il tema principale che in quel momento si svolge. Come d'altronde, la poetica ariostesca non cerca forme statuarie ed immobili, drammaticità psicologica e commovente, ma svolgimento di temi, rappresentazioni mosse in cui la sua passione e gentilezza sentimentale (Zerbino, Isabella, Fiordiligi) vive tutta come accrescimento di musica, di tono più caldo e concreto, che non rimane mai solo, antologico, ma sempre confluente nella sinfonia generale del poema.
Perciò mentre il suo metodo tende a creare una realtà tutta fantastica in cui le cose della vita umana si ripresentino in una nuova naturalezza tutta alleggerita e pure vaporosa di concretezza, in cui un'altissima deformazione (quella che opera scopertamente nella Primavera del Botticelli) viene a rinnovare dall'interno oggetti e paesaggi che appaiono non un'astrazione a freddo, ma con l'agevolezza, la semplicità di cose appena ritratte senza profonda trasformazione, è naturale anche che l'attenzione dell'Ariosto non si restringesse alla parola o al verso, ma si rivolgesse alla linea in cui parole e versi soggiacciono ad una fluida unità che non cerca accenti isolati in isolate espressioni, ma una continuità musicale, non estremi risultati lirici in un'immagine isolata, quanto la sua funzione per una trama più vasta. Così che l'Orlando è ben poco antologico e la lettura intera è solo capace di dar la misura completa di ogni singolo episodio, di ogni singolo tema. Ed anche in ciò l'Ariosto inverava nella maniera più alta quella tendenza all'opus, al poema, all'unità che i minori e gli intellettualistici pedanti andavano a cercare in nuove assurde Eneidi, e più tardi in conclusione di regole.
Una poetica, quella dell'Ariosto, che dà alla floridezza cinquecentesca una tensione spesso soffocata per troppo splendore, e alle ricerche troppo tecniche del Quattrocento una meta di perfezione serena.