"Montale nella mia esperienza della poesia" (1966)

È una breve ma densa testimonianza del legame profondo di Binni con la ricerca poetica di Eugenio Montale; un legame iniziato negli anni '30. Il testo, pubblicato sul n. 2-3, maggio-dicembre 1966, della rivista "Letteratura", sarà poi raccolto nel volume Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, La Nuova Italia, Firenze 1969 (3a edizione).

Questa mia breve testimonianza vuol essere il più possibile strettamente personale prefigurandosi come "una" di quelle simili e diverse dichiarazioni di uomini della mia età che potrebbero, proprio se strettamente personali, costituire una storia diretta (ricreata dal ricordo e dal recupero spregiudicato del passato lontano e recente) dei debiti verso Montale di tutta una generazione di scrittori e di critici. Potrà risultare anche parziale e insufficiente o sproporzionata, presupponendo, più che evidenziando, la rete complessa di esperienze e vicende entro cui l'esperienza montaliana ha inciso profondamente sulla mia vita di critico (nella tensione a quell'indissolubile nesso delle due parole che proprio Montale recentemente sanciva dicendo di uno storico letterario russo: "fu vero critico perché vero uomo"), ma non sarà meno vera nella sua sostanza: che è quella appunto di una decisiva importanza della esperienza montaliana per me, dal passaggio fra adolescenza e gioventù, fino alla maturità e alla senectus, dagli anni fra '30 e '35 ad oggi.
Fu soprattutto nella difficile situazione della mia prima gioventù - presa fra i postumi dannunziani, certa euforia idealistica-attivistica, gli inganni psendo-sociali e pseudo-nazionali della dittatura, le sollocitazioni insufficienti e fuorvianti della poesia "pura" e della "prosa d'arte" - che la lettura di Ossi di seppia prese spicco decisivo, accese, dall'interno di una vera e moderna esperienza poetica, il senso di tante altre esperienze letterarie e non letterarie che variamente e confusamente convergevano (come dipanare e dar peso a tutte le componenti di quella crisi salutare?) in una spinta di liberazione e di maturazione etica, fondamentale per tutta la mia vita.
Da quella lettura risultava per me l'adesione essenziale ad una concreta poesia: sin da allora la più alta dell'epoca e la più ricca di futuro, la più corrispondente ad una coscienza critica e tragica di quel tempo, coerentemente espressa attraverso una poetica ardua ed aggressiva, in un linguaggio rivoluzionario nella sua scabra porosità e nella sua aggrumata densità, nel suo attrito acre e antidillico, nel suo ritmo anticonvenzionale, nella sua nuova misura che sconvolgeva ogni pregiudizio di canto, di purezza, di perfezione classicistica ed ogni opposizione astratta di contenutismo e formalismo (i termini di tante contese di quegli anni), e così si riverberava violentemente anche sui modi di comprensione della tradizione e del passato.
E ne risultava insieme una sollecitazione trascinante verso un "no" alla vita frivola e vana, alle false positività, agli ottimismi di ogni genere, alla letteratura calligrafica e di evasione, alla stessa femminea e vanitosa "virilità" dei miti della dittatura e dei suoi uomini ed esaltatori letterari. Che poi Montale vivesse interamente le ragioni della sua poesia nel suo stesso vivere quotidiano, fosse volontariamente assente dai lauti festini e dagli "allori" cortigiani e accademici del tempo della dittatura, interpretasse l'antiretorica fin nella sua pratica socievole di cordialità scontrosa e riservata, nella sua amara ironia difensiva e aggressiva (come io lo conobbi nelle mie visite fiorentine al Vieusseux e alle Giubbe Rosse), non era certo fatto trascurabile per chi tanto intensamente cercava l'integralità dell'uomo e del poeta e la trovava poi, nella conversazione e nella attività critica di Montale, genialmente nutrita di una cultura e di una chiarezza ed acutezza di giudizio ben discordante dall'immagine di poeti solo istintivi e tutti chiusi nella loro dubbia purezza e voracemente riduttori della poesia passata o presente a semplice annuncio della propria trionfale epifania. Mentre, proprio sul piano della cultura letteraria e non solo letteraria, le scoperte decisive del critico nella nostra stessa letteratura novecentesca (si pensi almeno a Svevo) e la sua profonda apertura ad un Occidente più vasto della semplice linea impressionismo-simbolismo francese, contribuivano fortemente alla nostra ulteriore sprovincializzazione e rifluivano nella sua poesia e nella sua prosa saggistica, esemplare per densità e lucidità di scrittore europeo.
Per tutto ciò e in forza soprattutto della sua intera risoluzione poetica, Montale divenne per me, - come per tanti altri, allora giovani - il lievito più attivo, il reagente più intenso di tante mie crescenti esigenze, di tante mie scelte più autentiche e decisive, che pur si giovavano delle lezioni di tanti maestri della critica (da De Sanctis, a Croce, a Momigliano, a Russo) e di tante esperienze del passato e del presente letterario ed etico-politico.
Non a caso (per stare più direttamente alla mia vocazione e attività critica) fra la lettura di Ossi di seppia e quella di Occasioni si situano, non solo cronologicamente, le mie esperienze di critico: la Poetica del decadentismo e soprattutto la mia prima interpretazione del Leopardi che, sin dalla sua impostazione in un saggio del '35, si avvalse certo della adiuvante esperienza montaliana (più tardi esplicitamente ricordata nel volume del '47) a rompere l'immagine leopardiana del Croce, del rondismo e della "poesia pura", attraverso la valutazione positiva dell'ultimo Leopardi e soprattutto della Ginestra, con la implicazione di una linea di possibile tradizione leopardiana assai diversa da quella fatta culminare nel canto e nel mito rasserenatore del dolore, di tipo ungarettiano.
Né (evidentemente isolando il riferimento da una rete complessa di esperienze e sollecitazioni accresciute con gli anni e nel ricambio fra una poetica personale e il più assillante senso della storia) potrei celare ad un lettore attento l'eco della sollecitazione della poesia montaliana, nel suo intero arco di sviluppo, entro tante reazioni critiche a testi ed autori diversi. Mentre potevo sottolineare nel presente un montalismo del Saba di Ultime cose, e in un articolo del 1947 su "Italia socialista", disperse le speranze ardenti del '45 e declinando la forza migliore del neorealismo, potevo appoggiare su precise citazioni montaliane un sentimento della musa dell'angoscia e del dramma come resistente alla programmatica ricerca degli eroi e dei momenti "positivi", in un tempo oscuro fra zdanovismo, clericalismo, crescente incubo atomico, che esigeva (ed esige) forti, supreme lezioni di consapevolezza tragica e di dignità virile, senza baldanza e senza viltà, in ogni dimensione della vita, della cultura, della letteratura.
Volutamente perciò - e non per una semplice difesa, non richiesta, del valore poetico e storico dell'ultimo volume montaliano - riporto in questa testimonianza una pagina della mia Poetica, critica e storia letteraria, del 1960 (anche se poi pubblicata in volume da Laterza nel 1963) a cui annetto particolare importanza, sia in rapporto a quanto dicevo del significato della poesia montaliana per me anche negli anni di tante delusioni e della confusa lotta fra "impegno" fazioso e "disimpegno" evasivo, astorico e formalistico, sia in rapporto alla viva presenza di Montale negli esempi ed appoggi vivi del mio discorso metodologico.
"Si potrà infine concludere questa esemplificazione di casi - dicevo in polemica con posizioni critiche o astoriche o viceversa duramente colleganti arco di sviluppo politico-ideologico con arco di sviluppo poetico - con quello del nostro maggiore poeta contemporaneo, Eugenio Montale, e del suo ultimo, per ora, sviluppo in poesie come L'anguilla, Il Gallo cedrone, Piccolo testamento, Il sogno di un prigioniero. Questo ultimo sviluppo è stato configurato a volte nel segno di una invouzione politica e poetica: ma come accettare questa prospettiva quando si misura la forza autentica, direi l'alto e singolare leopardismo di queste poesie e quando si risale ad esse dal tormento di una sofferenza personale-storica? Che noi possiamo, come militanti politici (e sino ad un certo punto quando si guardi a un socialismo interamente rivoluzionario che rafforza la dignità dell'uomo e significa una liberazione non solo sociale, ma, insieme e perciò, interiore dell'uomo, una trasformazione delle strutture non solo economico-sociali), considerare una diminuzione dell'attualità storica di Montale rispetto al significato della sua solitudine e della sua antiretorica di fronte al fascismo, ma che, più profondamente come storici-critici dobbiamo pur sentire nella sua genuina necessità entro le condizioni dello svolgimento della poetica montaliana, del suo pessimismo vitale, dell'affiorare di un più esplicito sentimento di fraternità e di dignità virile (e la stessa maggiore chiarezza non è un abbandono del suo linguaggio, più nuovo, ma corrispettivo di approfondimento della sua visione e della destinazione di essa privata e pubblica). Mentre, anche come uomini politici, vivi con proprie diverse mète ed ideali concreti nel mondo attuale, non possiamo disconoscere l'arricchimento che queste poesie portano alla coscienza del mondo attuale, nella stessa direzione di un "progressismo" rivoluzionario, ma più profondo di ogni semplice strutturazione sociale-economica di tipo chiuso e autoritario".
Ora aggiungerei che le cose dette in quella pagina possono apparire del tutto sfocate quanto ad obbiettivo polemico, nel clima attuale, in cui si sconfessano tutti gli "impegni" e le posizioni storico-ideologiche senza distinguere i livelli e i significati diversi di simili parole e si scivola avventurosamente in nuovi formalismi, in esaltazioni sconsiderate delle "parole prima delle idee", delle tecniche senza le loro ragioni profonde, e in una critica senza doveri di comunicazione e di civiltà: tutte cose assai diverse dal giusto senso della forza autentica della poesia e della sua natura di profonda libertà e promozione di libertà.
Ebbene, per me (e - spero - per altri), la poesia di Montale è ancora prova concreta e profonda del nesso inseparabile fra coscienza, tragica e critica, della storia e della vita, e problemi di linguaggio e di tecnica (in un rapporto irreversibile). Come è prova profonda del fatto che la coscienza tragica e critica non implica né il disgustoso compiacimento della crisi inarrestabile, né il rifiuto di una dignità virile e civile, ne l'abbandono della disperata forza fraterna degli uomini e della loro coraggiosa antimitica e rivoluzionaria ragione.