da La nuova poetica leopardiana, "L'ultimo periodo della poesia leopardiana" (1947)

È il primo capitolo del volume, che segna una vera e propria svolta nell'interpretazione della poetica leopardiana, sia perché infrange definitivamente l'immagine tutta idillica della poesia e della personalità leopardiana che dominava nell'epoca del metodo crociano e della poesia 'pura', sia perché recupera, con saldo uso della nozione di poetica e con una inerente operazione critica analitica, la grande poesia 'eroica' dell'ultimo periodo leopardiano culminante nel formidabile messaggio etico-poetico della Ginestra.

L'esperienza di un lettore ha spesso dovuto costatare di fronte alla storia di un poeta che certi momenti e motivi diversi sono difficilmente riconducibili ad unità e che spesso l'esigenza di riconoscimento della personalità porta a sforzarli in un segno di dubbia autenticità. La tradizione grammaticale formalistica ci invita ad insistere sulle variazioni di temi fondamentali, la eredità romantica ci spinge ad una storia della personalità poetica in senso drammatico. E la critica crociana di stretta osservanza ci chiarisce il bisogno di una formulazione e di una descrizione, di un accertamento del valore totalmente realizzato.
È lo studio di "poetica" nella sua migliore accezione storicistica che può dare alla doppia esigenza di unità e di molteplicità dei motivi poetici entro i limiti di una personalità, la più completa risposta, in quanto è proprio nella poetica che si storicizzano i diversi momenti ispirativi al di là della suggestione psicologica che finirebbe per frantumare una storia in cronaca di sensibilismo descrittivo. Non la romantica eredità della "storia di un'anima", ma storia di poetica che permette di utilizzare ogni dato, ogni indicazione biografica, rettorica, sicuri di vederla scendere al punto essenziale in cui tutto si trasforma da esperienza vitale o letteraria in elemento di disegno artistico, di costruzione poetica.
Si reagisce così all'istintivo bisogno di unità che vive nel tono fondamentale della personalità, ma che può realizzarsi in diversi momenti, in diversi atteggiamenti di poetica: si pensi allo Hölderlin dell'Hyperion, delle grandi Odi ultime, dell'Empedokles, si pensi al Foscolo delle Odi, dei Sepolcri, delle Grazie, si pensi soprattutto al Leopardi degli idilli e al Leopardi degli ultimi canti.

  Dolce e chiara è la notte e senza vento
  e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
  posa la luna e di lontan rivela
  serena ogni montagna... 
  Dolcissimo, possente
  dominator di mia profonda mente; 
  terribile, ma caro
  dono del ciel, consorte
  ai lugubri miei giorni, 
  pensier ch'innanzi a me sì spesso torni... 


Basta avvicinare questi due inizi famosi (l'uno rielaborato fino al '35 sempre nel gusto idillico, il secondo del '31 proprio all'inizio dell'epoca poetica che vogliamo studiare) per sentire la grandissima diversità fra due espressioni intensamente leopardiane, ma ispirate nella linea divergente di due diverse poetiche.
Il primo inizio presuppone una poetica idillica, tesa ad armonizzare, a pausare in distensioni, in serenità conclusiva e quindi in ritmi larghi e senza scosse, fluenti, orizzontali. L'altro è sostenuto da una poetica "eroica" in cui la personalità del poeta batte con energia aggressiva e tende a presentarsi integralmente nella sua affermazione di passione in forme risolute e impetuose, staccate in potenti blocchi di cui sono simbolo i due aggettivi che guidano questo tema musicale senza riposo di verbo, di descrizione, di colore, e in cui le parole sembrano legate per una comune energia esplosiva e l'ultimo verso accentua l'impèto e la solennità assorta con la sua scandita impostazione.
Due poetiche lontanissime anche se nutrite da una comune personalità: la prima di passione placata in dolcezza di paesaggio, in nostalgia di ricordo, la seconda di passione presente come prova di pienezza ed unità personale, come validità poetica. Due poetiche lungamente applicate e che noi dobbiamo tanto più distaccare per reagire alla confusione che ingenera il loro mancato riconoscimento, a quell'atteggiamento critico che eleva un motivo ad unico motivo veramente leopardiano e degrada a momenti di insufficienza tutte quelle poesie che a quel motivo non aderiscono.
Questo infatti è il punto dolente del problema leopardiano: chi giunge ai nuovi canti dopo la lettura dei grandi idilli si trova disorientato di fronte a così grande diversità e questa impressione si cambia facilmente in giudizio comparativo ed in svalutazione delle nuove poesie considerate come deviazione dal motivo trionfante della poesia idillica. E poiché non si approfondisce di solito se non episodicamente e psicologicamente la situazione del nuovo Leopardi e non la si vede in funzione di poetica, è facile assumere la posizione idillica come l'unica posizione veramente leopardiana ed ogni divergenza di tono come infiacchimento e turbamento d'ispirazione.
Impressioni che non derivano tanto da una lettura ingenua, quanto proprio dallo sviluppo stesso del problema critico leopardiano quale è venuto a svolgersi in atmosfera crociana.
Se ripercorriamo rapidamente la storia della critica leopardiana mirando a cogliere il nucleo centrale del nostro problema, vediamo subito che la critica precrociana aveva posseduto, nella sua incertezza conclusiva, un senso vivo, ma generico della complessità leopardiana e la sensazione di una profondità spirituale e personale non legata alla destinazione idillica e capace persino di un pensiero filosofico organico e sistematico.
Già il De Sanctis per la sua formazione e per il suo sincero amore del concreto si dimostrò nel saggio sul Leopardi particolarmente disposto ad affermare, sia pure attraverso condizioni sentimentali, la forza integra della personalità leopardiana non solo contemplativa (il Leopardi spettatore), e anche se manca un suo giudizio sugli ultimi canti per l'interruzione del saggio, non vi è dubbio che egli avrebbe sentito il valore della forma romantica degli ultimi canti. Egli aveva già mostrato di sentire nel dialogo su Leopardi e Schopenhauer e in alcune frasi della Storia, il carattere positivo, eroico di certo pessimismo leopardiano e quando diceva "Questa vita tenace di un mondo interiore, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l'originalità del Leopardi e dà al suo scetticismo un'impronta religiosa", aveva certo soprattutto d'occhio il periodo della maggiore certezza, della maggiore persuasione leopardiana.
E così, in direzione della Ginestra, sentiva che "questa morale eroica, fondata sull'affratellamento di tutti gli uomini contro il destino... è la parte più originale e altamente poetica del pensiero leopardiano". E se questa valutazione non implica una accettazione delle espressioni di quella personalità come poesia, pure è chiaro indizio che un critico unitario come il De Sanctis avrebbe sentito l'ispirazione dei nuovi canti in una specie di integrale unità pensiero-poesia secondo un'aspirazione che tutto il romanticismo ebbe e che il De Sanctis nutrì persino come propria espressione poetica. Era il romanticismo più maturo che prendeva coscienza della poesia più romantica del Leopardi, mentre, anche a causa della mancanza di un esplicito giudizio desanctisiano, nell'epoca positivistica, il valore dato ai nuovi canti, specie alla Ginestra, prese troppo il carattere di crudo contenutismo, di omaggio di liberi pensatori ad una espressione che veniva magnificata e considerata poetica per il suo significato anticattolico e materialistico.
Fu il Carducci ad occuparsi, nel suo saggio generale sul Leopardi, del periodo posteriore al Pensiero dominante distinguendolo in lirica appassionata e lirica filosofica secondo un apprezzamento sentimentale e frettoloso, particolareggiato in giudizi sui singoli canti altrettanto affrettati e sbiaditi. Pure la svalutazione del Consalvo per la sua deficienza di energia indica un certo senso della ispirazione fondamentale di questi canti, ispirazione ritrovata con parole sia pur poco adatte e con la tendenza più a retorica che a critica, mostrando anche nell'ammirazione per la Ginestra una confusa coscienza di quell'arte non decorativa, non didascalica, ma tesa ad espressione unitaria e personale.
Solo con il Croce le posizioni ingenue di lode degli ultimi canti cadono sotto una critica tanto abile ma tanto unilaterale, che andando alla ricerca di poesia e non poesia finì per identificare la prima con gli idilli e la seconda con ogni forma non idillica. Era lo stesso gusto crociano chiuso in un cerchio ben chiaro (Ariosto-Carducci), scarsamente aperto alla poesia romantica ("molto abbracciante, poco stringente" come egli dice di Hölderlin) anche nel suo costruirsi potente e drammatico. Posizione diffidente verso la poesia romantica, che nel caso del Leopardi si complicò con una ripugnanza di temperamento per l'atteggiamento leopardiano se non quando si rasserena in contemplazione e ricordo. Chiarificazione circa le confusioni sulla "filosofia" del Leopardi, ma incomprensione di tutto ciò che non diveniva armonica serenità.
La tesi crociana che nella esclusiva caratterizzazione dell'idillio implicava un'assurda svalutazione di tanta poesia leopardiana, ha trovato recentemente una più decisiva precisazione nel saggio del Figurelli che già nel titolo porta l'estrema conseguenza di questa posizione. Ricercando la radice della poesia idillica nell'unica poeticità di un atteggiamento idillico coerente alla natura psicologica del Leopardi, il libro del Figurelli riduce la complessità leopardiana ad un atteggiamento contemplativo (lo spettatore alla finestra, sia pure del proprio mondo interiore) in cui le affermazioni degli ultimi canti o svaniscono o sono prosa o vengono con sforzo inutile mimetizzate idillicamente sullo spunto di ogni minimo indizio di ritmo più dolce, più colorito. Scarsi ostacoli han contrastato alla tesi crociana il predominio nel campo critico se si esclude un tentativo del Malagoli, qualche accenno nella critica del Fubini e spunti notevoli, ma sfasati esteticamente nel Vossler.
Un tentativo determinato in questo senso fu da me compiuto in un lavoro uscito nel 1935: Linea e momenti della poesia leopardiana, ricavato da un precedente lavoro scolastico del 1933-'34. Quel saggio lontano partiva da un'impressione generica della grandezza degli ultimi canti e della loro sostanziale unità di tono, della differenza dal tono idillico e tendeva ad accertare anche biograficamente uno stacco, un ingrandimento spirituale, un atteggiamento nuovo, più virile, come di chi avesse acquistato meglio il senso della propria personalità e volesse portarlo nella vita, affrontare il presente, non allontanarlo nel ricordo o nell'armonia del paesaggio e del quadro idillico. Un Leopardi fatto più cosciente del proprio mondo interiore fino a sentire il bisogno di presentarlo non in forma di mesta elegia ma come valore e perfino come guida di fronte a un mondo sciocco, a un destino malvagio negati con energia suprema.
Quel Leopardi più energico e combattivo (togliendo a queste qualifiche ogni equivoco di romanticismo facile, byroniano) viene a far urgere nella poesia la sua personalità più profonda attraverso un'adeguata poetica. Donde la costatazione di una funzione nuova del pensiero leopardiano che più direttamente confluisce in sintesi poetica, in elemento di poetica con il tono non analitico, ma unitario e affermativo, di una protesta e di un messaggio radicali al senso della vita e della poesia. La nuova poetica che ha operato con continuità attraverso diversi stati d'animo e sforzando persino certe situazioni sentimentali ben al di là dunque di un adeguamento mimetico ad ogni sfumatura psicologica, mi apparve caratterizzata dalla energia con cui il Leopardi vuole affermare e negare, dall'effetto perentorio che vuole raggiungere non oratoriamente, ma per intensità poetica sia nell'affermarsi identificato con il pensiero d'amore sia nel negare ogni palpito alla realtà, sia nell'affermarsi evangelicamente rivelatore di una verità e di un messaggio vitale.
Poetica della "personalità" nel senso più romantico di tale espressione, nel senso che il più sobriamente possibile avvicina quest'ultimo Leopardi più di qualunque altro romantico italiano ai grandi romantici europei nella loro esigenza di assoluto colto nell'atto poetico, non come armonia idillica a cui pure aspirava un altro atteggiamento romantico.
Solo così mi parve possibile comprendere una parte così cospicua della produzione leopardiana che rimane di solito nel limbo di un giudizio esitante fra svalutazione prosastica ed accettazioni parziali, in base ad un paragone continuo con una poetica che non è più valida per un Leopardi così diversamente impegnato.
E mi parve, come mi sembra ancor più chiaramente in questa ripresa di una intuizione giovanile, che questa precisazione di "poetica" non assicuri solamente la comprensione storica dei canti posteriori al 1830, ma arricchisca tutta la vita della poesia leopardiana allargando il disegno fragile di un ultimo, per quanto altissimo, dominio di Arcadia.
La stessa poesia idillica trova posizione in una offerta di personalità più larga e potente, come la Sesta di Beethoven sarebbe più facilmente limitata dalla mancanza della Settima o della Nona.