da La protesta di Leopardi (1973)

Sviluppo dell'introduzione all'edizione 1969 di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, il volume - con i suoi ampliamenti nelle edizioni successive - ben rappresenta il dinamico laboratorio binniano, proponendo un'originale e appassionata interpretazione "in atto" della poetica e della poesia di Leopardi, il poeta centrale nel percorso critico di Walter Binni che nella premessa all'edizione 1988 scriverà: "La ripubblicazione attuale della Protesta di Leopardi intende essere non tanto una semplice riaffermazione della mia interpretazione leopardiana in tempi così cambiati da quelli in cui essa si propose e venne strutturandosi nella sua maggiore consistenza, quanto un ulteriore modo di collaborazione alla discussione critica sempre in atto sul nostro massimo poeta-pensatore degli ultimi secoli. L'attualità del grandissimo creatore della Ginestra, capolavoro intero e supremo verso cui si svolge, entro una complessità eccezionale di linee, il filo più profondo della personalità e dell'esperienza esistenziale, filosofica e artistica di Leopardi, è testimoniata da un sintomatico preannuncio dello Zibaldone, là dove, nel 1827, il poeta, proponendo 'congetture sopra una futura civilizzazione' anche degli animali, 'e massime di qualche specie' (...) 'da operarsi dagli uomini a lungo andare', scriveva: 'Insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove massime in quanto all'estensione, e finché vi siano creature civilizzabili e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo'.
La lettera non venne mai stesa, ma ad essa certo il Leopardi seguitò a pensare come a un messaggio rivolto a un 'giovane' del lontano futuro, da cui sperava di poter essere compreso, diversamente da quanto era in grado di fare il suo tempo. Quel messaggio, per lui doveroso, proprio nella consapevolezza della fragilissima condizione umana e sempre più sentito come suprema sfida consegnata alla forza della sua poesia, ci è stato lasciato in quella sorta di testamento filosofico, morale e insieme inseparabilmente poetico che è la Ginestra. Nulla di consolatorio e di catartico in questo canto che invece trasmette ai suoi lettori una profonda consapevolezza della reale e supremamente tragica condizione dell'uomo nell'universo, e insieme la doverosità di una resistenza 'eroica' (nel senso più veramente leopardiano), scaturita dal crollo di ogni illusione, di ogni mito spiritualisticoe umanistico-prometeico, compe via ardua, senza alcuna garanzia di successo, di una prassi personale e interpersonale, nella direzione di una vera 'società' umana. E certo molti dei migliori 'giovani' di questo ultimo scorcio del 'ventesimo secolo' potranno ben sentire l'urgenza dell'appello leopardiano proprio in questo tempo, tra la minaccia nucleare, i crescenti disastri ecologici, e il prevalente rifugio nel 'privato', di fronte alla diminuiita tensione alla costruzione del 'bene comune' e di una società libera, egualitaria e solo così veramente giusta e fraterna."
Il brano che segue è il primo capitolo del volume, "La personalità storico-poetica del Leopardi"
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La grande poesia del Leopardi ha provocato un enorme lavoro di interpretazioni e di ricerche critiche volte a cercare definizioni centrali, formule esaurienti, chiarimenti particolari di una così eccezionale personalità e della sua altissima espressione artistica.
E tuttavia solo in tempi relativamente recenti si è profilata una svolta decisiva (anche se ovviamente tutt'altro che priva di stimoli e spunti essenziali nel precedente corso del problema critico leopardiano) che attualmente appare non facilmente reversibile e tale da sorreggere tutto un ulteriore lavoro critico assai diversamente indirizzato rispetto al filone e all'impostazione centrale della critica anteriore a quella svolta e al nuovo corso della interpretazione leopardiana. Pure nei limiti di una inevitabile schematizzazione ed estremizzazione, l'impostazione centrale che ha dominato a lungo - sulla base della grande interpretazione desanctisiana, ma con irrigidimenti di questa nella critica di tipo idealistico-crociano e in quella della "poesia pura" - può consolidarsi nella prospettiva della natura "idillica" della poesia leopardiana, frutto di una centrale disposizione della personalità del poeta alla contemplazione, all'introspezione tutta solitaria e distaccata dall'attrito della storia, alla morale di "uno spettatore alla finestra", di un uomo incapace di partecipare alla vita, e vivo solo nella liberazione catartica della poesia, ripugnante, nella sua direzione più vera, ad ogni ibridazione con le forze del pensiero e dell'intervento storico, pena la sua caduta nell'oratoria e nella discorsività raziocinante e sterilmente impoetica. Sicché, al margine estremo di tale impostazione si potè giungere a parlare del Leopardi come "ultimo divino pastorello d'Arcadia" o di personaggio umanamente non molto diverso dal Metastasio, ritrovando magari nel suo pessimismo qualche consonanza reazionaria con le posizioni sanfedistiche del padre Monaldo e sostenendo l'idea che la vera morale leopardiana era quella di un escluso dalla vita e perciò incline alla morale stoica dell'astensione e del disimpegno.
Ora la nuova svolta e il nuovo corso critico si sono caratterizzati proprio per una diversa valutazione della personalità leopardiana (e quindi della sua poesia), ricca di potenzialità complesse e difficilmente livellabili, ma fondata su di una radice di forza energica, di volontà di intervento a livello di problemi storici, culturali, letterari, esistenziali, di morale eroica variamente affermata e variamente operante, nel lungo arco dell'esperienza leopardiana (e soprattutto matura e sicura nell'ultimo periodo di questa), ma sostanzialmente vibrante, almeno come aspirazione, anche quando essa sembra cedere al peso degli scacchi e delle delusioni. Come può risultare da quell'importantissimo preambolo alla traduzione del Manuale di Epitteto del '25 che predicando l'utilità dell'astensione in "spiriti deboli per natura o debilitati dall'uso dei mali", precisa autenticamente come a quella pratica provvisoria il Leopardi si fosse ridotto "quasi mal suo grado" e insieme esalta appassionatamente la morale eroica come propria degli spiriti grandi e forti "che non potendo procacciarsi" "la beatitudine né schivare una continua infelicità", si ostinano "nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente e contrastano" "almeno dentro se medesimi alla necessità" e fanno "guerra feroce e mortale al destino come i Sette a Tebe di Eschilo e come gli altri magnanimi degli antichi tempi".
Sicché quella pratica di utile "noncuranza delle cose di fuori" ("quantunque niente abbia di generoso") appare chiaramente come una via secondaria e accessoria e non promuove (come appunto non avviene in quella fase più veramente depressa) quel complesso moto del fascio intero di forze morali, intellettuali, sentimentali, da cui ha origine, con varie gradazioni e varie direzioni di poetica, la poesia leopardiana. E soprattutto questo va decisamente affermato di contro alla tesi della natura idillica e puramente idillica della poesia leopardiana. La poesia leopardiana più intensa ed alta (nella stessa fase più qualificabile come "idillica" nel senso leopardiano di quella parola: "idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo") non nasce da una separazione "depurante" della forza fantastica da quella dell'intelletto e della prospettiva morale ma proprio invece dalla collaborazione e dal ricambio ed attrito dell'intero fascio di forze della personalità leopardiana, della sua fortissima coscienza morale, della sua tensione intellettuale e pragmatica, tanto diversamente profilate nella loro direzione fondamentale e nel loro rapporto con la storia e con la ricerca di una verità non astratta, ma destinata alla prassi del comportamento umano, da rendere tutt'altro che assurda - almeno nei suoi termini più generali - la delineazione del Luporini di un Leopardi "progressivo" nello sviluppo del suo pensiero e nella tenace lotta con le ideologie della Restaurazione. Né quella collaborazione naturalmente va intesa come un "dopo" della poesia che mitizza un materiale separatamente elaborato e formato dal pensiero, ma ripeto, da un ricambio e da una convergenza in cui la poesia si alimenta del pensiero e, insieme ad esso collabora, con la sua forza di intuizione tanto diversa da una semplice catarsi e da un rasserenamento idillico dei suoi contenuti sentimentali e conoscitivi.
Nella svolta critica di questi ultimi decenni si son venute ponendo le basi di una comprensione più storico-critica del Leopardi nella sua possente personalità, nella ricchezza delle sue forze (perfino la filologia leopardiana è stata riconosciuta non come peso erudito, come semplice materia e pretesto di nostalgie idilliche raffinate delle "favole antiche", ma come autentica vocazione e forza del suo ingegno e solo su tale base, sostegno di acutissima forza critica e stilistica) e nella loro integrazione e ricambio, nella sua prospettiva di poeta portatore - con la voce autentica e la novità originalissima della poesia - di una persuasione eroica, di una intransigenza morale, di un coraggio della verità, di un pessimismo energico, inseparabili da un'assidua battaglia nella storia del suo tempo e da una esperienza (sofferta fino al "martirio") della condizione umana, avvalorata dalla testimonianza concreta delle sue stesse malattie fisiche, delle sue pratiche sconfitte, mai interamente accettate in forma inerte e passiva, e progressivamente commutate in una sempre più densa protesta storica ed esistenziale di altissimo valore nella storia dell'epoca romantica e della sua crisi. La sua stessa poesia, culmine ed espressione profonda della sua esperienza totale appare così tutt'altro che una consolazione e un idillio "senza passione" e e anche quando, nelle fasi meno scopertamente combattive ed eroiche, essa raggiunge i suoi toni più pacati ed equilibrati, mai manca - al fondo - di una tensione profonda, di un raccordo con la sua pressione intellettuale e la sua drammatica esperienza e problematica. Sicché par di dover accettare (anche se estratti da una zona precisa della sua poetica prima delle Operette morali), per la comprensione della sua poesia, gli esiti della sua convinzione estetica secondo cui l'effetto della vera poesia è quello di cagionare "nell'animo de' lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni" e la poesia "ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l'animo nostro in riposo e in calma".
La "radice" dunque della personalità e della poesia leopardiana non è idillica, ma tensiva, energica ed "eroica" (nel vario senso che tale parola prende negli atteggiamenti intellettuali, morali e poetici del Leopardi: coraggio della verità, opposizione e protesta personale e storica, lotta contro la scomparsa degli ideali e contro la mediocrità e stoltezza, contro gli inganni della ragione sterile o, poi della natura matrigna), anche se, ripeto, questa è la radice degli atteggiamenti leopardiani e non la sua monotona e indiscriminata forma di poetica, così come sarebbe grave prospettare un Leopardi sempre e ugualmente inarcato e apertamente "eroico" decurtando tutta l'immensa ricchezza di componenti del suo pensiero, della sua poesia, della sua esperienza.
E del resto la posizione estetica del '23, a ben vedere, è riassorbita - non annullata - nei pensieri sulla "lirica" corrispondenti alla genesi e allo sviluppo dei canti pisano-recanatesi del '28-'30 e che, nella loro fertilità di anticipazioni sulla via delle meditazioni estetiche moderne (la "doppia vista" del poeta, la natura antimimetica della poesia, la sua genesi in una esperienza assolutamente autentica, sofferta, è presente nella composizione), non conducono però senz'altro verso certe nozioni novecentesche della "poesia pura" e del "puro frammento" poetico, se essi possono ammettere come "lirica lunga" lo stesso poema dantesco, con tutta la sua complessa costruzione intellettuale e profetica, perché "vi è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti", e se essi puntano sempre sugli effetti vitali della "vera" poesia "contemporanea" (ché "essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire, e ci accresce la vitalità") e così pur sempre diversificano la concezione leopardiana della poesia (còlta soprattutto nei suoi rapporti mai dimenticati col lettore e quindi in una dimensione mai tutta privata e senza destinazione di comunicazione) da quelle di una pura catarsi o gioia personale fine a se stessa, separata dalla vita e dalla stessa "società civile" in cui la poesia costituisce una forza essenziale ed autentica, senza con ciò divenire un dubbio unicum di compenso mistico alla inferiorità e vanità di ogni altra espressione della vita e della storia. La poesia è una tensione che si nutre di altre tensioni e che a queste contribuisce in un circolo denso e inscindibile.
Così, se a misurare la discriminante diversità della interpretazione idillica da quella più recente sopraindicata, basterà riferirsi alla diversissima valutazione della mèta terminale e suprema del lungo itinerario leopardiano, la Ginestra, per me capolavoro sconvolgente e unitario e prima considerata invece, per lo più, come predicazione oratoria illuminata da rari squarci idillici (o idillico-cosmici), occorrerà ben capire come a quello stesso capolavoro il Leopardi sia giunto non casualmente e miracolosamente, ma attraverso esperienze complesse, attraverso un lungo svolgimento di posizioni e di espressioni portate strenuamente sino in fondo e così dinamicamente collegato entro un'esperienza storico-personale e uno sgorgo di poesia di suprema organicità e ricchezza.
Ciò che caratterizza la personalità leopardiana è un impegno appassionato, "eroico" per il suo strenuo bisogno e coraggio di intransigenza intellettuale e morale, che porterà il Leopardi ad impostare ed esaurire fino in fondo - con l'ausilio di una mente vigorosa e implacabile - successive posizioni ed esperienze che riprendono la grande eredità del pensiero settecentesco rinnovandola energicamente alla luce della problematica primo-ottocentesca sia che il Leopardi attacchi lo "snaturamento", l'alienazione dell'uomo dalla natura, sia che poi viceversa aggredisca, con più matura persuasione, gli inganni ed i miti ottimistici e provvidenzialistici che mistificano la reale condizione dell'uomo e il vero volto della natura e dell'ipotetico suo creatore. Al centro vi è una inesausta passione per l'uomo (anche quando appaiono elementi misantropici, di un amore deluso, "par trop aimer les hommes" per dirla con Stendhal in Lucien Leuwen), per la sua integralità, sia che essa venga ritrovata nella sua adesione alla natura e alle illusioni generose da quella generate; sia che essa venga poi confermata nella sua virile capacità di riconoscere la sua sorte misera e tragica, senza accettarla m maniera passiva e rassegnata. Al centro vi è una protesta e una contestazione attiva contro tutto ciò che depaupera e avvilisce le forze vere dell'uomo, sì che questo presunto "sombre amant de la mort" (Musset) o "religioso amante del nulla" (Vossler) ricava sempre dalla sua sofferta e coraggiosa indagine sulla natura e sull'uomo un supremo interesse per l'oggetto centrale della sua passione intellettuale, morale poetica: l'uomo, spietatamente analizzato e magari assalito nelle sue stolte ideologie e nelle sue tentazioni di cedimenti e di rinuncia, come di boria e di orgoglio prometeico o platonico, ma sostanzialmente e disperatamente amato nella sua schiettezza e nella sua virile energia, nella sua desolazione consapevole e nel suo stesso destino di caducità che tanto fa risaltare il fascino, nel suo effimero passare, delle sue qualità autentiche di nobiltà e di gentilezza, nella sua capacità di essere uomo fra gli altri uomini.
Sicché la stessa vicenda concreta del Leopardi, fra vita e poesia, si prospetta non come la semplice "storia di un'anima", ma come un'esperienza drammatica dentro la storia e dentro la problematica dell'uomo di cui lo scrittore sonda ed esplicita le diverse possibilità fino a toccare i margini del nichilismo e dell'individualismo più disperato, ma sempre riprendendo una linea attiva, che culminerà nella prospettiva di solidarietà combattiva della Ginestra, mai pacificata con i vari "oppressori" dell'uomo, siano essi la ragione sterile e mortificante, egoistica e calcolatrice, siano essi la natura malvagia e una divinità neroniana, combattuta sino all'estremo della bestemmia più ardita e ribelle.
Leopardi può toccare e rivelare, sull'onda della sua delusione storica d esistenziale, i più profondi motivi del nulla, della noia-angoscia, della vita come morte, ma mai manca di dare a questi stessi motivi, pur così potentemente individuati ed espressi, un valore di stimolo all'energia virile dell'uomo, alla nobiltà del suo coraggio di verità e di resistenza ribelle. E i suoi veri avversari non sono gli uomini, ma le loro immagini degradate dalla viltà, dalle menzogne interessate o sciocche, dalle ideologie spiritualistiche, religiose, reazionarie, e, dietro quelle, l'ordine naturale della realtà sbagliata e corruttrice.
Supremo contestatore dei sistemi storici della Restaurazione reazionaria o del moderatismo liberale-spiritualistico, Leopardi è insieme supremo contestatore del sistema stesso della realtà e del suo ordine ferreo e scellerato, di cui lo stesso appassionato sostegno al sistema benefico della natura (così diverso comunque da quello di un sistema religioso basato su di una doppia realtà terrena e ultraterrena) serve a rivelarne - proprio sostenendolo inizialmente e indagando poi sino in fondo - la più vera realtà di ordine crudele e oppressivo per l'uomo.
Impossibile ricavare da questo percorso di esperienza una vera nota di religiosità magari "negativa" (si nega ciò che profondamente si ama, si cerca), ché Leopardi può sì bestemmiare la virtù e l'uomo per troppo amore, ma la sua protesta atea o antiteistica è senza possibilità di risalite da una specie di amore frustrato ad un'altra "fede", e la via stretta delle sue definitive conclusioni è solo quella dell'uomo e della sua prassi di etica di solidarietà in un mondo deserto da ogni ombra divina e trascendente, liberato anzi appassionatamente da ogni ricaduta in quello che è l'oggetto polemico più profondo del Leopardi: il misticismo, la religione, la speranza in un compenso ultraterreno.
Voltaire poteva ancora riequilibrare la disperata diagnosi dei mali dell'uomo, nel Désastre de Lisconne, con la speranza in un mondo migliore e provvidenziale se non per i singoli sulla terra, per il loro insieme in un mondo ulteriore. Leopardi nega ogni provvidenza per i singoli come per tutti, e proprio nel messaggio finale e conseguente della Ginestra ritrova una via di difficile e singolare "progresso" per l'uomo, proprio in quanto tutti gli uomini si raccolgono insieme nella lotta contro la natura e contro ogni provvidenza divina. Anzi per gli uomini è possibile questa via stretta della loro difficile civiltà solo se essi hanno scartato per sempre ogni ricorso a quelle speranze e a quei poteri e hanno riconosciuto nella loro crudele potenza il primo loro nemico e il primo fondamento polemico della loro unità nella lotta e nella protesta.
Perciò nella formazione dell'uomo moderno Leopardi ha un posto a suo modo decisivo e una forza dirompente ed eversiva che non possiamo riconoscere ad altre personalità della crisi romantica, e la sua prospettiva interamente laica ed umana appare come la più formidabile voce ammonitrice di fronte ad ogni riaffiorare di soluzioni trascendenti e fideistiche. E il suo stesso profondo sentimento democratico di sentimento della sorte comune e del comune dovere di solidarietà e di lotta per la civiltà umana) appare tanto più profondo quanto meno riconosce qualsiasi "sen regale" non solo in terra, ma anche in cielo, qualsiasi radice trascendente di autorità: l'uomo è solo con i suoi simili e solo con loro può e deve tentare la costruzione ardua della propria civiltà. Così la prassi tutta umana sostituisce ogni ricorso metafisico e l'uomo sulla terra, cupamente fisonante dell'eco ossessiva della caducità, si stringe con i suoi "incolpevoli" fratelli, "confederati" contro la natura e stretti dal vincolo severo e preclusivo della consapevolezza coraggiosa della loro vera sorte limitata e tragica e del loro dovere di solidarietà unicamente umana e sociale.
E se nella storia successiva appare incontestabile l'apporto possente della dialettica hegeliana e i suoi sviluppi soprattutto nel materialismo stofico e dialettico, la non conoscenza, da parte del Leopardi di tale nuova prospettiva non può portarci né a svalutare né ad esaltare indiscriminatamente, alla luce dei nostri problemi attuali, la sua diversa posizione, ma certo a riconoscerla estremamente importante, come essa storicamente si configurò, acuendo così la sua forza di diagnosi della tragica condizione umana, valida comunque come momento essenziale nella rottura delle concezioni ottimistiche, provvidenzialistiche, religiose, nella percezione profonda di una realtà sbagliata e di un ordine ingiusto che nessuna infatuazione dialettica può interamente sopire e sanare, come avvertimento contro troppo facili entusiasmi di nuovi paradisi in terra e come base di una lotta strenua doverosa, pratica, sociale, sempre consapevole di limiti umani materiali e biologici e non perciò respinta a nuovi richiami di compensi trascendenti ed evasivi.
Perciò anche sarà da dire che la filosofia sensistica materialistica di origine illuministica su cui si fondò nel suo sviluppo il Leopardi non può essere storicamente qualificabile come un "carcere" da cui Leopardi si libererebbe con la sua "poesia", ché essa per lui e per quella fu viceversa storicamente forza essenziale nella sua resistenza ai compromessi delle ideologie della Restaurazione e alle tentazioni di un romanticismo spiritualistico e neocattolico, medievalizzante e mistico, nel cui stesso attrito Leopardi potè, d'altra parte, dare altro vigore al suo stesso slancio al sogno, alla fantasia, al sentimento, di quanto sarebbe avvenuto (lo insegna anzitutto, come vedremo, L'infinito) se egli si fosse abbandonato alla rêverie romanzesca e al patetico languido ed evasivo di tanta letteratura romantica.
Ché nella stessa componente "idillica" (così essa stessa singolare e lontana nel suo centro da un idillismo descrittivistico e misticheggiante) vive un profondo rilancio di un severo edonismo sensistico coerente ad una storia di esperienza concreta di se stesso e dell'uomo, mentre essa non appare mai priva interamente di raccordi con gradazioni di sentimenti e motivi di poesia-conoscenza e di poesia come modo di recupero (il caso dei cosiddetti "grandi idilli" del '28-'30) del passato e di persone scomparse o di verifica di persuasioni intellettuali nel denso della vitalità più schietta ed autentica e dunque sempre in un'impossibile accezione di semplice sogno e mito evasivo di rinnovata Arcadia o di privatistica degustazione descrittivistica di uno "spettatore" senza passione e senza interna pressione di fondamentali problemi esistenziali e storici.
Sicché la stessa ammissione di momenti di poetica idillica (e a volte di margini più slittanti nella direzione di un compiacimento idillico fine a se stesso) richiederà, a suo luogo, attenta pracisazione e qualifica assai diversa da quella della tradizione critica di tipo crociano o derobertisiano e persino da quella tanto più complessa e originariamente fertile della tesi idillica desanctisiana, spesso viceversa insidiata pur fortemente dalla paura dell'allegorismo e dall'attrazione per una troppo realistica felicità di "quadretti alla fiamminga".
Infine per quanto riguarda la posizione classicistica del Leopardi dovrà ancora notarsi come essa costituisca un'ulteriore forza della personalità e della poesia leopardiana a difesa dalle attrazioni romantiche più sentimentalistiche e spiritualistiche (con tutto ciò che il classicismo comportava sulla forza di elaborazione stilistica e di riferimento ai valori classici eroici, razional-naturali), ma che sarebbe erroneo chiudere il Leopardi in una schematica e chiusa definizione del classicismo (ribaltata a generale equazione classicismo-progressismo di fronte a romanticismo-reazione) senza tener conto dell'enorme acquisizione nella formazione leopardiana delle inquietudini preromantiche e dello stesso attrito non solo polemico con il romanticismo, se la stessa finale prospettiva della Ginestra supera di gran lunga ogni pura equivalenza di classicismo e vive di un'accensione e tensione male immaginabili senza un contatto profondo con l'esaltazione romantica delle forti passioni e della poesia-messaggio, così come l'illuminismo vi si colora di una ben romantica tensione spirituale e sentimentale-naturale mal riconducibile alle possibilità della poesia della "saggezza" illuministica.