Dall'ultima lezione leopardiana, sulla Ginestra (1993)

In occasione dell'ottantesimo compleanno di Binni, numerosi allievi e colleghi dell'Università di Roma, ma anche delle altre Università dove Binni ha insegnato - Genova, Pisa, Firenze - chiedono al "maestro" un'ultima lezione, in un'aula piena di giovani studentesse e studenti. Una lezione "a braccio", nella migliore tradizione di una lunga e appassionata attività di critico-insegnante. Il testo sarà poi raccolto nel volume Lezioni leopardiane (1994) .

Ultima fase appunto in cui Leopardi viene a svolgere (sono gli ultimi anni napoletani) una specie di forte polemica, una sorta di battaglia in versi, ma sempre veramente di grande realizzazione poetica, checché se ne dica o se ne sia detto. Cioè tra la Palinodia, I nuovi credenti e soprattutto i Paralipomeni della Batracomiomachia, che sono una delle opere più grandi che Leopardi ha scritto e una delle opere più fermentanti, veramente ribollenti di pensiero anche persino prepolitico e fin politico, in cui si affermano principi di tipo rivoluzionario come lo "stato franco", cioè le repubbliche popolari democratiche, che sviluppano modernamente i caratteri precipui delle repubbliche popolari antiche. Tutti i principi del pensiero della Restaurazione vengono aggrediti violentemente. Ed è soprattutto una battaglia che colpisce al fondo la "natura" diventata ormai chiaramente, come si veniva in lui delineando da tempo, ostile, nemica dell'uomo, ma insieme soprattutto gli ideologi che sostenevano le posizioni antropocentriche, geocentriche, ottimistiche, del progresso puramente tecnologico, che è aggredito violentemente nella Palinodia: appunto l'ambiente fiorentino dell'Antologia con il suo ottimismo e falso progressismo illusorio, aggredito in forza di un pessimismo acre che giunge proprio quasi a un punto di non ritorno nella Palinodia con un'aggressione violenta anche al potere divino o della natura e a quello dell'uomo sull'uomo. Tutto questo porta a capire come e in quale ambito nasca La ginestra, questo capolavoro che, ormai non solo per me, è senz'altro il capolavoro conclusivo del lungo cammino leopardiano e in particolare di questa fase di poesia che veicola posizioni di estrema aggressività. E a proposito di questo capolavoro bisogna mettere bene in chiaro due cose: primo, che naturalmente questo altissimo riconoscimento non comporta di per sé l'adesione di chi legge questa grande poesia alle posizioni che essa veicola, come per Dante, che noi ammiriamo e sentiamo come il più grande poeta italiano (per me insieme a Leopardi): ne sentiamo l'enorme spessore, la forza interiore e il vigore del pensiero, quella forza che ci ricarica potentemente pur non condividendo naturalmente le posizioni ideologiche che ne alimentano la poetica. E d'altra parte bisogna capire che per "leggere" La ginestra è necessario porsi in una posizione corretta di comprensione degli elementi personali, ideologici, delle posizioni di pensiero che la poetica leopardiana dell'ultimo periodo viene vigorosamente potenziando, commutandoli in direzione artistica con adeguate, geniali, nuove ardite forme, di cui il grande Leopardi nella Ginestra è fornitore.
Per capire poi questa poesia basti una delineazione breve, ma pur necessaria, della posizione a cui Leopardi è arrivato proprio al termine del suo percorso e al termine anche della sua vita. Vi è arrivato attraverso un lungo e tormentoso itinerario in cui alcune posizioni sembrano addirittura a un certo punto (se non se ne considerino tutte le mediazioni, cosa che qui non possiamo fare) capovolte: la "natura" era stata per lungo tempo il centro del sistema appunto "della natura e delle illusioni", la natura che aveva fornito le generose illusioni, che dava la vita schietta, i sentimenti autentici e la poesia stessa e che era nemica della ragione calcolatrice, sterilizzante così che uccideva le passioni in poesia. Ma poi tale concetto nello svolgimento e logoramento attraverso le Operette morali e nel forte pensiero dello Zibaldone, è prospettato in una posizione antitetica assoluta: l'inimicizia della natura con il suo carattere meccanico, indifferente, ostile, in base a una posizione, a un pensiero che è quello che il Leopardi chiama qui con precise parole: "il calle insino allora / Dal risorto pensier segnato innanti', (vv. 54-55), cioè il pensiero che va soprattutto dalla filosofia rinascimentale-sperimentale fino al materialismo settecentesco a cui Leopardi, badate bene, porta arricchimenti e potenziamenti che non possono essere sottovalutati. Non si tratta di un'immediata ripresa di ciò che può venire dai testi dei materialisti come D'Holbach, Helvétius o Lamettrie, ma è qualcosa di più, a cui io ho sempre pensato che contribuiscano anche elementi preromantici, romantici e "controromantici", non più solamente illuministici. E questo pensiero materialistico ha come sua arma la "ragione", che ha cambiato segno, che è diventata la forza impugnando la quale si scopre la verità, si demistificano tutte le "superbe fole", (come sono chiamate nella Ginestra), cioè ogni credenza di tipo o religioso o idealistico-ottimistico. Così si arriva a quella verità che veramente è diventata ormai la mèta più profonda del "progresso" per Leopardi, la verità che permette di conoscere ciò che per l'uomo, secondo Leopardi, è fondamentale conoscere ("Nulla al ver detraendo", che è un verso della Ginestra): conoscere cioè qual è la reale situazione, la reale condizione dell'uomo e dell'universo e dell'uomo nell'universo: una condizione certamente di miseria, una condizione di caducità, una condizione di destinati alla morte e alla distruzione. Non sono solo le catastrofi naturali (come appunto quella che qui viene rappresentata), ma anche le ragioni biologiche della natura umana, la consunzione che le malattie e il degrado naturale dell'età operano su di noi e per cui ogni posizione di tipo provvidenzialistico e ottimistico viene scartata. E certamente questo è per Leopardi l'uomo che vive una condizione assolutamente infelice, "nato a perir, nutrito in pene" (v. 100), destinato alla morte e vivente in mezzo alle pene.
A questo punto però scatta, a mio avviso, del resto secondo tutta la mia interpretazione (sempre ho battuto su questo punto essenziale per le sue conseguenze in sede poetica), scatta, dicevo, l'abbrivo di una parte che potremmo dire "propositiva", anche se questi termini vanno usati con estrema cautela perché certi limiti restano invalicabili, invincibili: il dolore, la morte, la caducità sono invincibili, la natura è sempre distruttrice e lo sarà sempre, continuerà sempre a esserlo. Ma certo, ripeto ancora, qui scatta un motivo che si può ritrovare anche attraverso certi filoni precedenti specie estraibili dallo Zibaldone (che adesso qui sarebbe troppo lungo individuare), ma certo soprattutto il motivo di quello che Leopardi individua come il "vero amore", cioè quella forza solidaristica, che così è certamente forza civile e che nasce proprio dal vincolo fra gli uomini nella loro lotta contro la natura.
La difesa contro la natura diventa un vincolo fra gli uomini e da questo vincolo sorge in loro quest'esigenza e questo bisogno che egli chiama il "vero amore".
Sicché su queste basi leggeremo subito un brano della Ginestra, molto indicativo già per certi suoi aspetti poetici: su queste basi dico, su queste verità che sono da una parte tutte negative, tutte pessimistiche, ma certo per Leopardi profondamente "vere" e a lor modo promotrici di "vita", non di rinuncia e di resa. Perché su questa acquisita coscienza che la condizione umana è assolutamente misera e d'altra parte su questa forte molla del "vero amore" si potrà creare un'alternativa di civiltà. E di civiltà si parla nella Ginestra in termini espliciti quando si dice anche in un altro passo che "solo" per questo pensiero illuministico-materialistico, per questo pensiero che per Leopardi è il cammino del vero progresso (anche se è un progresso che porta alla costatazione di una condizione di miseria) "per cui solo / Si cresce in civiltà, che sola in meglio / Guida i pubblici fati" (vv. 75-77). Badate bene sono parole da meditare, sono parole che già di per sé rivelano la forza poetica di Leopardi, con questa ripetizione del "solo" "sola", questo ribattere, questo asseverare che, dirò così, asseconda lo snodo del pensiero e gli dà il suo vero spessore; spessore che non avrebbe senza la forza di queste forme da lui adoperate così energicamente. Ma, ripeto, Leopardi pensa a una possibilità di maggiore "civiltà" entro i limiti ferrei della condizione umana. Sicché vogliamo leggere (anche come esempio di un tipo di poesia che suscitava proprio dentro La ginestra le più forti obbiezioni da parte della critica distinzionistica, fondata cioè sulla distinzione fra poesia e non poesia), il passo della terza strofa con il contrasto con l'intellettuale del primo Ottocento, seguace del pensiero della Restaurazione, che viene aggredito con sarcasmo e forza di disprezzo supremo, forza che è quella del pensiero, ma che si traduce in forza aggressiva della poesia e dei mezzi propri della poesia. E a un certo punto emerge, in netto contrasto, il profilo dell'uomo "leopardiano", l'uomo "persuaso" che ha acquisito queste amare verità, che è portatore di queste verità; in un certo modo l'intellettuale come Leopardi lo avrebbe voluto e quale egli stesso si sentiva in prima persona, perché contribuisse così a una vera civiltà:

  Nobil natura è quella
  Che a sollevar s'ardisce
  Gli occhi mortali incontra
  Al comun fato, e che con franca lingua, 
  Nulla al ver detraendo, 
  Confessa il mal che ci fu dato in sorte, 
  E il basso stato e frale; 
  Quella che grande e forte
  Mostra se nel soffrir, né gli odii e l'ire
  Fraterne, ancor più gravi
  D'ogni altro danno, accresce
  Alle miserie sue, l'uomo incolpando
  Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
  Che veramente è rea, che de' mortali
  Madre è di parto e di voler matrigna. 
  Costei chiama inimica; e incontro a questa
  Congiunta esser pensando, 
  Siccome è il vero, ed ordinata in pria
  L'umana compagnia, 
  Tutti fra se confederati estima
  Gli uomini, e tutti abbraccia
  Con vero amor, porgendo
  Valida e pronta ed aspettando aita
  Negli alterni perigli e nelle angosce
  Della guerra comune. Ed alle offese
  Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
  Al vicino ed inciampo, 
  Stolto crede così qual fora in campo
  Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
  Incalzar degli assalti, 
  Gl'inimici obbliando, acerbe gare
  Imprender con gli amici, 
  E sparger fuga e fulminar col brando
  Infra i propri guerrieri. (vv. 111-144) 


Sentite la forza dello snodo del pensiero così denso e tenete conto che non è solo "Nobil natura" l'uomo che osa guardare lucidamente il "comun fato", il fato e la natura, ma anche l'uomo, la persona che "grande e forte / Mostra se nel soffrir". C'è una suprema forza di dignità in questo ultimo Leopardi e La ginestra è una grande lezione di dignità nel soffrire, nel sopportare "il mal che ci fu dato in sorte". E l'uomo leopardiano "con franca lingua" rivela la realtà delle cose senza toglier nulla a questa "acerba" verità, e non ne accresce stoltamente la miseria con le lotte fra gli uomini: "né gli odii e l'ire / Fraterne [...] accresce / Alle miserie sue'', come egli afferma in un crescendo impetuoso e appassionato. E voi sentite certo la forza di un ritmo incalzante, come in un certo senso incalzante è lo snodo del pensiero, e questo impeto raggiunge persino toni entusiastici che non sono certamente convenzionali e il cui significato parafrasato potrebbe apparire anche prosastico e convenzionale, mentre tutta la sua forza viene data radicalmente proprio dallo spessore linguistico inerente, dalle forme che assume la poesia in questo brano e che, ripeto, trova d'altra parte equivalenti nella forza, in questo caso addirittura entusiastica, anche nella violenza, di aggressione alle stolte credenze e alle illusioni ingenue, o, peggio, interessate delle religioni (e dei detentori del potere).