da Vita interiore dell'Alfieri (1942)

"Proprio nelle tragiche vicende di quegli anni della dittatura e della guerra fascista - scriverà Binni nel 1994 nella Premessaall'edizione di tutti i suoi scritti alfieriani, Studi alfieriani -, in un periodo di congedo dalla mia forzata partecipazione a quella guerra, accolsi un invito di Cantimori a scrivere una "vita interiore" di un poeta moderno in una collana diretta da Luigi Volpicelli e scelsi l'Alfieri e, come in un impeto, lessi e rilessi tutta l'opera alfieriana e scrissi nell'inverno '40-'41 il volumetto Vita interiore dell'Alfieri, poi pubblicato nel 1942 e ripubblicato qui in appendice.
Ne risultò un libro certo troppo 'eloquente', ma vivo e significativo storicamente e personalmente per me (ripeto, nel periodo della guerra, della dittatura alleata con la monarchia e con la chiesa e della letteratura come frutto di conformismo e di disimpegno) così come era criticamente pieno di spunti: specie il rilievo della natura 'tragica' del teatro alfieriano in netto contrasto con la sua 'lettura lirica' allora dominante.
In certo modo, insomma, quel libro rinnovò anche l'interesse etico-politico per l'Alfieri, già destato dai saggi di Calosso e di Gobetti agli inizi del fascismo anche fra gli operai torinesi. E trovò infatti lettori attenti in una cerchia popolare così diversa da certi intellettuali pur progressisti il cui giudizio sull'Alfieri era improntato ad una incomprensione della carica dirompente e preromantica - opposta alla dimensione oratoria e aulica che gli si attribuiva - accentuata proprio dalla ardua compressione classicistica."
Il brano che segue è l'inizio del secondo capitolo, "La passione politica".


"Gli uomini tutti per lo più, e maggiormente i più schiavi (come siam noi) peccano tutti nel poco sentire". L'origine più profonda dell'atteggiamento politico alfieriano è in questa frase, nella concezione della vita come forte sentire e nell'impedimento che l'oppressione politica crea a questa attività prima dell'anima umana. Nessun altro scrittore settecentesco avrebbe cercato una giustificazione simile per una lotta contro la tirannide, nessuna teoria dello Stato avrebbe posto come fine ultimo, come bene sommo degli individui la possibilità del forte sentire, ma piuttosto un equilibrato sviluppo delle virtù e della felicità razionalmente intesa. Tale è dunque il germe romantico che motiva la passione politica dell'Alfieri. Ma certo egli sentì in quella passione l'impiego più immediato della sua forza spirituale, la soddisfazione più libera dell'impaziente volontà di affermarsi, di ribellarsi, di distinguersi nella maniera più violenta. Da questo primo impulso ad un'affermazione di se stesso, della propria anima insofferente ad ogni condizione esterna, da questo torbido ma intenso presentimento di una lotta più profonda tra l'anima e le cose nasce la vocazione alla libertà, in cui si risolve ogni idea, ogni aspirazione, ogni convinzione politica alfieriana.
L'Alfieri è esente dalle origini filantropiche di molti scrittori politici del secolo, e vedremo anzi come egli consideri il popolo, la plebe ai cui casi pietosi il sentimentalismo umanitario aveva ispirato la prima ribellione ai regimi assolutistici. Egli non vede una liberazione degli uomini, di tutti gli uomini, come condizione di un progresso di cui esplicitamente non si cura (guardando piuttosto ad una passato perduto o ad un futuro di sentimenti eroici); né si può tutto adeguare a quella moda dei nobili del suo tempo, che affettavano spregiudicatezza, audacia politica per snobismo, per gusto di distinzione mondana, pronti poi a trasformarsi negli emigrati di Coblenza. Certo anche nell'Alfieri un orecchio avvertito sente la spigliatezza dell'aristocratico che azzarda le idee come le carte da gioco, che manca di una esperienza diretta, e per spregiudicato che sia verrà il giorno in cui si ricorderà con orgoglio del proprio sangue. Certo un chiarimento circa le relazioni tra l'Alfieri e la sua nobiltà può contribuire a spiegare il tono risentito dell'ultimo periodo, il rancore contro il regime egualitario francese. Ma fin d'ora insisto sulla lateralità di questo motivo di fronte alla presenza del momento politico nell'anima alfieriana; ché anzi non di momento politico, ma di passione politica dobbiamo parlare per indicare la natura entusiastica, vitale che la politica ebbe per lui. Dato che la sua domanda alla vita esigeva una propria risposta senza indugio, se si presenta l'arte tragica come possibilità di vivere energicamente, eroicamente fuori degli impacci tragici, la politica si presenta come l'atto della liberazione più completa. Se si vuole intravedere la profondità e la eccezionalità di quella passione, la si deve considerare come simbolo di una lotta e liberazione più sostanziale, religiosa, su cui l'Alfieri esplicitamente non arrivò. Ecco perché il fine cui tende il suo atteggiamento politico non appena nato è l'uccisione del tiranno, l'ateo del liberarsi, l'affermazione di questa libertà in un gesto eccezionale, passionale che sembra appagare d'un sol colpo tutti i desideri dell'anima eroica.
E un personaggio sembra costruirsi come il santo di questa vita politica, che politica è solo per approssimazione: Bruto che pugnala Cesare, senza considerare per nulla ciò che seguì o poteva seguire al suo atto. È bene ripetere che tale è l'origine di un atteggiamento che poi cercherà di svolgersi, di arricchirsi, perfino di stabilirsi logicamente con una teoria di rapporti tra individuo e Stato, cioè con una teoria veramente politica. Ma sotto a quei tentativi più o meno riusciti vive sottinteso il motivo personale che unico spinse l'Alfieri a farsi scrittore di cose politiche. Libertà è parola che ha mantenuto un suo primo significato inequivocabile: diritto di vivere, di costruire la propria vita secondo i propri ideali. L'Alfieri si trovava di fronte ad una negazione recisa della libertà da parte dell'assolutismo, ad una limitazione nel dispotismo illuminato, ad una pratica concreta nel costituzionalismo inglese. Solo più tardi si vide di fronte alla libertà della repubblica francese ch'egli decisamente avversò. Presenti e tanto più suggestivi gli esempi del passato, della libertà greca e romana. Come nacque in lui e come si consolidò l'ideale della libertà? Abbiamo detto non per filantropia, né per considerazione ottimistica della forza della ragione umana, ma principalmente come esigenza di liberazione. La testimonianza più viva del valore assoluto che la lotta contro il tiranno aveva in lui, quasi di liberazione unica dai limiti ostili della vita, è nel sonetto 18, in cui la morte è invitata a colpire il poeta che resterà impavido, sicuro, infastidito della vita perché resa obbrobriosa dall'oppressione. L'idea della morte e del tiranno si fondono in un insieme di titanismo e di passione politica che ne diventa più giustificata, non retorica e non utilitaristica.