Antonio Resta, Lanfranco Binni, La protesta di Walter Binni. Una biografia, Firenze, Il Ponte Editore, 2013, pp. 304 («l’immaginazione», n. 276, luglio-agosto 2013).


Il libro riprende il titolo di un saggio, fra i più vibranti di Binni, La protesta di Leopardi (1973), a indicare l’intreccio di cultura, attività intellettuale, disposizione etica e impegno civile e politico, che è inscindibile dalla figura del critico, uno dei più attivi e stimolanti del Novecento (Perugia 1913 – Roma 1997). Permeato di trattenuta pietas filiale, è diviso in due parti, apparentemente staccate. Nella seconda sono riportate lettere di corrispondenti (Attilio Momigliano, Luigi Russo, Aldo Capitini, Eugenio Montale, Carlo Emilio Gadda, Emilio Lussu, Giuseppe Dessì, Lelio Basso, Italo Calvino, Carlo Cassola, Pietro Ingrao, Eugenio Garin, Franco Fortini, Norberto Bobbio, Sebastiano Timpanaro, Luigi Baldacci, e così via), che, disponendosi lungo l’arco di una vita, si configurano come puntuale ‘commento’ diacronico dell’asciutto e incisivo profilo che costituisce la prima sezione. La quale si apre e si chiude con pagine ‘autobiografiche’ dello stesso Binni, stese per la maggior parte negli ultimi anni, quando, ripercorrendo con la memoria la propria vicenda, è naturale che si vada alla ricerca delle ‘radici’, del proprio essere biologico e ‘morale’. Così, riaffiorano le figure dei nonni (con le loro ascendenze familiari, con il loro carattere e la condizione sociale) e quelle dei genitori, e gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, con le immancabili ‘ferite’ e malinconie; e nello stesso tempo gli ambienti di Perugia, la scuola, e le letture, il teatro, il cinematografo. Primo vincitore, poi, nel concorso per la Scuola Normale Superiore di Pisa, ne è alunno dal 1931 al 1935, avendo come maestri, tra gli altri, Attilio Momigliano e poi Luigi Russo, con il quale discute la tesi La poetica del decadentismo italiano, lì lì pubblicata (1936): un libro decisivo, che storicizza e sottrae il decadentismo al giudizio negativo di Croce («la grande fabbrica del vuoto»). La nozione di ‘poetica’, già qui operante e sempre più approfondita (si vedano le pagine teoriche di Poetica, critica e storia letteraria del 1963), innerva un metodo storico-critico, che inquadra l’opera letteraria, di là dalle analisi puramente sociologiche o formalistiche e insieme da quell’iperuranio in cui la confinava l’estetica crociana. In Normale prende avvio anche l’educazione civile e politica, grazie soprattutto a un altro perugino, Aldo Capitini, cui Binni sarà sempre vicino, pur non condividendone l’atteggiamento non-violento. Comincia subito dopo la carriera universitaria: Università per Stranieri a Perugia (1939), Genova (1948), Firenze (1956), Roma (1964). Sono anni folti di studi e di libri (si ricordi almeno La nuova poetica leopardiana del 1947, che rivaluta l’ultimo Leopardi, in antitesi, anche in questo caso, con Croce e la sua lettura ‘idillica’), e insieme di impegni pubblici, politici: ‘liberalsocialista’ con Capitini, si iscrive al Partito socialista e partecipa all’Assemblea costituente nel 1946, per poi allontanarsi, a partire soprattutto dal 1968, sempre più disilluso dai partiti tradizionali (nel 1994 prende la tessera di Rifondazione comunista), senza che mai vengano meno, sino alla fine, la sua voce e le sue prese di posizione di ‘socialista senza tessera’ e di ‘leopardiano pessimista-rivoluzionario’. Le vicende private e professionali si intrecciano così con gli avvenimenti nazionali e internazionali: la guerra fredda, il discorso di Kruscev sui crimini di Stalin, l’invasione dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968 da parte dell’Unione sovietica, la fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale; e in Italia, la vittoria politica della Democrazia cristiana, il governo Tambroni nel 1960, il movimento degli studenti nel 1968-69, la strategia della tensione, le stragi di Stato, gli anni (Settanta-Ottanta) del terrorismo e poi del riflusso, fino all’avvento dell’‘era berlusconiana’. Spicca, come momento rilevante dell’impegno di Binni, il forte discorso pronunciato il 30 aprile 1966 ai funerali di Paolo Rossi, morto all’università di Roma per una caduta in seguito alle violenze subite da parte di gruppi neofascisti: un discorso che designa esplicitamente le responsabilità di autorità politiche e accademiche e che costringe alle dimissioni, con le reazioni che innesca, il rettore Ugo Papi.