Bruno Nacci, Lanfranco Binni. La protesta di Walter Binni. Una biografia Firenze, Il Ponte Editore 2013 («OBLIO» III, 11).


Nella premessa al volume – che riecheggia nel titolo un famoso saggio leopardiano – Lanfranco Binni scrive «Sono stato testimone a volte distratto e a volte attento della vita di mio padre», dedicandogli l’affettuosa e puntuale ricostruzione delle fasi salienti delle sue molteplici esperienze, con una messa a punto attenta, tesa a collocarle nel contesto storico in cui sono maturate. Maestro non solo degli studi settecenteschi, basti pensare alla mai interrotta ricerca su Leopardi, Walter Binni fu per decenni la coscienza vigile di una cultura non di rado distratta o peggio correa o colpevolmente silenziosa davanti allo spettacolo quasi mai edificante della storia civile italiana. Questo sembra voler ricordare a ogni pagina il libro che Lanfranco Binni ha assemblato servendosi degli interventi autobiografici del padre, con le suture da lui disposte per ricostruire non tanto la prestigiosa carriera accademica, quanto l’impegno ininterrotto nel campo di una sinistra progressista e libertaria, iniziato già al tempo della dittatura fascista grazie al sodalizio umano e politico con Aldo Capitini.
Le origini di Binni, in parte aristocratiche, in parte borghesi, il difficile rapporto con il padre, quello più intenso con la nobile figura materna, tutto ruota fin dall’inizio, esperienze, amicizie, studi, attorno a Perugia («devo tutto a Perugia», p. 139). Enfant prodige, e per averne una prova è sufficiente leggere il tema scritto in quinta ginnasio su Dante, Petrarca e Boccaccio, nel 1931 viene ammesso alla Normale di Pisa, dove s’intensificano i rapporti con Capitini, conosciuto a Perugia, che lo avvia alla frequentazione dei vociani e, soprattutto, di Leopardi, lo studio del quale si concretizzerà dopo la guerra nel volume La nuova poetica leopardiana. Allievo di maestri come Attilio Momigliano, Luigi Russo e Giorgio Pasquali, si sposta gradatamente dalle fila dei giovani fascisti dissidenti a quelle dell’antifascismo più rigoroso, e nel 1935 si laurea con una tesi che l’anno dopo verrà pubblicata con il titolo La poetica del decadentismo italiano. Il servizio militare e un breve periodo d’insegnamento nelle scuole medie superiori gli permettono di entrare in contatto con la migliore cultura del tempo, da Pavese a Montale, da Parri a Valgimigli, Calogero, La Malfa e tanti altri, mentre approfondisce il liberalsocialismo di Capitini, prendendo le distanze dal regime liberale pre-fascista, e durante la resistenza si lega al risorto partito socialista nelle cui fila verrà eletto alla Costituente. Durante l’attività parlamentare, si batte per la laicità dello Stato e la scuola pubblica, restando fedele alla visione leopardiana interpretata come «una poetica che coniuga pensiero e poesia in un progetto totale di intervento nella storia» (p. 64). Animatore di progetti editoriali e pubblicista, non trascura l’insegnamento universitario, prima a Genova, poi a Firenze e a Roma, in cui trasfonde la sua passione letteraria e quella politica in senso lato, dando luogo a una produzione di alto rigore scientifico e morale. Ne è testimonianza il saggio del 1958, La critica letteraria, in cui a proposito del suo storicismo (che non molto dopo, nel corso di una spiacevole polemica, gli verrà ingenerosamente rinfacciato), osserva di aver evitato, anche in relazione a Croce, la «scissione fra critica della letteratura del passato e critica della letteratura contemporanea a favore dell’unità dell’esperienza critica» (p. 73). Con l’arrivo degli anni Sessanta, tra nuove speranze e forti contrasti sociali e politici, Binni prende più volte posizione a favore dei fermenti della società italiana, dentro e fuori dalla Università, non rinunciando, nel 1966, nel corso della orazione funebre in occasione della morte dello studente Paolo Rossi in seguito a un’aggressione neofascista, a rivendicare la lezione della Resistenza denunciando le tentazioni autoritarie dello Stato e dello stesso Rettore della Sapienza. All’appuntamento con il Sessantotto, dopo essere definitivamente uscito dal Partito socialista, egli guarda con sempre maggiore simpatia ai movimenti extraparlamentari: «E Binni negli anni successivi interverrà sistematicamente, con dichiarazioni e adesioni a manifesti politici contro le trame più o meno occulte, contro la repressione, e a sostegno dei movimenti di lotta studenteschi e operai, sostanzialmente condividendo le posizioni del ‘Manifesto’» (p. 102). Ma non si arresta la sua opera di studioso e nel 1969 pubblica un’edizione di Tutte le opere di Leopardi e i Saggi alfieriani, a cui seguirà nel 1973 il volume La protesta di Leopardi. Gli anni Ottanta segnano, nel generale riflusso delle passioni e delle lotte politiche, e dopo la messa a riposo dall’Università, un’attenzione particolare alla ricapitolazione della sua vita che sfocerà nel 1997, poco prima di morire, nello scritto Perugia nella mia vita. Quasi un racconto. Accostatosi nel decennio successivo a Rifondazione Comunista, nel 1994 rilascia un’intervista che suona quasi come un testamento morale: «Forse nel nostro paese è vissuta sempre una doppia Italia. Ce n’è stata una nobile, minoritaria. E poi ce n’è una cinica, conformista, arrampicatrice, rotta a ogni corruzione. Solo in rari momenti della storia, quelli che vengono chiamati lune di miele dei popoli, è emersa la prima» (p. 122).
La seconda parte del volume, curata anche da Chiara Scionti, è una raccolta di lettere di corrispondenti di Binni, scritte tra il 1931 e il 1997, che annovera i nomi più importanti della cultura italiana del Novecento, da Aldo Capitini a Giorgio Pasquali, da Attilio Momigliano a Luigi Russo, oltre a Eugenio Montale, Gianfranco Contini, Carlo Emilio Gadda, Umberto Segre, Manara Valgimigli, Mario Fubini, Ferruccio Parri, Italo Calvino, Natalino Sapegno, Pietro Nenni, Norberto Bobbio, Sebastiano Timpanaro, Eugenio Garin, Ludovico Geymonat, Giorgio Caproni e molti altri.