Riceviamo da Adriana Chemello, docente del Dipartimento di Italianistica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Padova, una recensione al carteggio Capitini-Binni, Roma, Carocci, 2007. La recensione, di cui ringraziamo l’autrice, sarà pubblicata nel prossimo numero della “Rassegna della letteratura italiana” diretta da Enrico Ghidetti.
Aldo Capitini – Walter Binni, Lettere 1931-1968, a cura di Lanfranco Binni e Lorella Giuliani, con una Introduzione di Mario Martini, Roma, Carocci Editore, 2007, pp. 196, Euro 18.60.
È uscito di recente, con i tipi della Carocci Editore, il primo volume della collana dedicata all’«Epistolario di Aldo Capitini». Il progetto voluto dalla Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini”, è stato reso possibile dal sostegno della Regione dell’Umbria, del Comune di Perugia e della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. A inaugurare la collana è il carteggio tra Aldo Capitini e Walter Binni, curato dal figlio di quest’ultimo Lanfranco e da Lorella Giuliani.
Patrizia Violi ha definito lo spazio comunicativo della lettera come una «soglia», un «punto di confine» in grado di segnalare l’interazione, lo «scambio dialogico con l’altro, dalla solitudine autosufficiente della scrittura». Nel carteggio tra Capitini e Binni si ha l’impressione che questa soglia tenda a scomparire, tanto perfetta è l’empatia che circola tra loro, l’interazione che neppure la distanza riesce ad incrinare. Le lettere ci restituiscono infatti un intenso dialogo in differita, dove i due protagonisti, pur separati da impegni accademici e politici, si muovono in uno spazio condiviso. L’intimità del dialogo epistolare per anni quasi quotidiano riflette le stature morali dei due interlocutori: la loro libertà intellettuale, la profonda coscienza etica, lontana da ostentazioni grossolane o da sotterfugi, in anni in cui si ponevano al centro i valori della mente e del cuore, il gusto della cultura umanistica appresa sui classici del pensiero filosofico e letterario, la sapienza e l’intelligenza della conversazione, ma anche lo scambio fraterno e amicale tra due spiriti eletti che il destino aveva fatto incontrare.
Il carteggio possiamo leggerlo come una duplice biografia capace di restituirci il «disegno» di due vite: le lettere ci consegnano ora integra e senza ombre l’immagine dal vivo di due figure intellettuali ed umane protagoniste del nostro Novecento, tracciando di entrambi un vero e proprio «ritratto in piedi» (sebbene fossero entrambi restii ai riflettori della prima scena e all’ostentazione di sé). Le lettere rimaste finora inedite risultano un efficace «mediatore di conoscenza», da cui un lettore non abbagliato dalla curiosità cronachistica o aneddotica riesce a discernere l’autenticità e i più teneri sentimenti, penetrando fin dentro le pieghe delle loro anime. Siamo di fronte, come la definisce lo stesso Binni in una nota inedita, ora pubblicata dai curatori, ad una «lunga storia di legami affettuosi e culturali», ad un sodalizio intellettuale ed umano durato ben trentasette anni. La prima lettera attestata risale infatti al 1931 quando il giovane Walter, appena conseguita la maturità liceale a Perugia, si affaccia un po’ titubante ad affrontare un nuovo capitolo della sua formazione, con la scelta della facoltà universitaria e, incoraggiato dal commissario dell’esame di maturità, Guido Mazzoni, si informa sulle pratiche da espletare per concorrere ad un posto alla Scuola Normale di Pisa, scrivendo direttamente al Segretario, Aldo Capitini. La risposta del segretario al suo giovane concittadino ed il successivo telegramma per comunicargli l’esito positivo della prova di ammissione, danno avvio ad una lunga ed intensa amicizia che avrà il suo naturale sigillo in quella cartolina con due sole parole («Carissimi, Aldo») vergata con mano stanca nella sera del 19 ottobre 1968, poche ore prima di prendere definitivo congedo dalla vita.
Non è semplice dar conto dei lineamenti esterni del carteggio: le lettere di Binni conservate nel fondo Capitini dell’Archivio di Stato di Perugia sono 492; quelle di Capitini custodite dalla famiglia Binni ed ora anch’esse affidate alle cure dell’Archivio, sono 665. Di una corrispondenza così cospicua che supera il migliaio di lettere conservate, solo duecentoventisei sono quelle date alle stampe. Il carteggio a stampa ci restituisce quindi una parzialità di quello che è stato un assiduo scambio epistolare improntato alla familiarità e alla estrema confidenza reciproca. Pur non conoscendo i criteri che hanno guidato la mano dei curatori (e dei familiari di Binni) nella selezione delle carte, possiamo supporre una comprensibile resistenza a rendere pubbliche carte così strettamente familiari, con protagonisti e persone citate ancora presenti sulla scena pubblica. Siamo in presenza di persone ed eventi a noi vicini nel tempo, su cui non è ancora possibile un serio lavoro di storicizzazione. D’altro canto, anche una semplice tavola cronologica delle lettere conservate e di quelle pubblicate non sarebbe sufficiente per restituire una fotografia fedele dell’intensità e assiduità dello scambio. Sappiamo per certo, da testimonianze orali dei protagonisti di quegli anni, che durante il periodo di opposizione al fascismo, le lettere venivano tassitivamente bruciate dopo essere state lette, per motivi precauzionali.
Nel carteggio ora pubblicato le lettere, in certi periodi, hanno una cadenza regolare, quasi quotidiana e consentono, in alcuni casi, di ricostruire con sufficiente approssimazione gli spostamenti dei due protagonisti da una parte all’altra dell’Italia: da Perugia a Genova e a Firenze, e poi a Roma per Binni; da Perugia a Pisa e poi a Cagliari e ancora a Perugia per Capitini. La corrispondenza è particolarmente fitta negli anni del dopoguerra carichi di aspettative, di grandi progetti e di energie spese senza risparmio per realizzarli. Le lettere di quel periodo offrono uno spaccato sulla situazione politica italiana e soprattutto sui numerosi tentativi di intellettuali laici e progressisti per dar vita ad un movimento politico esteso ad un ampio spettro di forze e capace di collocarsi come erede e continuatore del liberalsocialismo, realizzando una compenetrazione di libertà e democrazia. Capitini insiste per un «socialismo autonomo», privilegiando la forma federativa a quella partitica; Binni dal canto suo lavora, durante il periodo della Costituente, per sottrarre spazi di egemonia politica ad una democrazia cristiana diventata il braccio secolare del curialismo vaticano. Le lettere di quel decennio ci restituiscono uno sguardo spesso inedito sugli eventi che li hanno segnati: i contatti discreti con Parri e poi con Silone e Nenni; le circolari di Capitini che lavora assiduamente alla costituzione dei C.O.S. (Centri di Orientamento Sociale); le mortificazioni e le successive disillusioni politiche di Binni che gli fanno paventare la possibilità di «tornarmene a casa e di lavorare su di un piano indipendente di sinistra». In una lettera del dicembre 1946, spedita da Roma su carta intestata dell’Assemblea Costituente (dove rappresentava la circoscrizione di Perugia, Terni, Rieti), Binni sfoga con l’amico tutta la sua amarezza: «tutto va per cricche e clientele in una maniera scandalosa e spinge all’anarchia e all’individualismo». Ma Capitini lo incoraggia a resistere, gli fa da sponda, anzi diventa gran suggeritore: vorrebbe introdurre nel dettato costituzionale qualche riferimento a forme di democrazia dal basso (assemblee popolari, i C.O.S. appunto), ma Binni dopo aver sentito il parere dei costituzionalisti gli fa notare che si tratta di iniziative di competenza dei Comuni.
Se l’avvio della relazione è improntato ad un’attenzione quasi paterna di Capitini nei confronti del più giovane amico, si rivela presto la sua capacità di cogliere le qualità intellettuali e umane intrinseche del giovane Binni e di valorizzarle. Binni dal canto suo lascia trasparire l’ammirazione per un modello intellettuale e politico integerrimo che sa essere maestro di vita. La loro relazione fondata su una condivisione di valori etici e politici, oltre che culturali, si rafforza con il passare del tempo: Capitini segue con affettuosa attenzione gli studi e le ricerche letterarie dell’amico, lo incoraggia, si preoccupa di trovare una adeguata collocazione editoriale per i suoi primi lavori di ricerca (quello su Ariosto e sul Preromanticismo).
La ricchezza e l’intensità dell’epistolario, la comunicazione autentica e radicale che da esso traspira si prestano a diversi percorsi di lettura. Oggetto di esplicita tematizzazione nelle lettere di entrambi è l’«elegia perugina»: «Perugia è sempre più bella ed io me la giro con un insieme di avidità e di tristezza non rassegnandomi volentieri a lasciarla. Ma sempre più è per me una città di fantasia e di paesaggio interiore» (lettera di Binni del luglio 1949). E qualche anno più tardi è ancora Binni a esprimere un sentimento di profonda nostalgia per la separazione e la lontananza: «E non ti dico quale folla di sensazioni e di affetti m’assalga in questo momento alla lettura della tua lettera (Perugia, il vento fresco, i Monticelli/Montemalbe) e nello scrivere l’indirizzo del palazzo del Municipio, e la stessa data dell’8 settembre con tutto quello che quella data ricorda per noi» (lettera dell’8 settembre 1953).
Le lettere di Binni diventano a volte pagine di un diario intimo, vere e proprie confidenze: «Desidererei tanto parlare con te anche di problemi che più volte hai sfiorato con me e che riguardano anche il mio lavoro a cui voglio dare più respiro per cercarvi più vita e non pura soddisfazione professionale. […] È ossigeno quello che ti chiedo: e non ho colpa se la mia intelligenza e il mio spirito hanno bisogno di stimoli da realizzare poi in solitudine, mentre ora vivo in una solitudine opaca e squallida» (lettera del dicembre 1951 da Lucca). Le inquietudini esistenziali di un professore universitario restio a farsi catturare dal vortice del potere accademico-baronale si effondono nella scrittura epistolare in confessioni, rendendo lo spazio epistolare un vero e proprio «barometro dell’anima»: «Al tuo aiuto affettuoso, all’offerta rinnovata di un’amicizia che, insieme all’amore per Elena, è il porto più sicuro […] in questo luogo d’ansia che è il mio cuore, io devo rispondere più che con dichiarazioni, con le ore della mia vita, con la loro destinazione meno gretta e meno divisa fra stanchezza, avventata attività e concessioni agli idoli falsi e bugiardi della convenzione accademica e dell’arrivismo egoistico a cui mi vergogno pur di dover accennare» (lettera dell’8 settembre 1953).
Binni, dopo l’esperienza dell'Assemblea Costituente e la militanza socialista, nell'estate del 1956 si fa promotore di un Movimento dei «socialisti senza tessera» e nel 1959 si iscrive al Psi, partito a cui rimane fedele fino all’abbandono nel 1968. C'è sempre estrema franchezza tra i due. In una lettera inviata a Capitini alla fine del marzo 1957, ritornando sui temi religiosi cari all’amico, Binni confessa: «io la tua fede non riesco a viverla realmente e il momento tragico-elegiaco è sempre più forte di quello epico-rasserenatore». E, ancora: «non riesco bene a distinguere il senso alto, purificatore della morte dal peso fra cupo e struggente delle perdite e della richiesta disperata di un volto, di una parola che nella memoria (maledetta forza del tempo) vanno perdendo sicurezza» (6 o 7 novembre 1957).
L'anticlericalismo di matrice risorgimentale, insofferente alle ingerenze vaticane vecchie e nuove, è un po' una costante: «ho letto il tuo articolo sulla religione del papa e l'ho trovato sinceramente efficacissimo. Penso che dovrebbe essere diffuso proprio tra i cattolici di buona fede e penso perciò che i preti o taceranno per impedirne la notorietà o cercheranno tutti i modi per denigrarti» (lettera di Binni, 27 luglio 1957). Il 24 luglio 1959 rimarca: «io poi per istinto rifiuto ogni mediazione sacerdotale ad ogni effetto».
Capitini, da parte sua, aggiorna l'amico sulla sua ricerca filosofica, discute le questioni politiche del momento e informa sui convegni e seminari a cui partecipa: dall’affollato convegno su Stato e Chiesa organizzato a Roma, il 6-7 aprile 1957, dal «Mondo» di Pannunzio, in cui ravvisa un risveglio dello spirito laico che giudica molto positivo, alle diverse esperienze dei Centri di orientamento sociale. Entrambi sono impegnati nella difesa della scuola pubblica, e per la modifica delle norme concordatarie sull'insegnamento della religione nell'istruzione pubblica. Entrambi seguono gli eventi politici e si scambiano commenti e considerazioni. Degna di nota e rivelatrice di un’etica politica coerente, la considerazione di Capitini quando, nell’autunno del 1958, a proposito dell’affare Pasternak, il «Mondo» di Pannunzio lancia un appello tra gli intellettuali italiani, invitando a rompere ogni forma di colloquio e di incontro con rappresentanti e istituzioni della cultura sovietica. Capitini, notando l’assenza della firma di Binni, scrive: «Non firmerò che proteste generali contro un modo di agire. Le altre dividono più che unire gli uomini» (lettera del 6 novembre 1958).
Il punto di partenza della riflessione capitiniana non è mai meramente culturale ma esistenziale, anzi etico-religioso. La massima aspirazione a liberarsi dalla finitezza («Io so di avere un fisico delicato fin da piccolo; sono andato avanti per una coesione dinamica portataci spiritualmente, appassionandomi») la esprime «nella coscienza appassionata delle finitezza stessa … che sbocca escatologicamente» nella realtà di tutti e nella «compresenza». La sua riflessione politica e l’esperienza del fare sono sempre corroborate dall’intelligenza del sentire che gli consente di «essere con gli altri nel tempo» e nella storia: «Tra me e me discorro spesso con te, e anche del o col Leopardi, insieme, noi tre». Il pensiero e la poesia di Leopardi sono di frequente argomento di conversazione e di riflessione tra i due. Leopardi è in questi anni al centro degli studi binniani che culmineranno nel volume pubblicato da Sansoni, in collaborazione con Ghidetti, Tutte le opere (di G. Leopardi), e nel saggio La protesta di Leopardi. Anche Capitini è lettore assiduo di Leopardi, fin dagli anni dell’università, dove dopo la laurea prende nel 1929 il diploma di specializzazione presso la Scuola Normale, discutendo con Attilio Momigliano una tesi su «La formazione dei Canti di Leopardi». Ma oltre che dai versi del poeta di Recanati, Capitini è affascinato dalla modernità del suo pensiero di cui si sente debitore: «assolvo il debito fondamentale della mia vita, che sta in rapporto alla posizione del Leopardi […]: muovere filosofia, religione, politica, per la finitezza degli esseri; il Leopardi ha cantato dolorosamente il loro sparire, di tutti, anche del passero; io ho cercato di guardare se veramente spariscono, e di muovere […] la prassi» (lettera del 19 ottobre 1962).
Nella corrispondenza che copre un arco cronologico più che trentennale, è possibile rivisitare tutti i temi dominanti del filosofo della «compresenza»: la religiosità, intesa come libera aggiunta e apertura interiore, contrapposta al confessionalismo e alle prescrizioni delle gerarchie ecclesiastiche («bisogna rompere con l'istituzione religiosa tradizionale e tutto ciò che essa dà […] Sarà uno stimolo a creare, ricreare, rinnovare», annota Capitini nella lettera del 23 luglio 1959), la collaborazione di tutti per la creazione di una nuova, corale, socialità («la compresenza di tutti gli esseri nati e quindi passati per la concretezza del mondo», lettera del 4 novembre 1962), il dolore inteso quale modalità privilegiata per essere consapevoli della finitezza («mi pare che il raccoglimento religioso cominci proprio con il dolore e la rinuncia a voler avere tutto ciò che hanno gli altri», 14 novembre 1955), la tensione a trasformare la realtà presente procedendo con piccole «aggiunte» («mi piace non l'adesione, ma il lavorio, l'aggiunta», 14 agosto 1955), e soprattutto la nonviolenza, la politica attiva per concretizzare le idee collaborando nella costruzione del presente («Io non sono per l'utopismo, ma per la incisività del valore nella realtà, e capacità di cambiarla nei suoi modi e categorie», lettera dell’8 dicembre 1951).
Il carteggio mostra un vincolo tra spiriti eletti molto più intrinseco di qualsiasi legame parentale che si estende e coinvolge tutta la famiglia Binni, in particolare la moglie Elena, a cui Capitini si rivolge spesso direttamente. In occasione di festività e ricorrenze per genetliaci o onomastici, è presente con un augurio, e a volte anche con piccoli e simbolici doni (per es. la “torta” perugina, per Pasqua). Non sorprende pertanto che, nel dettare le sue «volontà», Capitini si rivolga direttamente ad Elena Binni (lettera del 28 agosto 1968), e ancora ad Elena indirizzi un commosso commiato: «Molte volte ti ho ringraziato della serenità e della grazia che tu hai dato nella vita […], e ti ringrazio anche in questo momento in cui debbo avere la massima umiltà circa l’avvenire. Sono certo che anche un elemento della mia salute, proprio della salute, è stata la tua conoscenza, il tuo stile. Perché tu lo sai, che io credo che noi riceviamo e riceviamo, e dobbiamo tener desta la gratitudine» (lettera del 7 ottobre 1968).
Qualche settimana prima di affrontare l’intervento chirurgico le cui complicazioni ne avrebbero poi determinato la morte, Aldo Capitini aveva congedato (alla data del 19 agosto) un rapido sommario della sua esistenza, intitolato Attraverso due terzi di secolo, percependo di essere ormai arrivato sulla soglia che demarca l’azione dalla contemplazione. Con lucidità di sguardo e di giudizio aveva tracciato un bilancio, ripercorrendo la parabola della sua esistenza nell’intento di segnalarne i passaggi più significativi e di misurarne l’intrinseco valore. Ma il vero profilo del filosofo della torre campanaria di Perugia è quello scolpito nelle commosse parole di commiato pronunciate al momento del congedo definitivo dall’amico fraterno Walter Binni al cimitero di Perugia. Nel momento del dolore struggente e della lacerazione provocata dalla sua morte, Binni ne ricorda lo «sguardo affettuoso», l’«abbraccio fraterno» nella «irripetibile vitale presenza»: «Quel volto scavato, energico, supremamente cordiale, quella fronte alta ed augusta, quelle mani pronte alla stretta leale e confortatrice, quegli occhi profondi, severi, capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri cuori ed intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso fraterno e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma così carico di intima forza di persuasione, quella voce dal timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino alle sue minime vibrazioni». Un elogio funebre che accanto al compianto sapeva riconoscere «l’immenso debito contratto con lui» e si chiudeva con un «ringraziamento» non formale e l’auspicio a proseguire il dialogo «nel nostro colloquio con te, con il tuo tu-tutti, attuandolo nel nostro faticoso e fraterno impegno di uomini fra gli uomini, come tu ci hai chiesto e come tu ci hai indicato con il tuo altissimo esempio».
Adriana Chemello