Francesco De Nicola, recensione a W. Binni, La disperata tensione. Scritti politici (1934-1997) , a cura di Lanfranco Binni, Firenze, Il Ponte editore, 2011, in «OBLIO» I, 2-3, ottobre 2011.

«Vivo e soffro la condizione di un intellettuale assolutamente disorganico e sradicato, anche se ostinatamente proteso e attento ad ogni senso di cambiamento rispetto alla società attuale in cui sono costretto a vivere»: così si definiva Walter Binni neppure un mese prima della sua scomparsa (27 novembre 1997) in un ritratto che riassume la sua lunga e appassionata vita politica e di studioso, ma soprattutto etica. E se un’altra parola di sintesi e a comune denominatore del suo impegno pare necessario richiamare, questa ci viene suggerita dal titolo opportunamente dato a questa raccolta di scritti: tensione, tensione a uscire (come negli anni Trenta) dalla cappa del fascismo, tensione ad affermare il senso laico della vita (come al tempo della Costituente), tensione a ribellarsi alle sopraffazioni di stato (come al tempo dei moti studenteschi) e tensione, come ben si capisce dalla parte finale dell’autodefinizione sopra riportata, a uscire dal vuoto morale e civile nel quale è sprofondata l’Italia della dittatura televisiva. E allora appare molto opportuna, ancor più oggi, questa raccolta di sessantatré scritti politici di Binni che coprono un arco di oltre sessant’anni: dal 1934, quando – appena scritto il suo primo saggio leopardiano – comincia a collaborare al «Campano» – periodico culturale del Guf di Pisa – al 1997, quando compone il saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle manifestazioni del bicentenario della nascita di Leopardi. Una lunga serie di articoli e interventi vari, le cui motivazioni e la cui natura sono messe in luce dall’ ampia introduzione del figlio Lanfranco, discreto e puntuale in questo non facile compito di ricostruire e, dove possibile, ripercorrere quegli anni paterni. Gli argomenti affrontati in queste pagine sono molteplici, ma tutti appaiono ancor oggi non privi di spunti di attualità (a volte come profetiche premonizioni) e sorretti da quella passione, da quel mettersi in gioco senza timori di scegliere anche posizioni scomode che anche i lettori dei suoi studi letterari ben conoscono e apprezzano.
Tra i tanti temi trattati su uno in particolare vorrei soffermarmi perché ben ricordo quanto gli stesse a cuore: le sorti della scuola pubblica e il suo impegno in proposito come Padre Costituente. Ecco allora, nell’articolo Scuola e costituente («Europa socialista», 2 marzo 1947), indicate con chiarezze le origini, «nella scuola dello stato unitario liberale e già negli ultimi anni del Piemonte cavourriano» della querelle tra scuola pubblica e scuola privata, scuola dello stato e scuola confessionale per giungere a sostenere con risolutezza l’inopportunità del sussidio statale alle scuole private, che, «appoggiate a potenti ordini religiosi avrebbero una larga superiorità di mezzi rispetto alle scuole statali» e finirebbero col negare la «libertà nella scuola di tutti, dove i giovani non siano soggetti a una formazione dogmatica e inevitabilmente intollerante». In Scuola e Costituzione («Mercurio», marzo-maggio 1947) ricorda che, all’interno della Costituente, «tutti concordano sul principio che l’insegnamento sia libero e che la scuola sia aperta al popolo» e tuttavia vi si è aperto un serrato dialogo, «ora eloquente ora freddo e giuridico», ma «il compromesso non è possibile sulla posizione essenziale che divide nettamente le sinistre dalla democrazia cristiana» anche perché «chi difende la scuola pubblica non difende una scuola di parte ma la scuola liberale, in cui tutti possono insegnare e tutti possono apprendere, difende una possibilità di formazione aperta che lo stato ha il dovere di offrire ovunque e nella maniera più efficiente ai suoi cittadini». E su questi principi, richiamandosi agli articoli 27 e 28 del progetto di Costituzione, egli tornerà ancora in Libertà della scuola («Il Mondo europeo», Roma-Firenze, 1 aprile 1947), Scuola e costituzione («Il Nuovo Corriere», Firenze, 3 aprile 1947) per giungere all’intervento pronunciato all’Assemblea costituente nella seduta del 17 aprile 1947 dal titolo In difesa della scuola nazionale, dove con una forza oratoria sorretta da una passione civile indomabile, afferma che «la scuola pubblica ci unisce e la scuola di parte ci divide. Se penso ai miei figli e ai figli di alcuni miei amici democristiani, non vorrei che fossero separati e desidererei che, come noi siamo stati educati insieme, anch’ essi lo fossero. Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà, quell’unità formatasi anche nell’esperienza dura della lotta contro il tedesco oppressore, vorrei che non si venisse a infrangere, perché c’è bisogno assoluto di questa comprensione democratica, la quale non si può avere se formiamo gli individui secondo un modello, secondo un criterio inevitabile di parte. Questo è l’unico invito, che facciamo non solo come uomini di scuola, ma come uomini liberi, che tengono senza sottintesi alla democrazia». Ecco, credo, un bell’esempio della tensione binniana cui prima si accennava. L’acceso dibattito, civile e rispettoso delle diverse posizioni, troverà infine la sua sintesi negli articoli 33 e 34 della nostra Costituzione, alla cui stesura materiale, e dunque alla scelta ben ponderata e chiara delle parole, lo stesso Binni diede il suo contributo, come spesso amava ripetermi ricordando le difficoltà incontrate e alfine superate con la norma dell’art. 33 che recita: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi», aggiungendo peraltro che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo stato». Ma non meno importante è il terzo comma dell’art. 34: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Si ponevano così le basi per quel principio di diritto allo studio che aveva avuto tra i primi convinti sostenitori il primo ministro dell’Istruzione del neonato Regno d’Italia: Francesco De Sanctis, in questi articoli più volte nominato, apprezzato per «una carica morale che in Italia non ha avuto molte repliche», individuate in Dante e Mazzini, e più avanti definito «un grande, un vero maestro di critica e di cultura», a sancire così un legame attraverso il tempo e la storia certificato, nel nome della comune attenzione critica per Leopardi, dall’edizione curata da Binni nel 1953 del saggio desanctisiano sul poeta di Recanati. Ma comune ai due italianisti era dunque anche la convinzione della necessità di una scuola pubblica libera e aperta realmente a tutti.