Gianluca Paciucci, Politica di Binni («Il Volantino Europeo», Bulletin internautique de l’Association Piotr-Tchaadaev, Versailles, primo trimestre 2012), di prossima pubblicazione anche sulla rivista «Guerra&Pace».


Il volume di Walter Binni, La disperata tensione (Firenze, Il Ponte editore, 2011, pp. 354), a cura di Lanfranco Binni, cui si deve una puntuale e appassionata introduzione, è un'opera importantissima che fornisce ai lettori gli scritti politici del grande critico letterario perugino. Autore di fondamentali scritti di critica su Leopardi, Alfieri e sul Neoromanticismo, capace, ventitreenne, di creare un vero e proprio caso letterario con la sua tesi di laurea dal titolo La poetica del decadentismo (pubblicata nel 1936), Walter Binni emerge dai suoi scritti di intervento politico come un intellettuale di primo piano, intransigente e cosciente del ruolo che si può e si deve svolgere anche nei momenti più duri della vita di una nazione. Binni è la smentita più efficace di chi sostiene la necessaria separatezza di una repubblica delle lettere lontana dal resto dell'umanità, nei cui confronti l'intellettuale avrebbe solo la possibilità di svolgere un ruolo di guida esterna, quasi fosse un sapiente (un tecnico?) cui chiedere l'elemosina di un parere illuminato, e non un essere in carne e ossa implicato nella rete della storia e dei rapporti sociali. Non si tratta di una vecchia discussione: così l'hanno trattata i vecchi e nuovi servi che, sulla “neutralità” delle arti e delle lettere hanno costruito fior di carriere per nulla neutrali, ma al servizio dei padroni di turno. Così hanno ammansito e abbrutito un popolo, facendolo crollare al loro triviale livello e diventarne infine il megafono: di un altro popolo, gioioso e combattivo, avevano paura, dovevano aver paura! Lo hanno avvilito, per guidarlo con le loro urla sguaiate.


Il potere di tutti

Altro il popolo, altro il modello di intellettuale proposto da Walter Binni: letteratura e politica non sono mai separate, l'una entra nell'altra come fossero la stessa cosa, nemmeno il recto e il verso di un foglio, ma un'intimità serrata, che è critica non trasformabile in potere. Da quali modelli Binni attinge questa forza fusionale? I nomi non sono quelli né di uno sterile e delinquenziale zdanovismo né di un engagement un tempo alla moda, e nell'ultimo trentennio insultato dalle mute dei nuovi cani da guardia, forti di livore postmodernista o semplicemente clientes con la sportula da riempire. I suoi nomi sono quelli della radicalità poetico-politica di Leopardi, capace di individuare nei primi decenni dell'Ottocento le contraddizioni e gli inganni del nodo reazione/progresso, e al tempo stesso di proporre una via eroica e limpida di superamento del presente (i grandissimi versi della Ginestra, su cui Binni ha scritto pagine decisive); e quelli di alcuni grandi ancora misconosciuti del Novecento, da Michelstaedter (la “persuasione” contro la “rettorica”) a Capitini. I figli del mare dello scrittore goriziano, l'ultimo Leopardi (Pensiero dominante-A se stesso) e “Capitini e l'antifascismo: la disperata tensione”, insieme ad altri contributi, letture e ascolti, e a stringate osservazioni (quasi un testamento e già una rinascita) appaiono nei fogli di appunti lasciati da Binni “nel novembre 1997, a pochi giorni della morte”1: sono i nomi della fedeltà a un pensiero indomabile. In mezzo, con l'aiuto di questi tre, e poi per via subito autonoma e presto “magistrale”, Binni affronta l'oceano del Novecento con i mezzi vigorosi della critica sociale e letteraria. I primi testi raccolti in La disperata tensione risalgono al 1934-'35 (sulla questione tedesca, affrontata con piglio polemico anti-hitleriano, nella cui dottrina Binni riconobbe la centralità del razzismo), l'ultimo a pochi giorni prima della morte (“Il sorriso di Eleandro”, fortemente polemico contro chi vorrebbe leggere in Leopardi una “falsa disperazione omologata a mode 'nere' e nefaste”). Il volume si articola in alcuni consistenti blocchi: gli scritti politici tra il 1944 e il 1947, culminanti nel discorso all'Assemblea Costituente (venne eletto nelle liste socialiste) del 17 aprile 1947, e altri testi dedicati alla scuola pubblica; gli interventi sulle vicende universitarie negli anni Sessanta, con l'altro grande discorso dedicato all'assassinio di Paolo Rossi (Omaggio a un compagno caduto. Orazione funebre per Paolo Rossi, pronunciata a Roma il 30 aprile 1966); i testi dedicati ad Aldo Capitini, maestro di vita, cui si legano i ricordi di Perugia -città di entrambi, e anche di Paolo Rossi e dei suoi genitori-, uno dei luoghi di Binni, insieme a Pisa (la Normale), Genova, Firenze e Roma (l'insegnamento universitario), ma luogo fondante, altissimo2 di dolci colli, e non di vette boriose. Proprio in terra umbra, e non poteva forse svilupparsi altrove, è nata la proposta politica di Capitini, quella omnicrazia, quel potere di tutti che è taglio netto e duraturo delle radici del potere, che è fine della sopraffazione, che è liberalsocialismo, nel senso di libertà nel socialismo, e non certo quel pasticcio velenoso che è diventata oggi questa parola sulle labbra di tanti, magari ex comunisti (da Occhetto in poi).


Per una scuola libera

Impressionante è leggere tutti gli interventi, articoli, recensioni e discorsi dedicati al tema della scuola pubblica, e anche avvilente, a nostra vergogna: la forza di Binni è la forza di un pensiero che non ha paura; la mediocrità dell'oggi è la paura nei confronti del pensiero. Non che nel primo dopoguerra o nei giorni che seguirono l'orazione funebre per Paolo Rossi, non ci siano state polemiche, anche grossolane e meschine. La stampa cattolica e di destra, le istituzioni universitarie, per lunghissimi decenni saldamente in mano a un baronato retrogrado, e singoli intellettuali attaccarono le posizioni di Binni, ma questi si difese, e fu difeso, e soprattutto sentiva -crediamo- la forza di un insieme di energie che in lui trovavano libero sbocco. E poi c'erano punti rigorosamente non negoziabili! A questo serviva l'egemonia culturale, campo di battaglia disertato da tutta quella sinistra che negli ultimi trent'anni ha sdoganato di tutto, da Bottai a Craxi a Cristo (atei devoti anche a manca...), in conversioni ridicole e concrete cessioni di sovranità, pagate caramente dal nostro Paese ma lautamente ricompensate ai neocon (il mediocre predicozzo di Giuliano Ferrara -24 dicembre 2011, Raiuno ore 20.30- sul bambin Gesù, è il punto di non ritorno della devastazione intellettuale trionfante).
Non negoziabile è il principio di una scuola pubblica e laica. Dice Binni nel sopra citato discorso all'Assemblea Costituente: gli articoli della Costituzione italiana dedicati alla scuola affermano “questi due grandi princìpi, cioè la libertà d'insegnamento e la possibilità per tutti di entrare in qualsiasi grado della scuola” al fine di “portare il maggior numero di persone al possesso dell'istruzione, della tecnica ed alla consapevolezza conseguente di questo possesso...” (p. 195); e poi, dopo aver argomentato contro qualsiasi sovvenzione alle scuole private perché “queste sovvenzioni hanno l'unico risultato di dare maggior forza alle scuole private diminuendo l'efficienza delle scuole di Stato”, ecco la perorazione finale: “Vorrei dirvi che la scuola pubblica ci unisce e la scuola di parte ci divide (...). Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà, quell'unità, formatasi anche nell'esperienza dura della lotta contro il tedesco oppressore (...). Noi non portiamo un attacco, ma una difesa; non andiamo all'assalto dell'altrui posizione, ma vogliamo difendere la posizione della libera formazione...” (p. 202). Una difesa vincente: è grazie a posizioni intransigenti come questa di Binni, e nonostante l'articolo 7, che nell'Italia del dopoguerra la scuola è stata un bastione della vita democratica, che è vita “aperta” (il concetto di apertura è centrale nel lessico di Capitini), il cui contrario è la vita “chiusa”, preparata da scuole “chiuse”, da una chiusa formazione in scuole confessionali e di parte. Chi vuole chiudersi in uno di questi luoghi infelici, dicono Binni e la Costituzione, lo faccia, ma “senza oneri per lo Stato”. Oggi un discorso di questa levatura verrebbe trascinato nel fango delle urla di neocon e teodem, e messo all'indice da una gerarchia cattolica sempre più potente e prepotente. Noi all'intransigenza di Binni, e di non pochi altri e altre (Maestre e Maestri ce ne sono, basta liberarli e liberarle dagli ergastoli), dovremmo ispirarci, cominciando col leggere questo libro immenso.


  1. Pag. 5, in “Walter Binni 1913-1997”, numero speciale de Il Ponte, Anno LXVII, nn. 7-8, luglio-agosto 2011: questo speciale contiene scritti, saggi e ricordi su/di Walter Binni, e con l'opera che stiamo recensendo costituisce un formidabile dittico.
  2. Parlando di Capitini, “Perugia come nuova Gerusalemme da cui inviare il suo messaggio ideale e attivo” (pag. 292); quel Capitini che “operò con inspirazione così inconfondibilmente umbra (...) riprendendo tra le sue più congeniali sollecitazioni profonde la prospettiva di Francesco d'Assisi e quella del supremo appello leopardiano della Ginestra... ” (p. 310, in “Umbria, una premessa”).