Massimo Jasonni, Gadda e Binni, due lettere e non solo («Il Ponte», a. LXIX, n. 10, ottobre 2013).


Carlo Emilio Gadda spedisce a Walter Binni due lettere, la prima nell'inverno del '43, la seconda alla fine della guerra, che Il Ponte Editore pubblica, con ricca introduzione di Lanfranco Binni, in La protesta di Walter Binni. Una biografia. Il volume raccoglie un corposo epistolario, tra cui le due missive precedenti, che, dal '31 sino al ’97, anno della morte del critico, non solo fornisce testimonianza del magistero letterario e del percorso accademico del grande allievo di Russo e Momigliano, ma illumina anche una passione civile sorretta dall'adesione intransigente al pensiero laico socialista.
Su tale collegamento – tra belle lettere e ideologia politica – interviene Italo Calvino: che in una missiva del 22 ottobre 1963, inviata da Torino su carta intestata Giulio Einaudi Editore, ringrazia Binni per avergli inviato il suo libro1 e chiosa: «È un esempio di discorso critico articolato e completo, e un segno di come critica universitaria e critica militante possano vantaggiosamente integrarsi»2 .
In realtà, questa integrazione, cui Calvino plaudiva come inveramento del sogno gramsciano di un'egemonia culturale della sinistra capace di tradursi in governo del paese, non ci fu mai; e anzi fu proprio l’assenza, in Binni, di tale integrazione a felicemente consentirgli un'estraneità radicale dalle paludi del mondo universitario italiano.
Gadda si allinea a una corrispondenza con Montale scarna, ma affine nell’animo e, in qualche modo, preparatoria.
Montale scrive a Binni ai primi del novembre del 1936 in merito a sconti editoriali e dispensa di depositi a garanzia per “professori”. Ciò in cambio di abbonamenti a più o meno lungo termine. Ma è l'occasione per esprimere «vivo compiacimento» per la lettura della Poetica del Decadentismo e per concludere con un disappunto alla soda caustica: «Dia un'occhiata alla rivista nuova di Carocci e Noventa e vedrà a che punto può arrivare anche oggi lo spirito reazionario»3 .
Più importanti due successivi rapporti epistolari, non prossimi tra di loro nel tempo, giacché il primo risale al 16 ottobre 19504 , il secondo al 16 luglio 19675 , ma connessi dal filo rosso di un’inquietudine esistenziale accentuatasi negli anni. Nella prima occasione Montale declina il malessere proprio del «Poeta suo malgrado» e denuncia una personale «lontananza» dal ruolo pubblico del poeta che lo spaventa: «perché altri attacchi alla vita non ne ho». «Sono rimasto un po' bambino» – spiega –, confessando una vergogna infantile provata al cospetto della stima del professore universitario. Ecco, se non il primo cronologicamente, certo un significativo riconoscimento di una dialettica tra Binni e l’universo artistico, fervida per umiltà e reciproca disponibilità: niente a che spartire con l’alterigia di tante scuole di cattedratici, ossequiate da sedicenti, devoti ricercatori.
Nella seconda missiva, Montale rinnova i sensi della sua gratitudine e si apre a una confessione disinvolta, inusuale in chi della ritrosia sembrava aver fatto uno stile di vita: ha rimorsi per il ritardo con cui risponde, dubita di meritare gli omaggi resigli dallo studioso, vive in uno stato di disarmante disagio. È incapace anche solo di recarsi alle Poste e di far partire una raccomandata. Anche qui la chiusa non è zuccherina: si dice lieto di essere uscito da alcuni anni dal premio Viareggio, in cui Binni era in quei giorni entrato in commissione. E punta il dito: vogliono premiare «uno sfacciato apologeta di Stalin»6 (ovvero Pablo Neruda).
Le ultime due montaliane a Binni sono telegrafiche, entrambe segnate dal pulsare di una luttuosa memoria. La prima – 11 novembre 1968 da Milano, via Bigli 15 – rimpiange Capitini, nemmeno a un mese dalla scomparsa del perugino, si duole «di non averlo conosciuto di più», afferma che «non bisogna dimenticarlo»7 ; la seconda – 9 luglio 1981, in occasione di un convegno indetto da Binni a Pietrasanta per il decennale della morte di Luigi Russo – esprime «condivisione della gran parte delle sue opinioni»8 .
Quanto a Gadda, il contributo epistolare è numericamente inferiore al precedente, ma non per questo meno penetrante.
La prima lettera è del 27 febbraio 1943, siglata XXI (quasi a denuncia di una pregressa adesione al fascismo, poi fatta oggetto di autocritica all'acido muriatico); essa proviene da Firenze, via Repetti 119 . Si ha qui conferma di un modo di porsi del romanziere davvero senza precedenti nei confronti del critico letterario. C'è gratitudine e, come sempre nei rapporti interpersonali in Gadda, un quasi fastidioso sussiego: «la serietà e il valore del suo studio superano “l'oggetto”, ciò che conta, tuttavia, è la costruzione comune». Ma c'è – ben prima, ed è quel che preme sottolineare – un'apertura al più intimo e riservato, a quel nevrotico e impacciato che è paradossalmente costitutivo della prosa gaddiana. Gadda si definisce «un autore non sempre “simpatico”», costretto entro limiti imposti dalla povertà di forze, angustiato da un lavoro in cui «scadenze tormentatrici sono state motivo a rimandare, rimandare...». Ove la ripetizione finale del verbo mostra assonanze nevralgiche con il pasticcio linguistico della Cognizione: un ribadito rintocco di campane, il riapparire inatteso di un paracarro costituiscono l’esito estremo dell'approccio leopardiano alla realtà. Il male, ormai, è dentro di noi, ossedente e immedicabile. Parliamo di un male inteso non più come momento alto, partecipe del retroscena metafisico, ma come fatto interno alle vicende dei mortali, banalmente pervasivo di ogni cellula umana e, proprio per questo, invincibile. Si abbia bene a mente, a questo proposito, che l’orizzonte in esame – come approdo della lirica e del romanzo del Novecento – è quello dell’annichilimento dei fondamenti non solo della teologia cristiana (nullus Deus, nisi Diabolus), ma anche del pensiero platonico (il mito della caverna, nei suoi vari stadi).
Da questa lettera apprendiamo che Binni si era mosso con parole e azioni paterne: aveva confortato l'ingegner Fantasia proprio quando egli temeva di non farcela più, nel momento in cui la depressione sembrava avere la meglio. Binni, con la sua autorevolezza, lo aveva sollecitato «a ultimare la stesura corazzata della Cognizione del dolore», a portare a compimento «un abbozzo» che riteneva «già completo»10 .
Della dimensione del , come in precedenza evocata, è un attimo ancora a dirsi: sollecitando il lettore a una riflessione su quella parte più privata di noi, che Hegel disprezzava, cogliendone i pericoli dell'enfatizzazione dei sentimenti, e che Capitini aveva da Hegel intelligentemente raccolto. Per passare poi, il perugino, attraverso la religiosità di Dostoevskij e giungere alla formulazione di quell'identità «uno-tutti», attorno a cui si sarebbe incentrata la discussione con Calogero e Binni.
Ancor più intensa la seconda lettera di Gadda, quella del 26 aprile 194611 , da Firenze. Qui lo stato di inquietudine spirituale, una vera e propria fisiologica, prima che letteraria, coscienza del male, pervade ogni parola. È una lettera capolavoro, entro cui tutti i lineamenti del gigante brianzolo sono agevolmente rinvenibili. Il male oscuro, di cui «tutte le discipline discettano senza saperne i come ed i perché», incombe come un macigno: Gadda si scusa, si riscusa con l'interlocutore, invoca un perdono che rimbomba come una eco sul costone della montagna. Esprime voti riconoscenti, li estende a ogni persona cara al docente.
Da tutto ciò emerge un dialogo leale e nostalgico, affine a quello tra Gonzalo e il medico di campagna che nella Cognizione amorevolmente lo ha in cura e, preoccupato, chiede della madre. «Dense nubi e terribili anni si sono addensati sulla nostra (alludo ai coetanei) maturità»; «nuovo dolore si è aggiunto alla stanchezza, per me, di una vita non lieta».
Lo spirito paterno del destinatario delle lettere qui si tramuta in cordiale fraternità, coscienza piena di una redimente solidarietà di cui Gadda rende testimonianza e merito: «conforto unico e vero è la stima o almeno la cordiale vicinanza di anime come la sua: di questa fraterna attenzione le sono profondamente grato...». «Cercherò di riprendere: e di riprendermi. Intanto gli anni si dissolvono, come i pensieri: Chissà se arriverò a tempo».
Questa biografia epistolare offre conferme e sollecita precisazioni. Si conferma la straordinaria rilettura di Leopardi, lo splendore dell'affresco sul Decadentismo e la bellezza anche di quei saggi sull'Ariosto che Croce malignamente invitava a «lasciar per ora da parte». Si riprendesse eventualmente il lavoro – consigliava a Binni don Benedetto – una volta che si fossero meglio chiariti i concetti direttivi12 . In essa si precisa, nel contempo, l’incompatibilità del Nostro con le piaggerie e le malevolenze, le miserie e i servilismi, per dirla in una, con Calamandrei, gli «incagli»13 che ammorbano i concorsi universitari. Si veda la lettera in cui Fubini benedice la chiamata romana, che costituisce per Binni una liberazione «dall'opprimente atmosfera fiorentina»14 ; si veda la lettera in cui Sapegno, su carta intestata Accademia Nazionale dei Lincei, si dice lieto dell’inquadramento dell’illustre collega nell’Università statale della capitale, salvo dover ammettere di aver fatto di tutto perché questo non avvenisse15 .
Momigliano aveva avvertito da subito, prima ancora della laurea dell’allievo alla Normale, un’idiosincrasia per le caste, pari e contraria alla fedeltà alla letteratura: «la poesia è […] un rifugio, una sfera di serenità e di silenzio: lei, che ha un'anima sensibile, lo ha capito»16 .

1 Si trattava di Poetica, critica e storia letteraria, edito in quel medesimo anno da Laterza.
2 La protesta… cit., p. 221
3 La protesta… cit., p. 157.
4 La protesta… cit., p. 195.
5 La protesta… cit., p. 234.
6 La protesta… cit., p. 234.
7 La protesta… cit., p. 239.
8 La protesta… cit., p. 257.
9 La protesta… cit., pp. 170 e 171.
10 La protesta… cit., p. 280.
11 La protesta… cit., pp. 178 e 179.
12 La protesta… cit., p. 183.
13 Lettera di Piero Calamandrei dell'8 maggio 1951, in La protesta… cit., p. 196.
14 La protesta… cit., p. 227.
15 La protesta… cit., p. 226.
16 Lettera di Attilio Momigliano del 17 novembre 1934, in La protesta… cit., p. 151.