Michele Feo, Il carteggio fra Luigi Russo e Walter Binni, «Il Ponte», 10, Firenze, ottobre 2015.


Di tutto l’archivio prosopografico è lui la figura più dolorosa. Man mano che le carte diventano pubbliche e anche le miserie private vengono alla luce, è lui l’ospite non gradito. Mi ricorda sempre più il Gesù morto che ritorna vivo fra i suoi e quelli hanno già edificato in suo nome la Chiesa gerarchica e una nuova struttura di potere, con le cui leggi lo “scemo del villaggio” ovvero “l’idiota di Dio” non è compatibile; e se alla fine il Grande Inquisitore non arriva a condannarlo come impostore, lo caccia però via con l’ordine di non farsi mai più vedere. Lui è Aldo Capitini: con la sua irriducibile non-violenza, con la sua testarda non-collaborazione, con la sua religiosità ostile a tutte le confessioni positive, con la sua utopica democrazia-di-tutti non trattabile con nessuna fazione, con la sua fratellanza panteistica non disposta a transigere nemmeno sull’uso delle scarpe di cuoio.

Era stato il più puro degli antifascisti. Ma quando la sua ombra torna che s’era dipartita, è un ingombro, un residuo del passato da custodire in una nicchia, incapace di occupare un posto affidabile e “costruttivo” negli ingranaggi, nei giochi volpini, nei cinismi obbligati e nei trasformismi del nuovo Stato repubblicano. Lo riprendono a malincuore al posto ch’era suo alla Scuola Normale; non lo amano i suoi colleghi dell’Università di Pisa, tutti più o meno compromessi col passato regime; non c’è partito della sinistra in cui stia a suo agio; lo odiano cattolici e democristiani; polemizzano con lui il giovane Timpanaro e Ragghianti; Contini lo considera responsabile di una sua disavventura accademica; persino Cantimori e Perosa non nascondono qualche malumore. E ora lasciano allibiti le qualifiche decisamente offensive di cui lo gratifica Luigi Russo con la sua irrefrenabile, quasi goliardica, parresia nel carteggio con Walter Binni testé pubblicato nelle Edizioni della Normale[1]. L’8 marzo 1950 Russo scrive di lui che «è stato capace nella sua congenita scemenza a clericalizzare al tutto la Scuola Normale», aggiungendo che «è proprio [...] un ingenuo come Davide Lazzaretti, il quale crede ancora di dover riformare il mondo e lo riforma cattolicizzandosi sempre più»[2]: per uno che ebbe a mandare alla somma autorità della Chiesa cattolica atto di apostasia l’accusa rasenta il ridicolo. Mesi dopo, il 17 luglio 1950, la disistima di Russo assume forme parossistiche: Capitini è stupido, vigliacco, truffatore e confusionario. «Quest’uomo utilitario e vanitoso, come tutti i preti, tira sempre l’acqua al suo mulino, e sembra che abbia il candore di Fra’ Ginepro». A Perugia ha portato alla rovina l’Università per stranieri con la sua ignoranza e vanità; a Pisa e alla Scuola Normale è «completamente sfatato» e gode dell’universale disprezzo dei colleghi e dei giovani[3]. Russo è deciso a rompere pubblicamente con lui con un articolo intitolato Il falso democratico (per fortuna mai scritto). Che Capitini fosse del tutto all’oscuro di queste e di altre forme di avversione di Russo pare pressoché improbabile. Ma ciò non gli impedì di rendere il dovuto omaggio al vecchio amico morto, riconoscendogli il ruolo di «animatore della cultura d’opposizione»[4]. Un risarcimento a Capitini sarebbe venuto molti anni dopo da casa Russo per opera della direzione di Carlo Ferdinando (detto Lallo) col ritratto belfagoriano scritto da E. Niccolini[5]. Qualche lettore del «Ponte», che ricorda la collaborazione di Capitini alla rivista e i numeri speciali a lui dedicati[6], troverà sorprendenti i giudizi di Russo del 1950.

Ma ancora nel 1950 in Italia si era in guerra: la guerra era quella sorda fra laici e cattolici, che in qualche modo e con qualche mistificazione era un’appendice della guerra civile resistenziale. Russo sentiva l’assedio del «nuovo fascismo» e a tratti scambiava le barricate accademiche con le togliattiane scaramucce intorno a fortini e casematte dello Stato capitalistico borghese. Il Russo che era riuscito a navigare fra Gentile e gli Alleati, che si era tutto immerso nelle acque scogliose della transizione, che aveva governato abilmente la ricostruzione della Scuola Normale, vedeva Capitini «prigioniero del suo sogno di uomo clandestino»[7] e incapace di vivere la politica reale. Il suo liberalsocialismo era «liberalconfusionismo». Tranne che, quando di «democrazia diretta» si sentiva mancanza, il pensiero di riferimento non poteva che essere quello capitiniano[8], non quello dei politici di professione.

A leggere queste lettere si resta ammirati e stupefatti della capacità, funambolescamente lucida, di Russo di muovere, assemblare e scombinare alleanze, di tessere trappole, catturare alleati, neutralizzare inimicizie per indirizzare borse di studio, libere docenze, incarichi e cattedre, non sempre con vittorie trionfali. Ma il metodo era legittimato da un alto senso civile del ruolo dell’università nella società italiana, come luogo privilegiato della formazione della classe dirigente del paese. Meno evidente risulta la concezione dell’università come luogo della ricerca scientifica. L’aver dato la precedenza da parte degli “umanisti” alla prima delle due funzioni ha spesso trasformato aule e facoltà in campi di battaglia fra scuole e ha degradato i concorsi a faide: col risultato, al di là di più o meno nobili intenzioni, di aver prodotto in Italia un intellettuale mediamente mediocre, organizzato per consorterie, servile, opportunista/trasformista e più legato alla politica immanente che a quella trascendentale. Più d’uno in sessant’anni di repubblica costituzionale ha perso di vista che il vero intellettuale è un individuo e che il partito è un’altra cosa, che anche nelle ricerche di gruppo chi è fesso resta fesso, pur se sia ammesso nel salotto buono, che infine non sempre le buone ideologie sono buone madri di scienza.

Ho cominciato provocatoriamente da quella che a me è parsa la parte più caduca del carteggio; e risparmio al lettore l’elenco degli epiteti, bizzarri, estrosi, fulminanti e per lo più ingiusti che si accompagnano al fior fiore dell’intellettulità del tempo, di sinistra e di destra. Ma vorrei che la provocazione svolgesse il compito etimologico di chiamare a leggere e ribattere. Dei due curatori del libro uno è il secondogenito di Walter Binni, uomo come il padre poco remissivo, studioso di valore, polemista ben noto ai “pontieri”, ora impegnato con autentico furor di lavoro nell’edizione degli opera omnia di Walter per le edizioni del Ponte. Il secondo è l’erede spirituale di Carlo Ferdinando Russo e della di lui compagna, la pittrice Adele Plotkin, dopo aver assolto per un ventennio le mansioni di segretario di redazione di «Belfagor», anche lui eccellente studioso. E chi scrive appartiene alla generazione di studenti pisani che hanno ascoltato i corsi dei due ultimi anni di vita di Russo padre. Lo scrittore di Delia, più che il critico, aveva esercitato su di lui un grande fascino negli anni del liceo classico ad Altamura. Al Machiavelli (che ora si apprende si vendeva in 10-12.000 copie l’anno) era giunto quasi naturalmente, venendo dal Corsaro nero e passando per Anna Karenina. Non intendeva bene cosa fosse “critica”, ma sentiva nelle opere di Russo fermentare l’arte di un racconto fino allora sconosciuto, il racconto della letteratura, che intrecciava la rappresentazione vivida dei personaggi in una lingua chiara e cristallina con squarci di storia e con irruzioni polemiche etico-politiche: era la letteratura come mondo perfetto del bello, dove non c’erano il dolore e l’angoscia del presente, ma la contemplazione dei dolori e delle angosce che furono.

Tracce delle doti di narratore di Russo registra a tratti anche questo libro. Ne ricorderò due diversamente deliziose: una è affidata a una lettera ad Adolfo Omodeo del 14 aprile 1942 e racconta una perquisizione della polizia nella abitazione di Firenze («Hanno rovistato anche il mio portafoglio, e vi hanno trovato trenta lire, dei biglietti da visita, e l’abbonamento ferroviario. Poi hanno finito con l’ammirare la mia biblioteca. Hanno esplorato le camere delle figliuole, e io speravo che venisse fuori qualche lettera d’amore. Nemmeno quelle!»[9]); l’altra sta in una lettera a Binni del 30 luglio 1960 e testimonia allegramente la voglia di vivere la vecchiaia in fervore di attività («Io sono poi stato eccellente nella serata, perché tutti si mettevano “scorno”, come si dice a Napoli, di ballare, e io mi sono lasciato trascinare da madame Genevois, e poi ho fatto ballare altre sette tra signore e signorine: cet homme est formidable! hanno esclamato le francesi. Certo è che la notte io ho dormito sette ore tranquillissimo»[10]).

Avrei capito molto tempo dopo che la contemplazione e la scrittura della contemplazione erano operazioni di lontana origine mistica e che il metodo che le trasferiva entrambe alla letteratura non era una religione, ma un’attitudine del pensiero che si chiama storicismo. Il Russo che vidi nella grande aula di Palazzo Ricci, gremita all’inizio di quattrocento studenti e via via impietosamente spopolata, era corpulento e conservava ancora l’accento siciliano. Aveva perso in forza, ma il carattere era tutto il suo: si adirava per le sanguinose cronache della politica (governo Tambroni), usava la risata dissacrante contro la stupidità, si divertiva a dare sfogo innocuo al suo anticlericlerismo, urlò contro la vantata scoperta di Branca della seconda centuria dei Miscellanea del Poliziano (questione argomentatamente trattata nel carteggio, con la gustosa etichettatura del malcapitato come «grande fra Cipolla della filologia»[11]), raccontava con qualche cedimento emotivo aneddoti normalistici, ma alzava il coturno quando parlava della politicità trascendentale, dello storicismo e del tramonto del letterato. Una volta dichiarò che nessuna rivoluzione era stata mai possibile in Italia, perché noi siamo figli dello storicismo, e disse anche che verrà tempo in cui sarà lecito dir bene del fascismo. Aprì la sua ultima lezione con toni profetici: «Voi siete nati a Pisa o a Navacchio, ma avete il mondo davanti a voi. La mia civiltà è stata al massimo europea, la vostra sarà mondiale». Non ho sostenuto l’esame di Storia della letteratura italiana (nell’università di allora le titolature disciplinari avevano tutte un prolettico metodico, fosse Storia o Filologia o Lingua) con Russo, perché nell’estate del 1961 egli morì prematuramente, dopo aver annunciato qualche mese prima a Binni di avere una salute di ferro. Ho conservato tuttavia il ricordo di lui e la coscienza di quanto mi abbia segnato, anche se ho finito per deporlo nella galleria dei miei classici e sono andato per altre strade. Ho preso altre strade, anche perché quella critica che mi era apparsa dapprima come dolce contemplazione mi si rivelò, grazie anche alla mediazione degli autori latini, un mestiere censorio e tribunalizio dall’alto del quale giudicare e mandare. A me mancarono gli strumenti giuridici per condannare e assolvere. E più mi piacquero le tecniche indirizzate alla semplice comprensione dei testi.

Allora in questa sorta di amarcord intorno alle lettere intercorse fra un maestro e un allievo, siamo in tre ad avere qualche personale conflitto di interesse: un figlio di sangue, un quasi nipote di elezione, un mezzo allievo. È un caso in cui i conti o si fanno male o si fanno troppo bene.

Walter Binni in questo dialogo sembra essersi scelto il ruolo di “spalla”. Le sue lettere sono in numero nettamente minore, sono meno lunghe, sono molto più caute e mai si spingono a chiamare “scemo” un collega. Ha conservato tutta la vita un rispetto all’antica dell’allievo per il maestro, e fra i due si è formata una solidità di amicizia e di affetti, che pure non li ha portati a usare il tu. Quando Russo morì improvvisamente, Binni ne pronunciò a Pietrasanta dopo soli due giorni un commosso elogio funebre[12] e ancora, pochi mesi dopo, rese omaggio a colui che lo aveva messo trent’anni prima nell’aringo della “poetica” dell’artista, intesa come «il mondo stesso, e di teorie estetiche, e di miti passionali, morali, politici, che costituiscono la humus in cui nasce in concreto la sua poesia»[13]. Davanti a intemperanze di Russo, Binni tace o fa intendere – come nel caso di Capitini – il suo dissenso.

A tal proposito val la pena di ricordare qui le alte parole con lui lo ricordò a Perugia ai funerali del 21 ott. 1968[14], facendone un mito di umanità e di pensiero-azione, a riprova di una fedeltà (e anche di un senso di figliolanza morale) mai incrinata: «Quel volto scavato, energico, supremamente cordiale, quella fronte alta ed augusta, quelle mani pronte alla stretta leale e confortatrice, quegli occhi profondi, severi, capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri cuori ed intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso fraterno e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma così carico di intima forza di persuasione, quella voce dal timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino alle sue ultime vibrazioni. [...] il ricordo e il dolore si tramutano in una tensione che ci unisce con Aldo nella sua più vera presenza attuale, nella sua non caduca presenza in noi e nella storia, e ci riempie di un sentimento e di una volontà quale egli ci chiede e ci comanda con tutta la sua vita e la sua opera più persuasa di combattere per una verità non immobile e ferma, ma profonda ed attiva, concretata in quella prassi conseguente di cui egli sosteneva proprio in questi ultimi giorni, parlando con me, l’assoluto primato». Ma la figura di Capitini maestro è come naturalmente integrata in tutta l’opera di Binni e a lui si attagliano tutte le idee-forza della rivoluzione critica dell’allievo. Il migliore inquadramento storico è affidato al ricordo nel secondo anniversario della morte (1970)[15] e tocca la vertigine poetica il discorso sul Colloquio corale (1974)[16]. Ancora pochi giorni prima di morire, il 4 nov. 1997, chiudendo il racconto autobiografico Perugia nella mia vita, faceva la confessione suprema di tornare rare volte nella sua città, ma di tornarvi per colloquiare al cimitero con sua madre e con Aldo[17].

Binni asseconda la politica accademica di Russo, ma non ne è un architetto. Del resto le sue fortune personali, anche editoriali, sono molto meno clamorose e più di una volta deve subire insuccessi. Ma dal detto e dal non detto traspaiono una saldezza etica ben più rocciosa, un rapporto con la politica più sofferto e anche forse più eroico. Se Russo usò la politica come arte del possibile, Binni le chiese anche l’impossibile, e in questo fu più allievo di Capitini che di Russo. Antifascista “liberalsocialista” dal 1936, attivo costruttore del Partito Socialista, fu uno dei padri costituenti e poi parlamentare, soffrendo tutti gli entusiasmi e tutte le delusioni della politica attiva, che lo sottraeva agli studi che soli sentiva veramente suoi. C’è nel Binni, che i miei coetanei, suoi allievi del triennio normalistico 1961-1964, mi definivano fascinosamente silenzioso, quella che il figlio Lanfranco ha messo come titolo di una bella raccolta di scritti di battaglia, pubblicata nelle Edizioni del Ponte[18]: una disperata tensione. I termini “tensione” e “sforzo tensivo” percorrono tutti gli scritti di Binni e sono insieme con “poetica” i segni del suo pensiero e della sua stessa vita: traducono l’idea tedesca di streben, fertile da Hölderlin a Dilthey come meta concreta dello spirito creativo personale e come moto della storia (Binni aveva fin da giovane una grande familiarità con la cultura germanica), e possono incarnarsi nell’inseguimento, in politica, della società giusta e, in letteratura, della forma perfetta, ma non sono mai un incessante e frustrante rincorrere l’infinito senza avere una meta precisa[19]. Dalla contemplazione e narrazione della letteratura di Russo Binni era passato leopardianamente alla ricerca dura e scabra del “vero” letterario. Trovo felice il bilanciamento dei due metodi che è stato altra volta utilizzato, e che ho sentito fare anche da Lanfranco, come metodo storico-critico (Binni) versus storicismo (Russo).

Nessuno dei due ha varcato la soglia della nuda e povera filologia; ma, come ha sottolineato Eugenio Garin[20], nel suo primo libro del 1936, quello famoso sulla poetica del decadentismo, Binni ricordava con gratitudine, accanto ad Attilio Momigliano, a Luigi Russo e ad Aldo Capitini, anche il princeps philologorum Giorgio Pasquali; e aggiungiamo che non è un caso che un filologo eccelso come Sebastiano Timpanaro jr abbia trovato non in Russo, bensì in Binni, il punto di partenza ermeneutico per andare verso la difficile unità di filologia e poesia e per scoprire le fonti del pessimismo materialistico, valido per la vita politica, per la vita biologica e per quella letteraria.

Dicevano gli antichi che epistula non erubescit, che la lettera parla senza peli sulla lingua, e non si vergogna di dire cose che a voce o in pubblico non diremmo. E aggiungeva Petrarca, scrivendo a un amico, che la lettera gli mandava come l’immagine di se stesso, imago mei. Fra questi due estremi rivelatori sta la nostra perplessità di fronte allo scoperchiamento indiscreto e irriverente di confessioni che non sono state rivolte a noi. Probabilmente il giusto consiste nel rinunciare calcolatamente al pudore o a porzioni di esso, prendendo la distanza di sicurezza, prima che critica, temporale, dalla rivelazione pubblica di quegli scritti. Perché abbiamo capito che, se non è corretto strumentalizzarli, non è nemmeno corretto dimenticarli. Forse la verità è che di essi non possiamo fare a meno.



[1] L. RUSSO-W. BINNI, Carteggio 1934-1961, a cura di Lanfranco BINNI e Raffaele RUGGIERO, Pisa, Edizioni della Normale, 2014, pp. XV-281, € 35,00. Varie lettere di Russo a Binni erano state già pubblicate da Lanfranco in appendice alla sua biografia, rigorosa e appassionata, del padre La protesta di Walter Binni, Firenze, Il Ponte Editore, 2013. È in atto un’opera sistematica di pubblicazione dei carteggi di Luigi Russo presso la Scuola Normale: sono usciti quelli con Giovanni Gentile 1913-1943, a cura di Roberto PERTICI e Antonio RESTA (Pisa 1997), e con Benedetto Croce 1912-1948, a cura di Emanuele CUTINELLI-RENDINA (Pisa 20072); è in preparazione quello con Adolfo Omodeo 1925-1946, a cura Roberto PERTICI e Antonio RESTA. Dei carteggi di Binni è stato reso noto quello con Aldo Capitini 1931-1968, a cura di Lanfranco BINNI e Lorella GIULIANI, Roma 2007.

[2] RUSSO-BINNI, Carteggio, p. 119.

[3] RUSSO-BINNI, Carteggio, pp. 127-128.

[4] «Belfagor», XVI (1961), pp. 879-880.

[5] «Belfagor»,XLIII (1988), pp. 657-674.

[6] Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, a cura di T. RAFFAELLI, «Il Ponte», LIV, n. 10 (ott. 1998); e Liberalsocialismo e non violenza: la religione civile di Aldo Capitini,Quaderni del Ponte, 9, Firenze, Il Ponte Editore, 2009.

[7] RUSSO-BINNI, Carteggio, p. 75.

[8] RUSSO-BINNI, Carteggio, p. 73.

[9] RUSSO-BINNI, Carteggio, p. 57, n. 2.

[10] RUSSO-BINNI, Carteggio, p. 239.

[11] RUSSO-BINNI, Carteggio, pp. 246-247.

[12] W. BINNI, Per Luigi Russo, «Belfagor», XVI (1961), pp. 533-534.

[13] W. BINNI, La critica di Luigi Russo, «Belfagor», XVI (1961), pp. 698-734 (la cit. a p. 723 riprende parole di Russo del cap. su Gentile nella Critica letteraria contemporanea, II, Bari 1942, p. 84).

[14] W. BINNI, Per Aldo Capitini, «Il Ponte», XXIV, n. 10 (ott. 1968), pp. 1325-28.

[15] «Azione non violenta», VII, nn. 10-11 (ott. 1970).

[16] Aldo Capitini e il suo «Colloquio corale», Perugia 1974.

[17] Ora in: L. BINNI, La protesta di Walter Binni (n. 1), p. 135.

[18] W. BINNI, La disperata tensione. Scritti politici (1934-1997), a cura di L. BINNI, Firenze 2011.

[19] Su ciò vd. C. VARESE, Poetica e tensione nella semantica critica di Binni, nel vol. collettivo Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di M. COSTANZO, E. GHIDETTI, G. SAVARESE, C. VARESE, Roma 1985, pp. 20-42, partic. 20-22.

[20] Alle origini della nozione di poetica, nella miscellenea cit. a n. 18, p. 10.