Novella Bellucci, «Il poeta della mia vita». Il Leopardi di Walter Binni (in I Maestri e la memoria , «Studi (e testi) italiani», 32, Roma, Bulzoni editore, 2014);


NOVELLA BELLUCCI

«Il poeta della mia vita» Il Leopardi di Walter Binni

Leopardi e Binni, ovvero un esempio di amicizia integrale fra un poeta e il suo cri- tico; di «simpatia nel suo più esatto significato di ‘passioni accoppiate’», per ricorrere a una intensa definizione di Alberto Savinio (pure, se nel caso di specie, si tratta di passioni impossibilitate a dialogare direttamente).

Un incontro che non esito a ritenere unico nella storia dei sodalizi postumi fra gli autori e i loro interpreti, per fedeltà e intensità di adesione, per ricchezza dialogica, per esplosiva incisività (dopo la lettura di Binni, Leopardi per i suoi lettori non è più stato lo stesso)[1].

È superfluo ripetere parole sull’importanza dei contributi binniani nella storia cri- tica leopardiana[2]: essi, mentre hanno segnato le forme della ricezione del nostro più grande classico moderno a partire dalla seconda metà del secolo scorso, hanno rappre- sentato e continuano a rappresentare un approdo interpretativo tuttora imprescindibile anche se non sempre condiviso; e oggi, a quarant’anni dalla Protesta di Leopardi (1973) e a quasi settanta dalla Nuova poetica leopardiana (1947), ingigantitasi la pro- duzione bibliografica sul poeta, si potrà dire che, più che di superamenti della prospet- tiva binniana, sembra corretto parlare di ampliamenti, di approfondimenti, di oltrepas- samenti per taluni aspetti (si pensi ai molti contributi filologici, alle nuove edizioni di testi come l’Epistolario, lo Zibaldone; agli arricchimenti documentali; alle prospettive filosofiche e antropologiche sempre più percorse in varie direzioni; ai numerosi com-

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menti testuali e alle abbondanti ricognizioni di fonti; ai tantissimi contributi critici sui singoli testi, notissimi e meno conosciuti).

Una interpretazione forte, quella del critico perugino, forte come la sua personalità di intellettuale, come la sua voce di maestro. Binni appare oggi studioso che fu ben ca- pace di mettere a fuoco la complessità e la frammentazione dei fenomeni culturali del presente e del passato nonché la rete di contraddizioni intrinseche nella quasi totalità dei percorsi culturali e creativi; che bene seppe indagare i momenti di crisi delle epo- che letterarie, sottoponendo ad analisi appassionata e rigorosa la molteplice e plurivoca varietà di testi di un periodo dato o di una data corrente, rifuggendo dagli schemi pre- confezionati, scandagliando anche opere di scarsa forza estetica, tuttavia importanti nella formazione delle idee, delle forme letterarie, del gusto. Ma alla frammentazione Binni non cedette mai: il suo lavoro finemente analitico sui testi e sugli autori appare guidato da una vocazione alla grande sintesi che si poggia sul senso della letteratura come valore, che interroga il messaggio delle opere osservate entro la inesauribile rete di rapporti intertestuali; messaggio la cui forza dialettica è direttamente proporzionale alla potenza estetica («[…] questo pensiero non avrebbe neppure la sua efficacia, la sua forza aggressiva, la sua forza costruttiva senza la sua realizzazione poetica, il suo potenziamento poetico, perché è così che avviene nella grande poesia: la potenza […] della poesia, fondendosi dalle radici […] con il pensiero, insieme si integrano e poten- ziano lo stesso pensiero, come la poesia trae succo profondo dal pensiero»)[3].

Su nessuno dei “suoi” autori (che furono relativamente numerosi, da Dante ad Ariosto a Michelangelo; da Alfieri a Foscolo a Montale, tanto per enumerare i maggio- ri) Binni esercitò la sua idea di letteratura, la sua «desolata» fiducia nella forza civile e umana della poesia quanto su Leopardi. E lo fece da par suo, ricostruendo indefessa- mente la vicenda integrale del poeta di Recanati, ritornando a rileggerlo in diverse fasi della sua storia intellettuale con aumentato consenso (e passione), affidando alle parole su La Ginestra il suo testamento di uomo e di critico; e lo fece a partire dalla prima giovinezza, fin dalle pagine di quello che può essere considerato il suo esordio nel campo degli studi letterari.

Era il 1934. Binni aveva ventidue anni e fin dalla prima adolescenza era stato let- tore appassionato del poeta:

[…] in quegli anni Leopardi fu il maestro essenziale della mia formazione. […] Proprio verso i quattordici-quindici anni la prospettiva atea e materialistica del grande poeta alimentò e sorresse la mia crescente incredulità […] C’era in me una radice di disposizione a una consonanza di fondo con le posizioni leopardiane. E tale consonanza, sviluppatasi nella mia indole malinconica e pessimista, si nutrì della crescente lettura dei Canti e delle Operette morali durante la mia ado-

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lescenza e prima delle sbiadite lezioni, in terza liceo, di un insegnante-supplente privo di intelli- genza e di sensibilità[4].

Studente alla Normale di Pisa, frequentava le lezioni di Letteratura italiana di Atti- lio Momigliano e per una tesina di terzo anno aveva scritto un saggio che, riletto oggi, a ottanta anni di distanza, acquista un significato profetico rispetto allo sviluppo del suo futuro itinerario di critico leopardiano e di critico tout court[5]. Primi anni di un de- cennio fatale: Pisa, Scuola Normale; Momigliano, Russo (maestri di letteratura italia- na), Giorgio Pasquali (insuperabile maestro di filologia). L’Italia era fascista da dieci anni e la Normale aveva per direttore il filosofo che non avrebbe mai tolto la propria adesione al fascismo, Giovanni Gentile. A lui si doveva la prima organica ripresa criti- ca novecentesca delle Operette morali (che metteva al centro il rapporto pensiero- poesia), ma anche la non condivisione della linea idillica propria della prevalente in- terpretazione crociana. Segretario della Scuola, in quei primi anni di esperienza di normalista di Binni, era il suo concittadino, di una quindicina d’anni maggiore di lui, Aldo Capitini, grande figura della nostra cultura novecentesca, quasi totalmente igno- rata da noi posteri, ancor più che dimenticata. All’amico Aldo, Walter Binni, in quella prima ardente rigorosa giovinezza, si legò di un’affezione profonda, radicata nell’intensità di un fervido incontro intellettuale e spirituale, e mai venuta meno. Si erano conosciuti epistolarmente, ritrovandosi poi a Perugia, specialmente dopo che, in seguito al rifiuto della tessera del partito fascista, Capitini aveva dovuto abbandonare l’impiego alla Normale[6].

Scuola, quella appresa lungo le vie di questa amicizia speciale, di coerenza estre- ma, di alta spiritualità, di non retorico umanitarismo.

La firma di Capitini, che suggellava il documento con cui il diciottenne perugino aveva ricevuto la notizia della sua ammissione alla Normale di Pisa, sarebbe rimasta quale preannuncio di un’amicizia capace di superare alcune diversità radicali (l’uno credente, pur di una religione libera; l’altro, il più giovane, ateo, coerente fino alla fi- ne) e di alimentare un pensiero attivo ed esigente, tutto rivolto alla storia e alla vita de- gli uomini e dell’uomo («maestro adatto al mio spasimo per la virtù e per il coraggio

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delle idee» scrisse, di Capitini, Binni)[7]. Sicuramente, a voler cercare tracce significati- ve di suggestioni culturali nella lettura leopardiana del critico perugino, vanno consi- derate anche le plurime sollecitazioni che dai colloqui con l’amico umbro gli giunge- vano, filtrate per via diretta tramite le riflessioni sulle postille da lui apposte ai propri volumi leopardiani e dal giovane Walter meditate e discusse (in particolare, il volume dei Canti a cura di Francesco Moroncini)[8]. Capitini si definiva un «kantiano- leopardiano»[9] e su Leopardi aveva riflettuto al tempo della tesi di laurea (1928)[10] e della tesi di perfezionamento (1929)[11] e dunque negli anni immediatamente a ridosso dell’incontro con Binni. E anche se la sua concezione del poeta non coincideva con quella che sarebbe diventata l’interpretazione binniana (più conciliante, meno combat- tiva rispetto a questa, e meno esplosiva), quando i due si trovavano insieme, Leopardi era tra loro («insieme noi tre»)[12], un Leopardi assai lontano da quello proposto da Cro- ce e allora dominante, un Leopardi capace di «una intensità di sentimento come forse nessun altro nella poesia italiana», per entrambi assimilabile, quanto a vigore estetico, alla musica beethoveniana[13]. Penso che si possa considerare legato al dialogo con Ca-

Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, agli Scritti vari inediti dalle carte napoletane, a due edizioni del Commento alle Rime di Petrarca, solo per citarne alcuni. Oggi la Biblioteca di Aldo Capitini è conservata presso il Fondo Capitini in Perugia.

Perugia.

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pitini, per fare un esempio, il perdurare di uno dei temi leopardiani più cari a Binni e ispiratore di alcune sue vibranti interpretazioni (il tema della meditazione sulla morte, dei morti come stati vivi) legato alla capitiniana concezione della compresenza dei de- funti e dei viventi; penso che a quel dialogo possa essere fatto risalire altresì l’interesse precoce verso il nuovo umanesimo della Ginestra.

Le storie intellettuali si costruiscono anche attraverso gli incontri, concreti, diretti o mediati (da altri, dalle letture, da imprevedibili coincidenze). Così tra Capitini e Bin- ni, insieme a Leopardi, si trovava l’ombra viva di Michelstaedter, autore caro a en- trambi. Era successo che Binni, nella sua esperienza di studente di liceo all’Istituto Mariotti di Perugia, aveva incontrato l’amico di Michelstaedter, e suo editore, Gaetano Chiavacci[14], il quale lo aveva precocemente iniziato alla poesia e filosofia dello scritto- re goriziano[15] che rappresentava un punto di irradiazione delle posizioni critiche su Leopardi di molti filosofi e letterati del secondo/terzo decennio del secolo (basterebbe tener presente le numerose frequenze del termine «persuasione» nella interpretazione leopardiana di Binni, soprattutto in relazione a La Ginestra, fino al titolo della Introdu- zione a Tutte le Opere del 1969: Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione). Da parte sua, Capitini, definito da Eugenio Garin il «Michelstaedter dei pensatori italiani», aveva titolato La persuasione religiosa un suo breve opuscolo fatto circolare dattiloscritto ancora a Pisa, nel 1932. La bella citazione «insieme noi tre», precedentemente riportata, potrebbe essere corretta, almeno per questi primi anni del sodalizio fra i due intellettuali perugini, «insieme noi quattro», inserendo a buon titolo nel gruppo di sodali anche Carlo Michelstaedter. Non c’è del resto bisogno di sottoli- neare quanto nella scrittura e nel pensiero del giovane filosofo goriziano avesse conta- to Leopardi, da lui collocato nei «luoghi inaccessibili degli assoluti morali, abitati dal persuaso e fuggiti dal retore in malafede»[16]. La lettura michelstaedteriana del poeta si inseriva entro un certo orizzonte critico che dai primi anni del Novecento, anche sotto la spinta della pubblicazione dello Zibaldone e nelle suggestioni provenienti dalla pe- netrazione di Nietzsche nella nostra cultura, aveva mostrato un acceso interesse per il

per esempio nelle pagine della Nuova poetica leopardiana, dedicate al Pensiero dominante (W. BINNI, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 45, 247n.)

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suo pensiero, evidenziandone la sostanza etica (Vladimiro Arangio Ruiz[17], Giulio Au- gusto Levi[18]) entro una prospettiva di reazione al positivismo, al dannunzianesimo, al crocianesimo.

Se ricostruire la storia dell’approccio critico di Binni a Leopardi significa da una parte aver ben presente il panorama letterario e culturale degli anni fra il Venti e il Trenta del Novecento e insieme interrogare alcuni percorsi del tutto singolari, alcune coincidenze, alcuni incontri (tra i quali, come esemplificazione certo significativa delle sue predilezioni letterarie, ostili alle forme pure e ai calligrafismi stilistici, gli Ossi montaliani, su uno sfondo movimentato e ricco di letture); non inutile potrà essere te- ner presente anche dati biografici privati: quanto può aver contribuito ad avvicinare in profondità il giovane critico al poeta, una sua particolare esperienza adolescenziale di attrito doloroso con l’autorità paterna e un suo desiderio di fuga (realizzatosi tramite la vittoria del concorso alla Normale) dal destino professionale impostogli? Quanto la scon- tentezza esistenziale, condivisa del resto con la parte più sensibile della sua generazione, la certezza dei limiti della realtà e la volontà di trasformarla, lo portavano a cogliere gli aspetti più energici e vitali della personalità leopardiana? Limiti della realtà che appari- vano tanto più inaccettabili sul piano storico-politico, in quei primi anni del Trenta, fra i banchi della Normale arricchitasi allora di giovani di grande valore, come avrebbe scritto Capitini, con i quali era stato possibile «cominciare nelle stanze della Normale un’attività periodica di conversazioni decisamente antifasciste»[19].

I tempi richiedevano forza di idee e rigore di comportamenti intellettuali e pratici; ancora, nel 1935, non si poteva prevedere la morsa del peggiore totalitarismo, con i tremendi sbocchi razziali, cui il fascismo era inevitabilmente destinato. Ma che il pae- se si trovasse in una emergenza democratica che richiedeva impegno morale e tensione ideale, questo diventava sempre più chiaro, soprattutto nel trascorrere degli anni Tren- ta, con l’accrescersi «delle avventure e dei delitti fascisti»[20]. E l’emergenza reale e mo- rale orientava le scelte e i percorsi culturali di quanti più la soffrivano e ne avvertivano l’inesorabilità, entro un panorama culturale segnato, come si è accennato, da molte vo- ci e tutt’altro che compattamente contraddistinto dalle sole tendenze idealistiche cro- ciane e gentiliane.

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È in questa atmosfera che acquista un significato quasi profetico l’intervento su Leopardi del poco più che ventenne Binni[21]; intervento che raccoglie la sua impellente «tensione» intellettuale orientata verso una letteratura portatrice di «valore» (chi fre- quenta gli scritti di Binni sa quanto questi due termini siano centrali nella sua «seman- tica critica»)[22]: «La poesia di Leopardi presenta un valore di attualità» si legge in aper- tura del saggio del 1935, Linea e momenti della poesia leopardiana, nato dall’inter- vento appena citato[23].

Le pagine del saggio del 1934 sono segnate da un andamento tumultuoso, da un argomentare incalzante scandito da un lessico forte, caratterizzato da termini anche os- sessivamente reiterati. Vi primeggia l’aggettivo «nuovo», a segnare una demarcazione netta fra il Leopardi fino ai Canti pisano-recanatesi e il successivo. Si stabiliscono così due campi della produzione e della personalità del poeta, uno vecchio e uno nuovo; e il nuovo è più grande, spiritualmente e poeticamente, del vecchio; è, per chiosare Binni, più consono «allo spasimo del giovane per la virtù e al coraggio delle idee». Il Leopar- di nuovo viene proposto con piglio polemico e combattivo nei confronti delle letture precedenti (mai citati nel testo altri critici leopardiani i quali dovevano essere presenti nella bibliografia, che però, purtroppo, manca). Stupisce il tono sicuro (non trovi un

“forse”, un “a mio parere”, un “mi sembra”, un “potrebbe intendersi”); domina il tono asseverativo, senza incertezze: che l’autore di questo saggio sia un giovane di ventuno anni potrebbe risultare sorprendente se non si tenessero in conto i contesti storico- culturali prima accennati.

«Nuovo», dunque, il lemma protagonista di queste pagine (destinato a restare sta- bile nel progetto critico di Binni, se il libro dirompente del 1947 lo porterà nella cele- bre titolazione: La nuova poetica leopardiana); accanto ad esso si moltiplicano nume- rosi aggettivi, avverbi, sostantivi esprimenti vigore, potenza, energia, intensità: robu- sto, ribelle, fiero, impetuoso, non armonico, vibrante, lapidario, eroico, perentorio, te- nace, ecc. È questa la gamma lessicale che accompagna la proposta del Leopardi pre- sentato dallo studente perugino nella sua tesina universitaria; è il Leopardi di alcuni degli ultimi Canti, che, nei suoi esiti migliori, esprime con forza ed energia spirituale altissima il senso del presente, avendo abbandonato i toni della nostalgia e del vagheg- giamento distintivi della lirica idillica, da Binni evidentemente non amata: «Perciò questa poesia si può chiamare poesia del presente, poesia eroica e religiosa insieme, e

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perciò si può caratterizzare negativamente come diversa e tendenzialmente opposta a quella precedente dei grandi idilli»[24].

Molte delle affermazioni che leggiamo in queste pagine non sono in nessun modo condivisibili oggi (e non lo sarebbero state del resto neanche dal loro stesso estensore alcuni anni dopo): si potrebbe definire, solo per portare qualche esempio, oggi lo Zi- baldone «lo sforzo speculativo più disordinato ed extrartistico di Leopardi»[25]? si po- trebbero definire «blande» le domande metafisiche del Canto notturno[26]? Si potrebbe dire che i più tenaci bisogni filosofici spirituali che avevano seguito il poeta durante le Operette, sembrano assopiti al tempo dei Canti pisano-recanatesi[27]? Tuttavia di questo saggio colpisce la forza della costruzione critica, la potente affermazione dell’originale lettura, l’impianto sostenuto da una idea interpretativa vigorosa, unitaria, che si sareb- be fissata nel laboratorio critico binniano futuro; una scoperta insomma che avrebbe inevitabilmente avuto bisogno di riletture e revisioni anche radicali, ma che, per molti aspetti, si poneva come un punto di partenza decisivo. Guadagnava alla grande poesia la zona meno accettata dalla produzione lirica leopardiana, opponendosi alla dittatura crociana che sosteneva una interpretazione accademica, contrassegnata da una visione unilaterale, lirica, idillica.

Alcune pagine del saggio sono di particolare intensità; vanno sottolineate, tra tutte, quelle dedicate alla ricostruzione biografica del periodo fiorentino (che sarebbero poi rifluite nelle corrispondenti del saggio del ’47) e alla lirica leopardiana d’amore, nella cui interpretazione si può pensare si riversasse, a meglio illuminarla, la tensione della profonda esperienza sentimentale vissuta proprio in quel tempo dal giovane studente[28]; a riprova che, se i dati biografici avulsi dalla necessità dell’interpretazione possono addirittura suscitare «grande ribrezzo»[29] (come egli stesso scriveva in evidente pole- mica antipositivistica che può giustificare l’uso di tale termine decisamente troppo for- te) va tenuto in conto tutto ciò che nella vita non solo di un poeta ma, aggiungiamo, anche di chi fa il mestiere di critico, può servire a rendere più chiara la interpretazione.

Questo primo saggio può risultare dunque schematico nel presentare una vicenda in- tellettuale e creativa, ricca e complessa come quella leopardiana, stretta e dunque sacrifi-

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cata, nella rigida opposizione fra fase idillica e fase eroica («nell’idillio restava strozzato, non risolto quell’anelito continuo ad una espressione unitaria, all’unificazione delle due unità: poesia e pensiero»). Ma il discorso complessivo, oltre ad alcune illuminanti intui- zioni critiche[30], manifesta una indiscussa forza interpretativa, avvalorata da una idea del- la poesia già teoricamente matura, francamente stupefacente se commisurata all’età. Vi si esprime con lucida fermezza la precisa convinzione di aver colto un nodo essenziale e necessario della poesia e della personalità leopardiana, fino a quel momento rimasto in ombra: l’approdo alla «altissima moralità» attraverso la nuova lettura degli ultimi canti e in particolare de La Ginestra; la valorizzazione della nuova forma poetica caratterizzata dall’«impeto», dal «disprezzo della proporzione e dell’armonizzazione», da «una lar- ghezza che mira più all’insieme che al particolare».

Sarebbero stati necessari più di dieci anni perché quelle idee prendessero una for- ma più distesa, più organica, più elaborata.

1947: Nuova poetica leopardiana.

Lo studente è diventato professore, mentre l’Europa ha attraversato gli orrori della guerra e ha sconfitto i fascismi. È indubitabile che le geniali intuizioni critiche del primo saggio hanno ricevuto forza dagli sconvolgenti eventi della storia e che Leopar- di ha continuato a rivelare al giovane studioso potenzialità poetiche e morali tanto più dopo una esperienza di radicale dolore e di radicale ingiustizia, rispetto alla quale non è difficile pensare quale bruciante attualità potessero acquistare le analisi lucide e di- sincantate del poeta, la sua critica implacabile rispetto agli ottimismi politici e sociali, alle ideologie, alle fedi, la sua visione assolutamente disperata del destino individuale e collettivo, la sua ribellione al sistema del mondo; infine, i toni e gli esiti persuasi ed energici dell’ultima stagione poetica, così straordinariamente segnata da una poesia- messaggio come La Ginestra.

Certe caratteristiche strutturali del libro del ’47 e la sua forza dirompente all’inter- no del panorama critico leopardiano e del più ampio panorama della cultura letteraria italiana, così come le tutt’altro che sorprendenti sintonie – a partire dalla sintonia cro- nologica – con altre letture in qualche modo solidali (mi riferisco qui in primo luogo al saggio di Cesare Luporini)[31] non possono non essere connesse al clima storico entro il

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quale esso prese forma, così segnato dalla esperienza della tragedia e dall’esperienza altrettanto potente della speranza di una rinascita civile.

Il libro del ’47, oltre a presentare un contributo critico di finissima lettura in tante pagine, oltre a stabilire una volta per tutte con evidente forza interpretativa la grandez- za dell’ultima stagione poetica leopardiana, ancora a quella data considerata perlopiù stagione poco felice e poco poetica, e a sollevare dall’indifferenza opere quali i Para- lipomeni, oltre a dimostrare l’inscindibilità del pensiero dalla poesia, si imponeva co- me esempio magistrale di rapporto fra un classico e un critico. Questa è la dimensione che mi preme qui sottolineare, più che riprendere in esame il libro, più che discuterne le singole posizioni, divenute del resto in buona parte acquisizioni critiche consolidate (rimando per una analisi critica dettagliata al saggio esemplare di Luigi Blasucci, I cinquant’anni della «Nuova poetica leopardiana» di Walter Binni)[32].

Timpanaro aveva parlato della Nuova poetica come «libro di rottura e libro di ini- zio»: certo, dopo di esso non sarebbe più stato possibile parlare di Leopardi senza fare i conti con quella interpretazione. A riprendere la definizione che di classico propone George Steiner, nella sua appassionante autobiografia intellettuale Errata (il classico quale «l’oggetto intorno al quale lo spazio è perennemente fertile», cui corrisponde l’azione interpretativa valida quando è capace di rivelare «l’inesauribilità dell’og- getto»), il caso Binni/Leopardi, soprattutto tenendo presente la Nuova poetica, appare di formidabile esemplarità[33].

Le successive tappe di quel rapporto non fanno che convalidare da una parte la fertilità inesauribile del poeta quale massimo classico della nostra modernità, dall’altra l’operosità del critico volta a rivelarla, arricchendo progressivamente gli spazi delle proprie esplorazioni, (e approfondendo tramite l’analisi delle opere leopardiane il pro- prio metodo critico basato sul concetto di “poetica”), fino a pervenire alla interpreta- zione complessiva che nel titolo manifestava la fedeltà alla prima definizione critica: La protesta di Leopardi. Il volume giungeva dopo circa venticinque anni dalla Nuova poetica[34], a ridosso di un altro momento cruciale della nostra storia (contrassegnato da proteste e rivendicazioni civili e politiche anche violente rispetto alle quali Binni non si era sottratto dall’assumere posizioni decise e responsabili) e in una stagione partico- larmente fervida di riprese e dibattiti intorno al poeta di Recanati, emblematica delle polemiche attraversate dalla sinistra italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta.

«Il poeta della mia vita»

Negli anni intercorsi fra la Nuova poetica e la Protesta, Leopardi aveva costante- mente accompagnato il percorso del critico, aveva costituito un sostegno per le sue battaglie civili, aveva rappresentato il tramite più fecondo nel rapporto del professore con i giovani, aveva sorretto e rafforzato il delinearsi del suo metodo teorico, lo stori- cismo critico. Binni, grande studioso del Settecento, aveva messo al servizio del suo poeta l’immensa competenza letteraria per investigare la fittissima rete delle fonti set- tecentesche del poeta (si tratta di uno dei suoi più importanti contributi)[35]; aveva va- riamente ripreso e approfondito l’interpretazione delle sue liriche; aveva riletto, in un momento di ripresa dello storicismo desanctisiano in chiave antidealistica, De Sanctis critico di Leopardi con una partecipazione non immune da proiezioni autobiografi- che[36]; aveva ideato e realizzato con l’allievo fiorentino Enrico Ghidetti l’edizione san- soniana di Tutte le Opere, mentre negli anni delle sue prime lezioni romane aveva ri- preso integralmente la lettura del poeta, entro una magistrale ricostruzione complessi- va, biografica, culturale, letteraria, filosofica, offrendo analisi testuali spesso potenti e innovative, confrontandosi con il Leopardi meno analizzato e superando, proprio sul campo del lavoro testuale minuzioso e analitico, l’elemento più debole della sua pre- cedente interpretazione riguardante la dicotomia fra Leopardi idillico e Leopardi eroi- co (pur senza rinunciare alla predilezione per le forme e le posizioni più energiche e antagonistiche).

Le Lezioni leopardiane, pubblicate nel 1994 e da molti giudicate non a torto il più bel libro di Binni su Leopardi (anche per un raggiunto equilibrio interpretativo) testi- moniano le fasi di quel fertilissimo laboratorio che per chi ebbe la fortuna di parteci- parvi costituì una indimenticabile esperienza formativa.

Perché nel considerare la personalità intera di questo studioso non si deve scindere il suo lavoro di critico dal suo impegno di docente, dato che tali prerogative si trovano in lui intimamente legate e capaci di alimentarsi reciprocamente; maestro esigente e generoso, Binni non si sottrasse alla responsabilità del suo ruolo. E ancora una volta fu Leopardi a permettere al critico di manifestare la massima ricchezza delle sue poten- zialità didattiche (oltre alle lezioni, memorabili sono rimasti, per ampiezza di campi di ricerca e per fecondità formativa, i seminari leopardiani durati per svariati anni), il ri- gore del suo stile di professore mai incline a semplificare le difficoltà della poesia ma invece pronto ad aiutare a comprenderla mettendo alla prova e non mortificando e svi- lendo le potenzialità dei discenti.

La fortuna ha voluto che egli prendesse congedo ufficiale da Leopardi indossando la veste di maestro, dalla cattedra di quell’Aula I della Facoltà di Lettere della Sapien- za di Roma, dalla quale aveva per tanti anni insegnato a comprendere e ad amare il suo

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poeta. Era il 1993. In occasione del suo ottantesimo compleanno fu invitato dagli al- lievi, divenuti docenti a loro volta, a tenere l’ultima sua lezione; e fu una lezione su La Ginestra. Ma è forse sbagliato tirare in ballo la fortuna; più corretto è riflettere sulla coerenza di un percorso: a volte capita che dagli dei venga concesso agli umani un filo coerente tra la storia della vita e la sua conclusione.

La lezione su La ginestra non costituisce soltanto il documento di quel congedo; essa rappresenta anche una eloquente testimonianza di un ultimo tempo della riflessio- ne del critico sul suo poeta. Non che siano avvenuti dei sensibili mutamenti interpreta- tivi; anzi, la fedeltà alle intuizioni centrali della sua propria lettura viene ora riafferma- ta, ma entro un discorso contrassegnato dalla conquista di una pacatezza matura, meno aggressivo, meno impetuoso, meno polemico. Un equilibrio che non si limita solo a segnali stilistici (sintassi più piana, rinuncia al lessico teso che aveva contraddistinto le opere della giovinezza e della prima maturità: il termine «virile» non compare mai e il termine «eroico» viene sottratto a ogni dimensione enfatica) ma abbraccia l’intera in- terpretazione della lirica insistendo sulla sua natura di poesia di pensiero, grande in quanto portatrice di valore («La Ginestra è una grande lezione di dignità nel soffrire») e concludendo con l’invito a non confondere l’eventuale non condivisione della pro- spettiva esistenziale leopardiana con il riconoscimento della grandezza della sua poe- sia.

Sono passati vent’anni da quella lettura che coinvolse e commosse i giovani lì pre- senti ad ascoltare in un silenzio quasi solenne le parole del maestro. Il panorama della critica leopardiana si è immensamente allargato; è stato percorso da fermenti nuovi, più o meno fecondi, più o meno solidali alla linea critica di Binni, e spesso anche opposti ad essa. Ma la interpretazione di Leopardi non può non continuare a misurarsi necessaria- mente con il lascito binniano. E coloro che sono giovani oggi e che scelgono di dedicare i loro studi alla letteratura e alla poesia, in esse investendo un tanto incerto futuro lavora- tivo, testimoniano quanto gli scritti appassionati su Giacomo Leopardi del critico perugi- no, Maestro compresente, continuino a esercitare una spinta viva e attiva nel loro percor- so di conoscenza del grande poeta e di avvicinamento alla grande poesia.

[1] L’incontro tra Binni e Leopardi appare unico nel panorama della critica italiana e forse non solo italiana. Passando in rassegna i maggiori critici del Novecento, più o meno della sua stessa generazione (Dionisotti, Sapegno, Branca, Muscetta, Debenedetti) non si trova un simile caso di “fedeltà” interpretativa.

[2] Rimando almeno ai quattro saggi sull’argomento che si leggono nel numero de «Il Ponte» del luglio-agosto 2011, dedicato a Walter Binni. 1913-1997 (pp. 29-58).

[3] W. BINNI, Lezioni leopardiane, a cura di N. Bellucci e M. Dondero, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 566. La citazione riguarda il caso Leopardi, ma vale più generalmente per tutta la concezione estetica di Binni.

[4] Ivi, p. X.

[5] Un anno più tardi questo primo intervento leopardiano sarebbe stato rivisto e riscritto (e modificato nella forma più che nella sostanza) per essere pubblicato con il titolo Linea e momen- ti della poesia leopardiana, Macerata, Stabilimento tipografico A. Affede, 1936.

[6] La prima lettera di Capitini al giovanissimo Walter, su carta intestata «R. Scuola Normale Superiore. Palazzo dei Cavalieri. Pisa», si legge, in A. CAPITINI-W. BINNI, Lettere 1931-1968, a cura di L. Binni e L. Giuliani, introduzione di M. Martini, Roma, Carocci, 2007, pp. 21-22, ri- pubblicata ora, insieme a un interessante appunto autobiografico di Binni, in L. BINNI, La prote- sta di Walter Binni. Una biografia, Firenze, Il Ponte, 2013, pp. 149-50.

[7] Sull’importanza che l’incontro con Aldo Capitini ebbe nel proprio sviluppo intellettuale e umano, Binni ha scritto pagine illuminanti in Ricordo di Aldo Capitini, in «Azione nonviolenta», ottobre-novembre 1970; ora in W. BINNI, La disperata tensione. Scritti politici (1934-1997), «Il Ponte», num. 3, gennaio 2011, pp. 263-64. Ma si veda anche la biografia di Lanfranco Binni ora citata.

[8] Nella Biblioteca di Aldo Capitini si trovavano parecchi volumi di opere leopardiane e di saggi critici sull’opera del poeta, dalla edizione critica dei Canti e delle Operette morali, a cura di Francesco Moroncini, all’Epistolario a cura di Prospero Viani, all’edizione lemonnieriana dei

[9] Binni lo definiva a sua volta: «Leopardista leopardiano».

[10] A. CAPITINI, Realismo e serenità in alcuni poeti italiani (Iacopone, Dante, Poliziano, Fo- scolo, Leopardi), Tesi di Laurea discussa il 10 novembre 1928 presso la Facoltà di Lettere e Fi- losofia dell’Università di Pisa; il dattiloscritto inedito è conservato presso l’Archivio di Stato di

[11] Aldo CAPITINI, La formazione dei “Canti” del Leopardi, Tesi di perfezionamento, di- scussa a Pisa il 17 giugno 1929 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa. Il manoscritto della tesi, mai pubblicato, è conservato presso l’Archivio di Stato di Perugia. Ho po- tuto consultarne delle parti trascritte da Alessandra Tucciarone che sta lavorando a una tesi ma- gistrale, da me diretta, avente per argomento il rapporto Binni-Capitini nella prospettiva dei loro interessi leopardiani.

[12] È così che Capitini, riferendosi agli anni delle conversazioni intense e quotidiane con l’amico Walter, definisce il sodalizio con il poeta, in una lettera a Binni del 1967 (CAPITINI- BINNI, Lettere 1931-1968, cit., p. 170: «Tra me e me discorro spesso con te, e anche del o col Leopardi, insieme noi tre»).

[13] La frase di Capitini citata nel testo si conclude così: «solo Beethoven forse lo supera» (ibidem); Binni spesso ricorre a Beethoven per sostenere la propria interpretazione leopardiana,

[14] Gaetano Chiavacci era Preside presso il Liceo Mariotti di Perugia negli anni in cui Binni era studente (per notizie su Gaetano Chiavacci, si veda la voce corrispondente nel Dizionario Biografico degli Italiani).

[15] Un altro intermediario fra Binni e Michelstaedter è stato Guido Mazzoni, il professore per il quale il giovane goriziano aveva compilato la tesina sull’orazione Pro Ligario e che si trovò a far parte della commissione esaminatrice della maturità di Binni, esortandolo a provare l’esame per la Normale.

[16] Rimando, per il rapporto tra Michelstaedter/Leopardi alle brevi note presenti in un mio saggio da cui ho preso la citazione: Riverberi novecenteschi del riso leopardiano, ora in N. BELLUCCI, Itinerari leopardiani, Roma, Bulzoni, 2012 (p. 99).

[17] V. ARANGIO RUIZ, Conoscenza e moralità, Città di Castello, Il Solco, 1922, pp. 29 e sgg.

[18] G. A. LEVI, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi, Torino, Bocca, 1911.

[19] Scrive Lanfranco Binni: «Nell’ambiente dei giovani amici di Capitini si studia molto, si discute continuamente, si assume come valore la responsabilità individuale su un piano di realtà che non può riservare altro che amara ironia alla retorica del regime trionfante, sostenuto da un grande consenso borghese e popolare» (La protesta di Walter Binni. Una biografia, cit., p. 40).

[20] Parole di Aldo Capitini che si leggono in E. GARIN, Alle origini della nozione di poetica in Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di M. Costanzo, E. Ghidet- ti, G. Savarese, C. Varese, Roma, Bonacci, 1985, p. 10. Nel saggio in questione, Garin ha indica- to la pluralità dei fermenti che contraddistinsero quegli anni Trenta e che costituirono il nutri- mento della generazione che allora si formò.

[21] L’intervento nacque, come si è già notato, da una tesina di terzo anno, presentata nel cor- so di Attilio Momigliano nel 1934 con il titolo L’ultimo periodo della lirica leopardiana, pub- blicata ora nelle Edizioni del fondo Walter Binni: W. BINNi, L’ultimo periodo della lirica leo- pardiana, a cura di C. Biagioli, Perugia, Morlacchi Editore, 2009.

[22] Mi riferisco al saggio di C. VARESE, Poetica e tensione nella semantica critica di Binni, in Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, cit., pp. 20-42.

[23] BINNI, Linea e momenti della poesia leopardiana, cit., p. 79.

[24] Ivi, p. 126. La presenza del termine «religiosa» così come la definizione di «momento evangelico» (ivi, p. 82) a indicare la genesi della Ginestra possono farsi risalire alla influenza dei colloqui con Capitini.

[25] Ivi, p. 38.

[26] Ivi, p. 39.

[27] Ibid.

[28] Alla Normale, alle lezioni di Momigliano, nel 1933, Binni aveva conosciuto Elena Benve- nuti, che sarebbe divenuta la sua compagna, in una relazione attiva, intensa, durata per tutta la vita.

[29] Ivi, p. 41 («Veramente si prova un grande ribrezzo a parlare di esterno, di avvenimento biografico in vicende di così alta spiritualità, ma d’altronde, in realtà, non v’è nulla di esterno, di dato, di natura in ciò che riguarda lo spirito ed è accettabile in uno studio di critica estetica tutto ciò che della vita di un poeta può servire a rendere più chiara la interpretazione della sua arte»).

[30] Si rilegga, ad esempio, la notazione in margine al rapidissimo discorso sulle Operette morali: «Ma non per il fatto che sono in prosa, le Operette possono essere escluse dal processo di formazione della poesia leopardiana, ché anzi questa vi guadagna una concretezza ed una cri- stallinità che non erano nelle canzoni precedenti […] insomma le Operette non sono una paren- tesi ma un nodo vitalissimo», ivi, p. 38.

[31] Lo stesso titolo del saggio di Luporini, Leopardi progressivo, trova spiegazione in quel clima storico-culturale. Titolo che non solo ha sviato a lungo, e non sempre in buona fede, la so- stanza del medesimo saggio ma è divenuto una sorta di slogan ad ampio raggio per indicare sommariamente una intera stagione critica.

[32] Il saggio riproduce l’intervento che Luigi Blasucci tenne presso «La Sapienza» il 27 no- vembre 1998, in occasione del primo anniversario della morte del critico perugino. Ora si legge in L. BLASUCCI, Lo stormire del vento tra le piante, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 255-69.

[33] G. STEINER, Errata, Milano, Garzanti, 1997, p. 29.

[34] La protesta di Leopardi (Firenze, Sansoni, 1973) costituiva la pubblicazione autonoma della introduzione all’edizione sansoniana di Tutte le opere (a cura di W. Binni ed E. Ghidetti), 1969, dal titolo, prima citato, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione.

[35] Leopardi e la poesia del secondo Settecento, in W. BINNI, La protesta di Leopardi, Firen- ze, Sansoni, 1973, pp. 170-236.

[36] F. DE SANCTIS, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, Bari, Laterza, 1961.