Novella Bellucci, La Perugia di Binni e Capitini, città di «legami vitali» , in AaVv, Lo spazio tra prosa e ricerca nella letteratura italiana. Studi in onore di Matilde Dillon Wanke , a cura di Luca Bani e Marco Sirtori, Bergamo, Lubrina editore, 2015;


Ho tra le mani due piccoli libri, eleganti, fuori commercio. Sono firmati da due uomini che furono grandi amici nel senso più nobile e fecondo del termine, Walter Binni e Aldo Capitini; entrambi hanno come argomento una città, Perugia, dove i due nacquero a quindici anni di distanza: nel 1913 il primo, nel 1898 l’altro. Perugia nella mia vita. Quasi un racconto è il titolo delle pagine firmate da Binni; semplicemente Perugia si intitola l’opuscolo scritto da Capitini e prefato, a riprova di un legame profondissimo, dallo stesso Binni[1]. Li ho avuti in dono nell’occasione di un pomeriggio dedicato (nel gennaio del 2014) al sodalizio intellettuale fra i due, che si è tenuto all’Università degli Stranieri di Perugia, nell’Aula intitolata ad Aldo Capitini, dentro il bellissimo Palazzo Gallenga sede di quella Università. Non avevo mai avuto occasione di visitare l’interno del Palazzo, nonostante la mia origine: anche io nata a Perugia, ma già nella infanzia allontanata dalla città per traversie familiari. Ogni ritorno, nell’età adulta, me ne ha separato, piuttosto che avvicinarmi all’anima del luogo.

Quel pomeriggio mi trovo a percorrere le sale (oggi Aule) del Palazzo come una visitatrice straniera, a guardare con sorpresa meraviglia gli affreschi e i decori e corro verso l’aula dove ha insegnato nel tempo della sua giovinezza il mio maestro degli studi universitari romani: Walter Binni. Dalla finestra mi si offre l’immagine severissima di una parte della città, resa ancora più austera dal grigiore del cielo e dalla pioggia persistente. Ho già in mano i due libretti che stringo con affezione. Decido di interrogarmi su Perugia a partire dalle pagine che i miei grandi concittadini le hanno dedicato e decido anche di cambiare l’argomento del contributo da dedicare all’amica Matilde (originariamente desanctisiano) nel volume offertole dai suoi allievi e dai suoi amici in occasione del pensionamento.

Matilde, amica recente ma vera, mi offre dunque l’occasione per un attraversamento che sento essermi necessario. Ma è senza coinvolgimenti autobiografici e senza sentimentalismi privati, e piuttosto da una prospettiva esclusivamente letteraria, che mi propongo di analizzare le molte pagine scritte dai due perugini del secolo scorso sulla loro città.

Di Binni c’è un libro che raccoglie gli scritti su Perugia, pubblicato nel 2007, a cura della moglie e dei figli, intitolato La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri[2], il quale comprende anche lo scritto già citato, Perugia quasi un racconto, concluso pochi giorni prima della morte: esso, mentre racchiude la lunga storia letteraria alla quale l’autore ha voluto consegnare la propria riflessione, costante negli anni e ricca di motivi affettivi, biografici, intellettuali, sulla città che gli ha dato i natali, costituisce anche un contributo significativo in merito alla importanza dei luoghi nella formazione dei caratteri, delle inclinazioni, dei gusti degli uomini e, nel caso particolare, degli scrittori: i luoghi che suggeriscono, o quanto meno sostengono, percorsi psichici ed emotivi determinanti nello sviluppo delle personalità e delle identità perché, nella loro apparente stasi, sono entità vive, che operano attivamente sulla formazione delle architetture interiori, sugli spazi costitutivi della psiche, li plasmano, li orientano; specialmente se si tratta dei luoghi d’origine, essenziali alla stessa stregua delle figure primarie, della lingua madre. E sia per le morfologie e per le architetture sia perché sono contenitori di uomini, di culture più o meno stratificate, perché parlano del presente e del passato; perché le strade, le case, le piazze, le statue, i parchi, gli alberi si impongono silenziosamente, ma indelebilmente, nella mente e nella memoria a costruire lo scenario interiore entro il quale depositiamo i pensieri e i ricordi e li facciamo vivere.

«Sono nato il 4 maggio 1913, a Perugia, la città dei miei ricordi e dei miei affetti più profondi», scrive Binni ad apertura di un suo brevissimo Autoritratto, vergato a neanche cinquant’anni, nel 1960. Con una scrittura tesa e coinvolta, in una forma breve, lo scrittore prosegue assegnando alla sua città natale una funzione fondamentale di «luogo ideale» nella propria «vicenda di uomo e di scrittore»:

Perugia rimane per sempre il luogo ideale della mia vicenda di uomo e di scrittore e ad essa si legano- o così mi piace pensare- le stesse mie vocazioni più vere, come quella all’intenso, che è la prima parola tematica della mia esperienza vitale e della mia personale poetica[3].

Le più essenziali affinità vengono ritrovate nella dimensione interiore della “intensità”, vera e propria categoria morale ed estetica del critico perugino[4], l’inclinazione verso la quale, espressa con passione e determinazione, è fatta risalire all’influsso esercitato dalle «prime sollecitazioni della mia città»; che, con le proprie caratteristiche strutturali e monumentali ispirate alla severità, lontane da ogni leziosità e da ogni pacificato equilibrio, ha svolto una funzione di supporto necessario alla aspirazione del fanciullo, e poi del giovinetto, che vi era nato nel secondo decennio del secolo ventesimo.

La città ritorna come elemento «fondamentale nella mia vicenda e nella mia esperienza», come «mia città reale e ideale» nelle pagine dedicate a Perugia e alla sua peculiarità climatica: Perugia: la tramontana a Porta Sole, scritte quattro anni più tardi, nel 1964[5]. La tensione autobiografica, che alimentò una parte non secondaria della scrittura di Binni, sembra volersi concentrare integralmente nel rapporto con la sua città come se essa fosse nutrice e guida interiore, compagna e ispiratrice, escludendo o comunque riducendo altri elementi biografici pure essenziali, a partire in primo luogo dalle figure genitoriali. Le severe forme perugine vengono esaltate e isolate nella descrizione della corrispondenza fra aspetto morfologico, naturale, e costruzioni umane risalenti ad antiche civiltà, dalla etrusca alla medievale («solidamente impiantata sulle forze di una grande civiltà medievale in cui più misteriosamente si era risolta l’arcana forza religiosa e pratica degli etruschi»[6]) e perfino nella corrispondenza climatica: elementi che si coniugano a definire la consapevolezza di una straordinaria affinità e che esprimono tutti tensione all’assoluto, rigore, energia («Il piacere dei sentimenti assoluti, degli impegni senza riserva, della parola nuda, essenziale, antiornamentale»[7]). La città nella sua integrità diventa allora specchio proiettivo di un’aspirazione esistenziale alla intransigenza; rappresenta e sostiene il sempre più «grande bisogno di chiarezza e di assoluta responsabilità»[8], dal quale, in una lettera del 1948 all’amico Aldo Capitini, il trentacinquenne Walter dichiarava essere abitato.

Nessun elemento squisitamente descrittivo o oleografico («Perugia è assai lontana dalla grazia un po’ dolciastra del Perugino»[9]) in queste pagine tese e coinvolte: i luoghi più significativi della città umbra vengono evocati a sostenerne il carattere altero e forte, ispiratore di una sorta di pedagogia del rigore e della inflessibilità ( la «gobba massiccia di Monte Tezio», il «profilo tagliente di Monte Acuto», le «linee aspre dei monti di Gubbio»). Ma colpisce ancor più che la città, amata nella sua possente fisicità, aliena da ogni inautentico decorativismo, incida sulla qualità della scrittura di Binni tanto da divenire una sorta di musa ispiratrice per una prosa poetica che giunge a momenti di alta tensione letteraria. Mi riferisco alle poche pagine ancora dedicate alla tramontana che comparvero nel novembre del 1942 sulla rivista «Primato»[10], firmate con lo pseudonimo di Dionisio, quasi a celare dietro di esso quell’urgenza autobiografica e poetica che chiedeva di rimanere avvolta nell’anonimato, per pudore forse:

[…} l’orecchio qui è colpito dalla voce pazza e terribile della tramontana che impera per un lungo inverno e non tralascia di fare rapide apparizioni anche nei brevi termini di un’estrosa primavera e di un autunno virile e pensoso […] La tramontana nasce da Porta Sole, il luogo di più intensa offerta del paesaggio, il compenso più prelibato per chi, ristucco dei facili entusiasmi carducciani, disdegnoso torce il muso di fronte alle decine e decine di chilometri di panorama che si aprono a commento perpetuo del Canto dell’amore […] Nella voce di questo vento si è sfatto il profumo segreto di una misteriosa vita di godimenti e di culti esoterici e supplisce quel cielo intenso, pieno di fulmini di saviniana memoria che resta a simbolo di una collaborazione naturale con la mistica pietà etrusca nelle vecchie cittadine della maremma.

Le eccitazioni suscitate dalla tramontana[11] si fondono con le orme impresse dalle letture e dagli scrittori; Savinio contro Carducci, in questo caso: letteratura e vita in una “intensa” aggregazione di cui la città si fa elemento essenziale. La tensione a una scrittura poetica culmina nelle battute finali:

Ormai la breve estate si è allontanata ed ha avaramente portato con sé i colori vistosi delle vesti femminili, dei grembiulini non indigeni di cui aveva fiorito con furia improvvisa di un pagamento di arretrati il Corso e i suoi caffè straripanti dai marciapiedi. Ormai il cronista di questa vita più poetica che letteraria, sente che è meglio abbandonare il suo osservatorio per non dover riacciuffare ogni momento il foglio su cui scrive alla prepotenza della tramontana e per ritornarsene verso climi più facili, a conversazioni, a segni di una umanità letteraria più accogliente.

Riacciuffare il foglio e salvarlo dal rischio di essere strappato dalla violenza di quel vento che quanti hanno avuto un po’ di confidenza con Perugia conoscono bene (e che non tutti amano) e spostarsi verso climi più facili: con questo gesto si chiudono le brevi, intense pagine di una autobiografia nascosta sotto lo pseudonimo e la forma impersonale.

Ma Perugia è per il giovane Binni anche lo scenario attivo dove prendono forma le passioni intellettuali e letterarie; Perugia le potenzia e le definisce. Così, nella scrittura del ricordo, il Binni maturo (siamo nel 1981) rende protagonista la città perfino della sua scelta leopardiana, di quella fedeltà mai tradita per «il poeta più amato», il poeta della vita, il «maestro supremo della […] prospettiva umana, morale, intellettuale, civile»:

e allora collocavo sui luoghi della mia città e sui suoi paesaggi (prioritario assolutamente proprio quello che s’intravvede dalle finestre del palazzo dell’Università per Stranieri e si apre intero dal balcone sublime di Porta Sole, il paesaggio più aspro e selvaggio, montuoso, pur solcato da pieghe più dolci ed «idilliche» come monte Pecoraro o il colle di San Marino, ma dominato dalla linea energica e fratta dei monti di Gubbio sino al loro varco al cielo azzurro così intenso da assumere colori notturni) le poesie di quel grandissimo poeta, fra le quali, presto – in contrasto con la lunga mistificazione della sua poesia come poesia idillica e catartica- presero spicco per me i suoi ultimi canti, i canti della passione vissuta ed esaltante dell’eroica persuasione, fino alla cima inaudita della Ginestra.[12]

Le poesie dell’amatissimo Leopardi trovano il loro spazio significativo entro i paesaggi perugini, in una originale quanto appassionata simbiosi emotiva, a riprova di quella scienza dei «legami vitali» di hillmaniana memoria, declinata nella riflessione relativa all’anima dei luoghi, dei quali le scritture perugine di Binni sembrano una vibrante esemplificazione. Il rapporto che il critico stabilisce con la città è infatti fondato su una empatia con il senso profondo che egli ne coglie, con quella che potremmo chiamare l’essenza, prima che con la rappresentazione monumentale. Se è vero che i luoghi hanno un’anima e che il nostro compito è scoprirla (penso ancora a Hillman[13]) le pagine binniane sulla città natale interrogano la dimensione dell’anima.

È proprio dal contatto con l’anima della citta’ (o se si vuole con quella sorta di topografia interiore intessuta di pensieri e sentimenti, di figure ed evocazioni, di fantasie e memorie) che si diramano gli interessi sempre vivi in Binni per la storia e per l’architettura di Perugia e per la sua gente, nel senso che anche l’amore per questa storia, per questa architettura, per questa gente viene declinato lungo le direzioni dettate dal contatto stabilito con l’essenza della città, della quale il critico tende a cogliere, lungo le ragioni di un’affinita’ continuamente riaffermata, «il carattere profondamente protestatario»: dalla Guerra del Sale (in cui la citta’ difese la sua indipendenza contro Paolo III); alla rivolta del 20 giugno del 1859; alla «lunga attività antifascista già prima della guerra e della Resistenza»[14]. La scrittura dedicata al momento più eroico del Risorgimento perugino, il 20 giugno del 1859, si snoda in pagine, assai belle, ricche di una tensione morale e affettiva, specie nella descrizione delle emozioni prodotte nel fanciullo dalle cerimonie commemorative:

E mi sembrava bello essere perugino soprattutto per merito di quella data gloriosa, di quell’avvenimento che tuttora mi appare pieno di civilissimo significato: quello di una città, che abbandonata a se stessa, tiene fede all’impegno preso insorgendo e si espone in nome dei propri ideali civili alle conseguenze di una battaglia inevitabilmente perduta e che poi, sotto l’occupazione, si comporta con tanta dignità e fierezza[15]

L’ammirazione infantile per le «immagini di eroismo tanto più affascinante perché sfortunato», per la protesta collettiva, accompagnata dallo sdegno per «l’abuso del potere politico da parte di una istituzione religiosa che aveva mostrato in quel caso di usare la violenza», vengono rievocate dallo scrittore adulto quali presagi della propria posizione attuale, fortemente segnata dall’impegno civile e dalla passione politica antifascista, socialista, anticlericale. [16]

Nel bel saggio di storia patriottica (nato come discorso commemorativo, tenuto a Perugia il 20 giugno 1954), la fierezza e l’orgoglio civile di appartenenza alla città, protagonista di una giornata segnata da un eroismo estremo, si coniugano con la volontà di una ricostruzione storica sostenuta insieme dalla passione politica e dalla documentazione precisa e circostanziata, volta a descrivere e a giudicare prendendo interamente le parti di quelle «forze vive, reali del Risorgimento», portatrici degli «ideali nuovi e concreti, anche se diversamente profondi e capaci di sviluppo, che davano vigore alle forze progressive» contro le rappresentanze «fittizie antistoriche del dominio temporale dei Papi» e contro «l’assurdità di una organizzazione politica artificiosa, senza necessità ideale o sociale o economica», costretta a ricorrere alle forze mercenarie. Sono pagine intense, serrate, ricche di dati e interpretazioni che costituiscono tra l’altro una significativa testimonianza di quanto gli ideali risorgimentali ancora fossero vivi nella generazione nata all’inizio del secolo ventesimo e operassero nella maturazione di posizioni libertarie, socialiste, antireazionarie, antifasciste.

La storia che Binni ricostruisce è fatta di gente viva, borghesi ma soprattutto gente del popolo, quel popolo perugino che avrebbe suscitato l’ammirazione del giovane intellettuale proveniente da ben altro strato sociale (la sua famiglia era di origine nobiliare e alto borghese) quando le scelte politiche l’avrebbero messo in contatto diretto con la realtà concreta dei lavoratori, operai, artigiani, agricoltori. La simpatia con cui Binni parla del «ceto popolare di antica tradizione artigiana e ardentemente democratica», delle «vigorose forze popolari» che affiancarono nella giornata dell’eroico 20 giugno «le forze della borghesia», laboriose e autentiche, è sostenuta certo anche dalla proiezione derivante dall’incontro decisivo per lui, «giovane intellettuale fino allora chiuso in una cerchia legata alla propria estrazione borghese», con i «rappresentanti antifascisti della classe popolare perugina». Nel gesto di volerli nominare uno ad uno in un lungo elenco che li definisce anche in base all’appartenenza politica, si legge l’appassionata volontà di sottrarli all’anonimato, imponendoli alla memoria storica, al di là della loro provenienza di classe sociale. Ma non sfugge al lettore di queste intense pagine, cariche di passione politica, che, nel resoconto binniano dell’importanza capitale dell’incontro con questi popolani antifascisti, è di nuovo la città a essere evocata in veste di protagonista; è la città che, grazie alla sua natura intensa e integra, e dunque generatrice di valori civili e democratici, può farsi patria di uomini di tanto alta statura:

Fu questo [...] l’incontro più nuovo e importante (quanto più difficile e “proibito”: si sa che il regime temeva soprattutto l’avvicinamento di intellettuali e di uomini della classe lavoratrice), l’incontro con quella Perugia popolare, generosa e combattiva, il cui contatto tanto ci arricchì e che aiutò in alcuni di noi una scelta irreversibile di campo in senso sociale-politico[17]

L’incontro con la Perugia popolare si svolge nel nome di colui che lo stesso Binni avrebbe definito il «più perugino» di tutti, Aldo Capitini, conosciuto a diciotto anni[18]: egli stesso, Capitini, «figlio del popolo e vissuto in mezzo al popolo»[19]. Quanto questa comune appartenenza di origine («la nostra Perugia») contribuì al generarsi di quel legame speciale, di quella amicizia di cuore e di mente, fondata su fortissime idealità e consonanze spirituali, che avrebbe unito per la durata delle loro vite i due perugini, distanti per età, per origine sociale, per posizioni religiose (Aldo, credente, pur se di una religione molto personale; Walter, ateo) ma animate dalla medesima tensione all’assoluto, al giusto, all’umano?

Su Capitini, Binni ha scritto pagine degne di comparire in una antologia della prosa letteraria civile (una sorta di genere letterario che ha attraversato con esemplari nobili il Novecento) e in quelle pagine la città fa sempre da scenario necessario agli eventi e agli incontri[20]. Si legga la descrizione delle riunioni dei COS[21]:

In una città dell’Italia centrale, Perugia, cadevano ancora i proiettili dell’artiglieria nazista quando già nella sala della Camera del Lavoro, alla luce fantomatica di una lampada a gas si radunavano operai, impiegati, studenti, donne non per ascoltare una conferenza, ma per discutere liberamente tutti i problemi immediati e lontani, amministrativi e politici che la situazione poneva a loro come abitanti di quella particolare cittàù, come italiani, come uomini e donne di un mondo assetato di una concreta, precisa libertà[22].

Fin dal loro primo incontro, Perugia vive come presenza attiva tra Aldo e Walter, prodiga di paesaggi e di storia: Capitini abita in un ambiente semplice, situato però in uno dei luoghi più emblematici della città, niente meno che la torre campanaria municipale (il padre infatti è il campanaro del comune[23]); dunque nel cuore del centro storico e a pochi metri dalla Farmacia Binni (ben impressa nella memoria di me che scrivo queste pagine, per l’austera nobiltà dell’arco ogivale che rendeva, ai miei occhi di bambina, affascinante l’entrata e per gli arredi che mi attraevano soprattutto con la austera bellezza dei vasi medicinali di antica foggia): curiosamente, quei luoghi esprimevano nella loro contiguità una sorta di chiasmo esperienziale: l’elegante farmacia, cui faceva riferimento il mondo agiato borghese delle professioni, era situata in basso, nella Piazza, al piano strada mentre la modesta abitazione del campanaro si trovava in alto e da essa era possibile guardare lontano e godere una grande apertura, non solo panoramica («la finestra aperta sul paesaggio di Assisi» scriverà Binni rievocando le ore indimenticabili trascorse con l’amico).

Capitini avrebbe presentato così il rapporto fra l’alto del campanile e il basso della piazza:

lo schema della città è dei più fortunati e dei più maestosi. [...] Questo schema di piramide, non geometrica ma architettonica e varia, si coglie bene dalla torre campanaria del Palazzo comunale, e da qui, al cospetto dei palazzi centrali della città, si avverte meglio che il cuore della città è giù, nella piazza del Municipio e della Fonte, là dove le folle della città si son sempre radunate[24].

Le parole si leggono in quel contributo capitiniano cui ho fatto cenno in apertura, un breve quanto denso ritratto della città consegnato alle stampe nel febbraio del 1947, come contributo per la collana «Città italiane» de La Nuova Italia. Come ho accennato all’inizio, il titolo, costituito dal solo nome della città, è accompagnato da un sottotitolo importante: Punti di vista per una interpretazione, che trova una ulteriore esplicitazione nelle parole apposte quale epigrafe:

Queste pagine sulla mia città nativa non vogliono sostituire né una storia né una guida. Esse espongono alcuni punti di vista dai quali ho guardato e sento la città. Perciò il lavoro è un’interpretazione, offerta ai concittadini e agli ospiti.

Né storia né guida, ma interpretazione e, dunque, comprensione e svelamento del carattere profondo, essenziale della città, quasi che essa fosse un testo del quale portare alla luce il significato. Il “lavoro” di Capitini su Perugia sembra procedere in sintonia con quello del suo più giovane concittadino: anche Binni infatti mira a cogliere l’essenza della città più che a descriverla. La differenza sta caso mai nelle forme di scrittura prescelte: il primo, Aldo, spiega la città rimanendo esterno alla intelaiatura testuale, se non per minimi (ma importanti) intarsi autobiografici (quale quello, intenso, relativo al 20 giugno, che richiama sorprendentemente la rievocazione di Binni[25]); l’altro, fa di Perugia la protagonista della propria urgenza autobiografica, del proprio autoritratto emotivo, intellettuale, civile.

Del testo di Capitini, l’amico Walter ha scritto una presentazione all’atto della ristampa voluta dal Comune di Perugia nel 1986; una ulteriore dimostrazione di intesa profonda: ancora una volta la città si fa testimone dell’indissolubile sodalizio dei suoi due concittadini, proiezione delle loro passioni vitali.

Nella presentazione, il critico mette in evidenza le qualità di scrittore del suo amico-maestro: per entrambi la città sembra assolvere anche la funzione di musa, favorendo una scrittura, che nelle inevitabili diversità di stile e di registro, raggiunge una forte densità e un indiscutibile valore letterario.

Qual è il risultato del lavoro interpretativo su Perugia che Capitini offre ai suoi lettori? Nel ritmo elegante di una prosa che, specie nella prima parte, non può non definirsi poetica[26], egli situa la città in una posizione, morfologica e simbolica al tempo stesso, alta («ma la sua altezza, 500 metri, la salva, e Perugia sta, senza l’incombere di null’altro che del cielo», p. 21; «Perugia sta, rispetto a questi colli, non sottoposta come Firenze, ma elevata e come in un alto accordo», p.30); altezza che la eleva entro il paesaggio umbro nel quale lo scrittore la vede immersa e mai distinta. Alta, dunque, ma la posizione di preminenza non la separa dall’umano: ed è proprio l’umanità la caratteristica che Capitini riconosce come distintiva dell’anima della suo luogo nativo: il paesaggio è tutto segnato dalla presenza degli uomini («prevale il senso di una campagna ma tutta storica, non fuori dell’umanità e astratta, come appaiono le Alpi o le sabbie dell’Africa»; «tutto sembra tenersi nel limite di umanità, ma senza ostentazione di questa, e con tendenza ad ascoltare in silenzio senza mai staccarsi dal maturare continuo della vita»; «E pur in questo sentire il paesaggio tutto umano, tutto dentro la storia, non si ha di solito l’impressione di un fatto, di una passione, di una prepotenza che s’imponga , ma si ritrova un continuo armonizzarsi»[27]). L’umanità trova la sua radice nell’intessersi del paesaggio con la storia a partire dall’ «epoca più alta», il Duecento, e in particolare il Duecento umbro popolare, con San Francesco, Jacopone, i movimenti ereticali, una religiosità «aperta, che unisce il sentimento appassionato e una sobrietà blandamente superstiziosa, moralmente ferma, talvolta anche santamente eretica in questo voler portare entro il cerchio alto e aristocratico della Chiesa medioevale elementi tratti dalla vita umile, comune, affettuosa»[28]. Il filosofo coglie l’anima della sua città attraverso punti essenziali di osservazione: l’umano, nelle varie declinazioni, popolari, storiche, religiose, è il primo «centro da cui guardare Perugia»[29]; a esso se ne collega un altro, relativo alla dimensione della contemplazione e dell’armonizzazione, colta nella più ampia prospettiva regionale («l’Umbria può apparire troppo raccolta in sé, troppo avvolta nel silenzio, troppo pura o contemplativa»[30]): dimensione alla quale corrisponde sempre una forza interna, di fierezza, di gravità («Ma c’è una forza dentro»). La città di Capitini risulta meno compatta rispetto a quella di Binni, di più «complesso aspetto», fondata su elementi contrastanti: «si osserva, anche per Perugia, e forse più per questa che per altre città, una fierezza, che è talvolta crudeltà; e talvolta impeto mistico, soavità»). E tale complessità si rispecchia nella sua parte umana essenziale, nel carattere dei suoi cittadini:

Molte sono le testimonianze sul carattere singolarmente bellicoso, ostinato, altero, risentito, dei perugini. E, insieme, devozione e pietà a volte intensissime, sebbene il francescanesimo qui si attenui, si faccia meno cantato, più asciutto e apparentemente superbo, come se l’esser centro di responsabilità civile e politica porti qualcosa di più duro[31].

Ma a significare, più che a rappresentare, tali caratteri antitetici è, continuamente evocata nel testo, la inquieta, varia morfologia della città, la sua fisica concretezza, il suo paesaggio, le sue architetture, le sue strade, le sue piazze, i suoi quartieri, i suoi colli, le sue chiese, i suoi conventi, le sue Porte, i borghi, le mura, i giardini, i luoghi poetici («Il quartiere di San Paolo [...] passa gradatamente dai palazzi -antica dimora di molte famiglie aristocratiche- alle case modeste di Via Armorica, più care ancora dei primi con le loro finestre al sole e miranti gli orti di là dal muretto, un angolo che sarebbe stato caro al Leopardi»[32]), i suoi climi che, anche per Capitini come per Binni, riflettono al meglio l’anima della città nelle declinazioni più severe, nei «momenti di pioggia e di vento», nella «forte aria e luce invernale».

Altro ‘centro’ da cui guardare a Perugia, altro elemento fondamentale dell’essenziale legame di Capitini con la città, è l’aspetto «liberale e politico», declinato attraverso quelli che gli appaiono i tre punti di vista necessari per interpretarne la storia: autonomia, centralità politica, avversione all’assolutismo papale[33]. A decifrare questo aspetto sono le ultime pagine del contributo capitiniano su Perugia, tracciate seguendo la ricostruzione storica del «capolavoro» dello storico Bonazzi, di cui viene sottolineato lo spirito d’indipendenza, di schiettezza:

Il Bonazzi del Risorgimento dell’Italia e della città visse la ‘coscienza’ nella sua attività di scrittore, e di storico e anche di attore. La sua Storia di Perugia e’ un capolavoro. Seguendo la sua prosa, alta, sempre vivace, ci si avvicina e ci si affeziona a quel carattere schietto e talora nobilmente malinconico, a quella tempra virile che ci richiama ad altri italiani dell’Ottocento, a Francesco De Sanctis, ad Antonio Labriola. La linea secondo la quale egli conduce la storia di Perugia è quella dello spirito di indipendenza, indomabile per secoli e secoli[34].

Ed è a questo spirito, vitale soprattutto nei secoli tra il XII e il XV e risorto nel XIX, durante i fatti del Risorgimento, che il filosofo riconosce la funzione di aver fatto germogliare e alimentato la propria passione civile, la propria convinzione democratica: lo stesso riconoscimento che alla città dava Walter Binni.

Perugia, cemento di un’amicizia superiore: se l’indole «tragico-elegiaca» di Walter favorisce una interpretazione del luogo nativo più compattamente ispirata alla severità e al rigore, mentre la «tendenza epico-rasserenatrice»[35] di Aldo permette una visione di aspetti antitetici e complessi, l’amore indiscusso che entrambi nutrono nei confronti della città trova nelle loro parole accenti di uguale intensità e di uguale forza espressiva. Caratteri che si manifestano a un alto livello di autenticità e di letterarietà nello scambio epistolare intrattenuto dai due amici fino alla data della scomparsa di Aldo, morto nella sua città nel 1968. Il carteggio, non solo interessante dal punto di vista storico-politico ma altrettanto nell’aspetto della scrittura, costituisce un esempio rimarchevole delle potenzialità letterarie insite in un genere squisitamente privato come quello epistolare. Nella fitta rete di messaggi che i due si scambiano sulle reciproche esperienze di vita e sui pensieri, le amarezze, le speranze, le difficoltà, Perugia costituisce almeno fino alla fine degli anni cinquanta, una sorta di trama spirituale e affettiva costante, il luogo delle nostalgie, dei desideri, delle aspirazioni: il luogo che accoglie e che attende, il luogo che non delude e che comprende; e il luogo dove ritrovarsi «insieme»[36]. A ogni evocazione della città sembra che il tono della scrittura si innalzi, quasi verso una sorta di modulazione poetica: «Perugia è sempre più bella, scrive Walter nel 1949, ed io me la giro con un insieme di avidità e di tristezza non rassegnandomi volentieri a lasciarla. Ma sempre più è per me una città di fantasia e di paesaggio interiore; la gente mi interessa sempre meno»[37]; se per Walter dunque Perugia costituisce l’imprescindibile paesaggio dell’interiorità, per Aldo rappresenta il luogo che, unico, permette di sperimentare l’assoluta, necessaria, purezza: «[...] a Perugia si incontrano ricordi molesti, e talvolta bisogna scansare con la mano cose che avremmo voluto diverse; ma mi pare che là, e non qui a Pisa, sia possibile toccare ogni tanto quei punti alti, assoluti, puri, che ricompensano del resto; punti che si vedono, si vivono pacatamente, lì, e non fuggevolmente»[38]. Capitini più di una volta usa accompagnare il nome della città con l’aggettivo “nostra’ («la nostra Perugia») quasi a sottolineare la intimità di una esperienza essenziale comune e chiama l’amico a un incontro: «Vieni, vieni a Perugia, celebreremo il nostro ventennale, e richiameremo tutte le care persone che ce lo hanno accompagnato. Ci aspettano le appassionate e serene cime dei dintorni della nostra Perugia»[39]. La risposta dell’amico esprime il dolore della privazione e una desiderante promessa: «Guardo a Perugia, al tuo campanile, alle nostre passeggiate come dalle sbarre di una prigione. Ma entro il mese mi conquisterò qualche giorno di libertà perugina»[40]. E due anni più tardi: «Penso già con piacere al settembre perugino: non c’è Sciliar e Alpe di Siusi che valga la discesa dal cimitero di P.S. Giovanni o la zona di Brufa ecc. E bisogna pure che io cambi la mia elegia perugina in un contatto attivo e che nessuno mi nega»[41].

Perugia è generatrice di idee vitali e di affetti, per Aldo; è il luogo, serio e profondo, che ispira e sostiene opere e tensioni ideali per Walter: «Si, stando a Perugia ti riprende quell’aria vivificante (di cui ha anche parlato Piovene ieri nell’Ingresso nell’Umbria) [...] e ti riprendono le care persone»[42], scrive il primo nell’aprile del ’55; e il secondo, nel luglio: «Ahimè, ero fatto per vivere in luoghi simili [si riferisce al paesaggio del Casentino] o in città come Perugia dove quel poco che c’è in me, valga quel che valga, trova le sue condizioni più favorevoli di espressione»[43]; e ancora nell’ottobre del ’57: «Immagino –e mi ci struggo- queste giornate a Perugia, dove per me la vita e la morte son più suggestive e dove ritrovo le stesse origini fresche del mio amore per la poesia e per la cultura»[44]. «E tu? E Perugia?» Chiede all’amico in un’altra lettera e: «Mi fa tanto piacere pensare che il 10 marzo sarai a Perugia: non è che ci si possa vedere subito, forse, ma saperti a Perugia mi fa piacere: più vicino e come se qualcosa di me fosse presente in quella città»[45].

Sul finire degli anni Cinquanta, nello scambio epistolare fra i due concittadini i riferimenti alla città si assottigliano e perdono di intensità. Le lettere si concentrano su temi politici, questioni accademiche, notizie sui reciproci impegni lavorativi, sui libri, sui rapporti con colleghi, con amici e nemici di vita politica e universitaria (con sempre maggiore insofferenza specialmente da parte di Binni, per i ‘professori’[46]). La città si fa più lontana nel loro scambio, anche se Capitini vi risiederà stabilmente negli ultimi anni e vi morirà. L’ultima significativa testimonianza di Binni porta i toni della amara verifica di una mutazione, almeno antropologica, deludente:

Carissimo Aldo, torno da Perugia dove ho tenuto il discorso per il Liceo[47]; è venuto molto bene e lo leggerai quando lo pubblicherà il Liceo […] C’era molta gente che tanto ha apprezzato la parte di ricordi e il ritratto del Mariotti: non tutta invece la parte sulla novità dei Licei classici rispetto alle scuole pontificie e il finale ferocemente antifascista e laico. A pranzo poi –oltre i burocrati- c’era il deputato missino di Perugia che ha avuto il coraggio di protestare perché avevo detto troppo male del fascismo: al che ho replicato che del fascismo non si dice mai male abbastanza […] Ma che aria cambiata! Non dico solo del clima inglese di Perugia, ma anche del clima conformistico in cui tutto sembra audace e inopportuno[48].

La città si prepara a divenire scenario per la meditazione sulla morte dato che sempre maggiore è il numero di quanti scompaiono. Per Binni il tema è potente e ineludibile: «E la morte è un assurdo su cui non ci si può accontentare di nessuna spiegazione facile. Io certe volte sono come incantato e sbalordito (a questa età) di fronte alla sproporzione fra la vita delle ‘persone’ e la loro scomparsa»[49]. L’ultimo riferimento a Perugia, nelle lettere di Capitini, ormai malato e prossimo alla fine, è emblematicamente un breve intenso resoconto di una visita al cimitero:

Perugia, 2 nov.1967

Caro Walter, sono stato al Camposanto, da solo, a piedi e con degli autobus pieni di gente. Sulla tomba dei tuoi c’erano bellissimi crisantemi bianchi, molti: in basso, quasi sull’orlo un lumino spento che aveva scolato un po’ di cera. Affmo Aldo.[50]

La morte di Capitini, il 19 ottobre del 1968, ispira all’amico Walter, chiamato a commemorarlo, parole di grande verità e di solenne bellezza: ancora una volta in mezzo a loro, a unirli, anche dopo la scomparsa del più anziano, i luoghi della città, personificazione di un legame che neanche la morte può rescindere:

Tutto ciò che era suo, inconfondibilmente e sensibilmente suo, ora ci attrae e ci turba quanto più sappiamo che è per sempre scomparso con il suo corpo morto e inanime, che non si offrirà mai più ai nostri incontri, al nostro affetto, nella sua casa, o in questi luoghi da lui e da noi tanto amati, su questi colli perugini, malinconici e sereni, in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci sembrano improvvisamente privati della loro bellezza intensa se da loro è cancellata per sempre la luce umana della sua figura e della sua parola.[51]

Perugia si è impoverita per la morte di questo figlio dalle eccezionali qualità umane, che collaborava alla sua bellezza e alla sua luce; perdendo Aldo, ha perso una parte di sé così come, nella rappresentazione delle ultime pagine della Vita Nuova, Firenze si era fatta «dolente» dopo la perdita della «sua Beatrice». A riprova del rapporto di reciprocità che lega gli uomini ai luoghi, una città rimane vedova quando un cittadino che ha operato attivamente nel suo tessuto, nel suo organismo sociale scompare: se Perugia rivestì un ruolo centrale nella storia dell’antifascismo, se fu protagonista di una stagione di forte progettualità politica e sociale, questo fu merito in primo luogo di Capitini, delle sue idee, del suo liberalsocialismo, della sua vocazione a riunire gruppi umani intorno a ideali comuni, della tensione morale e civile che da lui si propagò nella città rendendola più ricca, collaborando a farla diventare migliore. D’altra parte:

Perugia fu per lui il centro concreto e ideale della sua attività e l’appoggio costante della sua ispirazione, il luogo o l’intreccio di luoghi (quei colli, quelle vie, quelle piazze che percorreva solo od insieme agli amici più cari) su cui collocare le sue intuizioni più alte, le sue immagini più intense, i suoi sentimenti e i suoi affetti più intimi e sacri e insieme un vivo nucleo di tradizioni cui collegare lo sviluppo della sua stessa prospettiva spirituale e della sua prassi coerente[52]

L’amico, rimasto egli stesso vedovo per una così dolorosa scomparsa, stenta a ritrovare i segnali fervidi di vita e di futuro nella città impoverita. E sempre meno frequenti saranno i ritorni; e non sarà Perugia la città eletta a residenza per gli anni della avanzata maturità e della vecchiaia. Ma non per questo si interrompe il colloquio, sempre più intimo e sempre più segnato dal motivo dello “sradicamento”, della separazione, della morte. E’ la tonalità del congedo, della consapevolezza della fine (mai disgiunta, tuttavia, dall’ardore dolente della «passione implacata») che caratterizza le pagine dell’ultimo scritto di Walter Binni sulla sua città (suo ultimo scritto in assoluto): Perugia nella mia vita. Quasi un racconto[53].

«Quasi», poiché il tipo di narrazione autobiografica oscilla fra meditazione e storia personale, concentrata in brevi lampi di memoria che, tutti, hanno come scenario attivo la città: la figura della madre, centro dei più profondi affetti («rivedo nel giardinetto dei carabinieri mia madre, alta ed elegante nel suo vestito, lungo fino ai piedi e protratto in alto nel “coprigola” di satin, con il vasto cappello infiorato, con il manicotto di pelliccia»[54]); la voce festosa del giornalaio; il canto delle due giovinette alla Piaggia Colombata; l’affacciarsi fugace degli zii e dei soldati in uniforme; il volto di una fanciulla «dolce e bella» di nome Nerina, collegato al ricordo di una baruffa cavalleresca con un ragazzo più grande durante una festa in maschera all’Hotel Palace; il Liceo, l’Università, la cella campanaria del Municipio, sede dello studiolo di Capitini… La sequenza irregolare dei ricordi trova il suo centro narrativo proprio nella città, «etimo» della personalità stessa dell’autobiografo, tanto attiva e luminosa ed essenziale negli anni della infanzia e della giovinezza quanto, al presente, malinconica e spossessata di coloro che l’avevano resa viva.

La complessità della dialettica tra presente e passato, essenziale alla forma autobiografica, qui restituita mediante una scrittura densa, accalcata, priva di ogni ornamento stilistico, segnata dai tocchi funebri del leopardiano “mai più”, del finito “per sempre”, cede il passo alla descrizione dell’ultimo ritorno alla città e dell’ultimo luogo che di essa verrà abitato, il cimitero, dove un corpo nudo andrà a collocarsi accanto ai nudi corpi degli altri esseri amati («senza alcuna vita né presente né futura»). Le braccia della città, che avevano accolto la creatura appena venuta alla luce dal «nulla», si richiudono a ospitane le spoglie, senza vita e senza futuro, in un estremo atto d’amore e di reciprocità.

***

Lo scenario mediatico entro il quale viene oggi presentata la città dove nacquero Binni e Capitini fa di Perugia poco meno di una Gomorra del terzo Millennio: capitale del commercio di droga, invasa dai pusher; una “Scampia umbra”, in certo gergo giornalistico, con il tasso di mortalità per overdose più alto d’Italia, dove a fatti di cronaca gravi e preoccupanti si accompagnano una tangibile perdita di tensione civile e un forte impoverimento umano e politico.

Verrebbe da pensare che la città non ha saputo resistere all’aggressione di un benessere invasivo e di un consumismo selvaggio proprio perché irrigidita in una integrità poco dinamica, in una austerità fragile al cospetto degli assalti di nuovi modelli economici e antropologici impostisi con violenta rapidità.

A chi oggi la abita rivestendo posizioni di responsabilità educative, ai politici, agli insegnanti, agli operatori sociali, ai genitori potranno essere di monito, di conforto, di sostegno le parole appassionate di valori umani e civili che questi due intellettuali dal grande spessore intellettuale le hanno dedicato. Le pagine di Binni e Capitini ci dicono che tra i valori che è necessario trasmettere a chi ci succede non può essere omesso quello costituito dal senso di appartenenza al luogo che ci accolto da infanti e da bambini; esso non deve essere vissuto come uno sterile, chiuso campanilismo, come una difesa intrisa di provincialismo e di localismo, ma piuttosto come consapevolezza della preziosità del patrimonio di culture e di uomini che ciascun luogo, pur in diversa misura, possiede e dispensa e come valore da interiorizzare, preservare e custodire al fine di procedere con equilibrio costruttivo verso i nuovi modelli culturali che ogni epoca inevitabilmente impone.



[1] In realtà, nel frontespizio il titolo compare seguito da un sottotitolo che non può essere taciuto: Perugia. Punti di vista per una interpretazione, Tipografia comunale di Perugia, 2008 (era uscito la prima volta nella collana «Città italiane» de La Nuova Italia nel febbraio del 1947; nel 1986 la Regione umbra ne curò una ristampa anastatica con una prefazione di Walter Binni riprodotta nel volumetto del 2008)

[2] Walter Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, Perugia, Morlacchi editore,2007. Il volume appena citato rappresenta la terza edizione (la prima del 1984, ristampata nel 1989; la seconda ampliata nel 2001; questa terza è ulteriormente arricchita di altri scritti).

[3] Walter Binni, Autoritratto-1960, ivi, p. 31.

[4] A tale categoria morale fa riferimento Iganzio Baldelli nelle belle pagine dedicate a Walter Binni e la sua città, in Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di Mario Costanzo, Enrico Ghidetti, Gennaro Savarese, Claudio Varese, Roma, Bonacci, 1985, pp. 142-146.

[5] ID. Perugia:la tramontana a Porta Sole, ivi, pp. 19-26.

[6] Ivi, p.25.

[7] Ivi, p.22.

[8] Aldo Capitini-Walter Binni, Lettere 1931-1968, a cura di Lanfranco Binni e Lorella Giuliani, Roma, Carocci, 2007, p.41.

[9] La tramontana a Porta Sole,cit., p. 20.

[10] Nel volume portano un titolo editoriale tratto dalle prime righe del testo: La voce della tramontana, ivi, pp.26-30.

[11] Nelle pagine intitolate La tramontana a Porta Sole si legge: «Sotto l’impulso veemente e severo della tramontana ogni tono di idillio e di dolcezza scompare: le vie vengono spazzate e pulite, disseccate, la pietra degli edifici più antichi rivela tutta la sua durezza e consistenza, i volti divengono gelidi, petrosi anch’essi, una forza morale e fantastica occupa l’animo imperiosamente e lo sommuove ad impegni e sogni profondi senza abbandoni e senza mollezze» (ivi, p.22)

[12] Perugia e Leopardi, in La tramontana a Porta Sole, cit., pp. 36-7.

[13] James Hillman, L’anima dei luoghi, (con Carlo Truppi), Milano, Rizzoli, 2004.

[14] Il «Corriere di Perugia», in La tramontana a Porta Sole, cit., p.147.

[15] Il XX giugno 1859 nel Risorgimento italiano, ivi, pp. 53-54.

[17] L’antifascismo a Perugia prima della Resistenza, ivi, pp.105-06.

[18] «Avevo 18 anni (egli ne aveva 32) quando lo conobbi nell’autunno del 1931: ero un giovanissimo animato da una forte passione per la poesia ed anche per le questioni etico-politiche, ma ancora privo di contatti culturali più precisi e di orientamenti sicuri” (Ricordo di Aldo Capitini, ivi, pp.159-160).

[19] Uno strumento della nuova democrazia, ivi, p.122

[20] Nelle bellissime pagine pronunciate al funerale di Capitini, Binni scriveva: «Tutto ciò che era suo […] ora ci attrae e ci turba quanto più sappiamo che e’ per sempre scomparso […] che non si offrirà mai più ai nostri incontri […] in questi luoghi da lui e da noi tanto amati, su questi colli perugini, malinconici e sereni, in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci sembrano improvvisamente private della loro bellezza intensa se da loro e’ cancellata per sempre la luce umana della sua figura e della sua parola»; e di seguito: «E ognuno di noi, certo, in questo momento e’ come sopraffatto dall’onda dei ricordi più minuti e perciò più struggenti, […] che […] ci spingerebbero a rievocare, a recuperare quel particolare luogo d’incontro, quella stanzetta della torre campanaria in cui un giorno - quel giorno lontano - parlammo per la prima volta con lui, o quella piazzetta cittadina – quella piazzetta- in cui improvvisamente lo vedemmo illuminato dalla gioia dell’incontro inatteso, o quel colle coronato di pini in cui insieme ci recammo con altri amici” (Estremo commiato, ivi, p.154).

[21] I COS (Centri di Orientamento Sociale), fondati nel 1944, erano assemblee pubbliche e libere, costitutive, nel pensiero di Capitini, di centri di base fondati su un principio di democrazia diretta.

[22] Ibidem.

[23] «Sono nato a Perugia il 23 dicembre 1899, in una casa all’interno povera, ma in una posizione stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile {…] Mio padre era un modesto impiegato comunale, e custode del campanile; suonava anche le campane comunali, e tutti noi in casa sapevamo farlo», Aldo Capitini, Agli amici. Lettere 1947-1968, a cura di Goffredo Fofi e Piergiorgio Giacché, Edizioni dell’Asino, 2011.

[24] Aldo Capitini, Perugia, cit., p. 27.

[25]«Quando ero fanciullo, alle cinque pomeridiane di ogni 20 giugno, le due campane del Municipio cominciavano funebri, distanziati rintocchi, mentre la carrozza a due cavalli usciva dall’atrio del palazzo e recava al cimitero il sindaco e la giunta comunale a deporre una corona sulla tomba dei caduti in quel giorno memorando. Nell’animo mi scendeva una mestizia e un senso solenne: l’ammirazione per il coraggio, l’avversione alla crudeltà, la diffidenza verso l’oppressore e insieme la tenerezza per il silenzio a cui erano scesi quei morti, mi fecero germogliare e confermavano ad ogni atteso anniversario nel fiorente, pieno giugno, il sentimento civile», ivi, p.43.

[26] Lo notava anche Binni,, ivi, p.21.

[27] Tutte le citazioni si leggono a p.22. Più avanti (p. 29): «Lo schema maestoso della città con I suoi sviluppi complessi trova come un appoggio e una liberazione da ogni astrattezza nei colli circostanti. Il più antitetico al carattere della città è il colle di Prepo, il più fiorente di vegetazione, il più adorno di ville, colline e strade dolci, il più pacatamente georgico, e così umanizzato da avere una chiesa e case là dove la strada giunge al sommo».

[28] Ivi, pp. 23-24.

[29] Ivi, p. 45..

[30] Ivi, p. 22.

[31] Ivi, p. 46.

[32] Ivi, pp.34-35. Il brano prosegue con il ricordo di un’altra presenza poetica, Alinda Bonacci Brunamonti, poetessa perugina: «Succede un breve spiazzo e una terrazza disadorna che offre la vista del paesaggio del tramonto e scende a via del Poggio dove nacque dinanzi al ‘tepido ponente’ una poetessa delicata e serena, Alinda Bonacci Brunamonti di derivazione leopardiana». Tengo a ricordare che anche per Capitini il rapporto con Leopardi è stato forte e intenso e che al poeta egli dedicò una parte ragguardevole della propria tesi di Laurea e l’intera tesi di Perfezionamento.

[33] Ivi, p. 36.

[34] Ivi, p.36.

[35] Aldo Capitini-Walter Binni, Lettere, cit., p.8; le due definizioni si leggono in una lettera inviata all’amico da Binni a fine marzo del 1957, da Lucca.

[36] «bisognerà seguire se approvano al Consiglio superiore la Facoltà a Perugia […] E, infine, incaricato di Letteratura italiana: che bella cosa sarebbe! Ritrovarci insieme, fare ampi bilanci culturali e politici, far tirare un certo vento tra i giovani di Perugia», ivi, p.80.

[37] Ivi, p.42.

[38] Ivi, p.44. Lettera del 14 settembre 1950; un anno e mezzo prima aveva scritto: «Mi piacerebbe il bene e il male di Perugia, di sapere il grave e il cattivo, di prendere contatto con il buono, e con tutto ciò che c’è di alto e puro, che per me è incomparabile. E questo ti dica la nostalgia con cui sto qui»(ivi, p.41).

[39] Ivi, p. 50.

[40] Ivi, p. 50.

[41] Ivi, p. 57.

[42] Ivi, p. 66.

[43] Ivi, p. 68.

[44] Ivi, p. 95.

[45] Ivi, p.101 (lettera del febbraio 1958)

[46] «Riguardati e non affaticarti molto per l’Università: capisco, i giovani meritano molto. Non così i professori la cui razza mi è sempre più odiosa (odiando anche me stesso in quanto di quella razza, in qualche misura, partecipo!)», lettera del 2 giugno 1966, ivi, cit., pp.158-9.

[47] Discorso su Annibale Mariotti tenuto da Binni nel novembre 1960 in occasione del primo centenario dell’istituzione del Liceo classico Annibale Mariotti di Perugia.

[48] Lettere, cit., p.131.

[49] Ivi, p.117 (lettera del settembre 1957)

[50] Ivi, p. 173.

[51] Estremo commiato, in La tramontane a Porta Sole, cit., p. 154.

[52] Sono le parole conclusive della Prefazione di Binni a Perugia di Aldo Capitini (cit. p.8).

[53][53] Riporto integralmente la nota apposta dai curatori (Elena, Francesco e Lanfranco Binni) in conclusione di questo scritto in La tramontana a Porta Sole, cit., pp.39-49: «È l’ultimo scritto di Walter Binni, un testo iniziato il 4 novembre del 1982 – anniversario della morte della madre, una ferita rimasta sempre aperta- e “chiuso” - con una grafia ormai esile e incerta - il 4 novembre del 1997, a pochi giorni dalla fine della vita, da concludere con responsabile dignità. Questo testo, continuamente rivisitato nel corso degli anni, con aggiunte, correzioni, tracce a margine, vuol essere la sintesi di un’intera esperienza umana e intellettuale, di una poetica personale che trova le proprie origini nella viva percezione di una città intensa, forte di senso, capace di suscitare emozioni profonde, tensione creativa e consapevolezza».

[54] Ivi, p. 46.