Raul Mordenti, Sulla concezione binniana di poetica. Intervento all’incontro di studio «Walter Binni e lo storicismo», Perugia, 20-21 novembre 2013. Pubblichiamo l’intervento di Mordenti come anticipazione degli Atti dell’incontro perugino e del precedente incontro genovese (20 giugno 2013) che saranno pubblicati nel secondo semestre del 2014 in un numero monografico della «Rassegna della letteratura italiana».

Dedico questo intervento alla memoria di Umberto “Paci” Carpi, che avrebbe dovuto svolgere in questo nostro incontro una vera relazione introduttiva, e che avrebbe trattato anche del cruciale tema della poetica tanto meglio di quanto io non possa e sappia fare.

1. A partire da un appunto di Binni

Nei due ultimi fogli di appunti ritrovati da Lanfranco Binni sulla scrivania dopo la morte del padre e intitolati Quasi una biografia, Walter Binni mette in rapporto la sua “critica poetante” (“pur lontano come sono da modi estetizzanti o neoestetizzanti”, scrive) con le emozioni che gli hanno fatto da “sorgente”; la poesia e la letteratura, certo, e però non solo queste:
“(…) ma prima la musica e il cinema le cui emozioni traducevo a vari gradi di maturità in prospettive poetiche e di cui arricchivo la mia capacità di penetrazione della poesia e della sua riesternazione.”1
Un passo invero sorprendente (tanto più che le parole “prima” e “riesternazione” sono sottolineate da Binni, e quest’ultima parola, “riesternazione”, mi sembra particolarmente densa e bella, forse capace di definire l’attività stessa del critico); così abbiamo qui un elenco tanto cursorio quanto significativo che va dai quartetti di Beethoven e l’op.95 a Bela Bartok e Prokofief, a Brecht, dagli “squarci della guerra” di Burri a Barry Lindon (e credo si debba qui intendere l’opera di Kubrik).
Quasi all’inizio di questo elenco, subito dopo il nome di Michelstaedter, si legge:
“Decadentismo (Verlaine, Mallarmé, Rimbaud). Poi la storicizzazione attraverso la poetica [anche questa parola sottolineata, NdR] che si sviluppò come l’ha definita Garin.”2
Dunque Binni compie qui un gesto di autobiografia intellettuale davvero per noi assai significativo (che possiamo assumere come traccia del nostro ragionamento) articolandolo in tre momenti:
(i) mette al centro di tutta intera la sua attività critica e storiografica la nozione di poetica;
(ii) la lega strettamente al concetto di storicizzazione: “Poi la storicizzazione attraverso la poetica”;
(iii) autorizza l’interpretazione di Garin come quella più profonda e vera; e bene ha fatto Lanfranco Binni, nello “speciale” del “Ponte” da lui curato (cfr.: Il Ponte 2011), a recuperare il saggio gariniano che era già comparso nel volume dedicato a Binni dai suoi primi e più diretti allievi e amici nel 19853 .

2. Fra due maestri

Garin fa risalire giustamente la nozione binniana di poetica già alla giovanile Poetica del decadentismo italiano, la tesi di laurea discussa con Luigi Russo nel ’35, mentre la cosiddetta “tesina” del ’34, leopardiana (recentemente ripubblicata) era stata da Binni preparata e discussa con Attilio Momigliano (cfr. Binni 2009). E – in questa sede necessariamente solo en passant – non si può non pensare, in rapporto a questa formazione binniana, a quella che fu la grande Scuola di Pisa, da Russo e Momigliano e Capitini e Pasquali, e Fubini e Branca, e poi Bigi, Blasucci, Baratto, e Feo4 e tanti altri ed altre, fino allo stesso Carpi e all’allieva diretta di Binni, Rosanna Alhaique Pettinelli, etc.
La Poetica del decadentismo italiano, esce in volume per le pubblicazioni della Scuola Normale nel ’36, poi da Sansoni (e conoscerà dodici successive riedizioni, più o meno rielaborate, di cui dà analitico conto la splendida Bibliografia binniana curata da Chiara Biagioli); non solo quel libro si meritò una recensione di Momigliano sul “Corriere della sera” ma ebbe addirittura uno straordinario revisore delle bozze in Giorgio Pasquali! Il libro reca il seguente ringraziamento del giovane Binni:
“Ringrazio LUIGI RUSSO e ATTILIO MOMIGLIANO, miei Maestri, per i consigli e le indicazioni con cui hanno agevolato il mio lavoro. Ringrazio in maniera speciale GIORGIO PASQUALI che si è generosamente assunto il compito della correzione delle bozze: e in realtà ha fatto assai di più che una semplice revisione tipografica. Ringrazio infine l’amico ALDO CAPITINI che ha seguito con suggerimenti preziosi lo svolgersi del mio lavoro.” (cit. in L.Binni 2013: 153, nota)
Su questo esordio clamoroso di Binni, che sembra quasi già contenerlo tutto nel riferimento a quei quattro grandi nomi (nel ringraziamento binniano scritti tutti in lettere maiuscole), e soprattutto su quella coppia di maestri, Russo-Momigliano, occorre soffermarci.
Sarebbe difficile pensare due personalità più diverse: il robusto impegno storicista del siciliano Russo, politicamente appassionato, forse più gentiliano che crociano, sembra oggi a noi posteri non solo diverso ma decisamente contrapposto al colloquio diretto coi testi, alla capacità di “leggere e sentire” e di interpretare che fu di Momigliano; un rapporto diretto di lettura dei testi e dei loro Autori, che (come ricorda Ghidetti nella bella voce biografica che ha dedicato a Momigliano) attua la formula di Sainte-Beuve “La critique n’est qu’un homme qui sait lire et qu’apprend à lire aux autres”, e che anzi talvolta rivela una specie di oltranza in cui traspare forse la necessità di rompere con lo storicismo estrinseco della scuola storica torinese da cui pure, recta via, Momigliano proveniva (“passo cauto e felpato di psicologista”, scriverà di lui il Russo).
Di Momigliano abbiamo un ritratto acutissimo in una lettera di Pasquali, scritta a Binni dalla montagna di Canazei il 10 agosto 1935 (per offrirsi assai generosamente da tramite anche pratico del soggiorno di Binni in Germania, a Heidelberg, con Bolelli e Frugoni):
“È uomo intelligentissimo e forse, a suo modo, caldo, certo benevolo; ma nella conversazione non s’impegna. È uditore attentissimo e intelligentissimo, e intende subito, qualunque pensiero su qualunque argomento gli si esponga (…). Ma gli riesce difficile uscir da sé e darsi: ebreo timido, che cammina curvo come se tutta l’eredità secolare d’Israele gli gravasse sulle spalle e sul dorso, ed ebreo inquieto. È stato già in montagna in tre diversi luoghi e già domani ritorna a Bologna, dove ha la moglie e la famiglia della moglie. E sì che qui ha i compagni di Torino e in parte di bestemmia, lo storico Falco, il glottologo Terracini [Benvenuto, NdR], il (non bestemmiatore) Benedetto [Luigi Foscolo, NdR]. Ma insomma a te vuol bene, e tu hai ragione di essergliene grato.” (L. Binni 2013: 152)
Pasquali scrive queste parole nel ’35, prima che le caratteristiche da lui lette in Momigliano siano accentuate drammaticamente dall’infamia fascista del ’38. Ed è anche interessante che a proposito dei rapporti di discepolato rivendicati da Binni nei confronti di Momigliano, Pasquali noti:
“Ti è grato per la tua dichiarazione che ‘procedi da lui’ (lo credi, ma nessuno procede da un altro)…” (Cit. in L. Binni 2013: 152)
In effetti Binni non “procede” da nessuno che non sia lui stesso, ma Russo e Momigliano resteranno comunque per lui, senza incertezze né contraddizioni, i suoi due maestri: di Momigliano Binni curerà gli ultimi studi postumi nel 1954, e di Russo terrà l’orazione funebre il 16 agosto del 1952, con piena e profonda consonanza nei confronti di entrambi a giudicare dalle reazioni grate dei rispettivi eredi. Erede diretto Lallo Russo che definisce Binni : “il più valido e affezionato amico di mio padre” (cit. in L. Binni 2013: 215), ma è ancora più significativo l’apprezzamento per la rievocazione binniana di Momigliano che dobbiamo alla penna di Luigi Foscolo Benedetto:
“ (…) la tua è la più profonda e la più completa. È il profilo che ci voleva per una personalità come quella di Momigliano, personalità solo afferrabile – nella sua sostanza e nelle sue sfumature – da uno che non sia soltanto un antico allievo, un confrère rispettoso, un amico, ma sia in grado di collocarla nella Storia, all’incrocio di tutte le varie correnti culturali che hanno contribuito a formarla e che ne hanno per lo meno occasionato e aiutato le molteplici affermazioni.” (ivi: 212).
Si è detto, per certi aspetti fondatamente, che il concetto binniano di poetica risale a Luigi Russo.
Nella citata orazione funebre del 1961, lo stesso Binni cita Russo: la poetica dell’artista è da lui intesa come: “il mondo stesso e di teorie estetiche, e di miti passionali, morali, politici, che costituiscono l’humus in cui nasce in concreto la sua poesia.” (ma Russo citava qui il giovane allievo Binni e la sua Poetica del decadentismo. Il cerchio si chiude!).
Se anche la nuda nozione di poetica gli fosse venuta da Russo, è però nettissima la novità che Binni introduce nella visione di quel suo maestro. Russo, che si muove almeno teoricamente (la pratica critica è sempre un’altra cosa) dentro il crocianesimo, giunge a dire della poetica:
“Intesa la poetica come la generale mitologia umana di uno scrittore, essa va sempre interpretata in rapporto alla sua poesia; e se il nome di poetica dà noia, la chiameremo crocianamente la non poesia, purché s’intenda la non poesia nel suo valore positivo e come momento necessario, urgente, stimolante e immanente nella dialettica lirica del poeta poetante.” (Russo, La critica letteraria contemporanea, 1942-43, ediz. 1967, cit. in Carpi 1983: 39-40).
Per Binni invece la poetica è proprio ciò che può e deve riconnettere la poesia alla storia, rompendo così il radicale interdetto crociano verso il concetto stesso di storia della poesia e, di conseguenza, verso una storiografia letteraria che non fosse mera raccolta di medaglioni monografici irrelati (scrive Binni in Preromanticismo italiano)
“L’utilità critica degli studi di poetica non si avverte soltanto all’esame interno della relazione tra poetica e poesia: vale agli effetti di una storia letteraria in quanto indica, entro i limiti della personalità, il gusto di un’epoca, le tendenze di un periodo letterario.
Si può dire anzi che non si fa mai storia di poesia, ma di poetica.” (Cit. in Carpi 1983: 44)

3. La storia e i conti con Croce

È già risuonata con la citazione di Luigi Foscolo Benedetto la decisiva parola “storia” (che Benedetto peraltro scrive con la iniziale maiuscola), ed è proprio questo il punto dell’autentico superamento (ma non si vuole qui dire: della rottura) della poetica binniana nei confronti di Croce.
Ascoltiamo ancora Garin nel saggio citato:
“Per questo il compito del critico non è affatto solo quello di cogliere il fiore della pura poesia isolandolo dalla pianta, ma di ritrovare anche la terra in cui la pianta affonda le radici, e tutti i succhi che l’alimentano.”
(Garin 2011: 13-14)
Garin, da grande storico della cultura, colloca la prima e decisiva opera binniana Poetica del decadentismo del ’35-’36 nel suo tempo; basti qui citare alcuni grandi titoli coevi: è del ’34 la prima edizione di Storia della tradizione e critica del testo di Pasquali; nel ’36 esce La poesia, di Benedetto Croce, che segna (nell’elaborata e faticosa distinzione fra poesia e letteratura) il manifestarsi evidente di incrinature e faglie all’interno di quello che era stato l’edificio compatto e trionfante dell’estetica crociana (e proprio nell’autunno del ’36, Binni, portato da Capitini e tramite Luigi Russo, conosce Croce all’albergo di Via Porta Rossa, dove Croce con la sua famiglia alloggiava quando veniva a Firenze); è del ’38 La nuova filologia e l’edizione dei nostri classici di Barbi; e infine esce nel ’39 Eretici italiani del Cinquecento di Delio Cantimori (che non c’entra con la letteratura ma certo c’entra, e molto, con la cultura italiana e il rinnovamento della nostra storiografia).
Si deve notare che nessuno di questi grandi libri, per i quali noi oggi ricordiamo ancora e usiamo ancora quello scorcio degli anni Trenta, è di impianto crociano. Ed è interessante notare che anche Luigi Russo fa riferimento a Barbi (da lui citato come “buona guida e disputatore stimolante”) e a Pasquali, due filologi ben distanti anche disciplinarmente da lui, ma che egli utilizzò per recuperare storicità e storia, e un proprio personale storicismo; come scrive ancora Garin (citando Russo):
“Di fatto Barbi con la nuova filologia, e Pasquali con la filologia classica collaboravano anch’essi a dare spessore a uno ‘storicismo’ capace di ricollocare la poesia, con i problemi della sua formazione e della sua trasmissione, ‘nei suoi nessi con tutta la storia e con tutta la vita storicamente e personalmente concretata, non trascendente e stellare e ‘pura’ di ogni ‘contaminazione’, senza genesi e senza sviluppo.’ (Garin 2011: 18)
Insomma la filologia classica e quella moderna, l’ecdotica e la nuova storiografia integrale che si profilava intese come vie di resistenza rispetto all’idealismo crociano; una resistenza prima e una fuga poi che si svolse battendo delle vie – si potrebbe dire – certamente più pratiche che teoriche: ma di che grandi e produttive e durature pratiche critiche si trattasse lo avrebbero dimostrato i decenni successivi!
Credo che noi dobbiamo leggere anche la poetica binniana come una di queste vie di resistenza e di fuga.
Garin definisce senz’altro quella di Binni:
“(…) una posizione radicalmente divergente da quella crociana: storicità sociale dell’opera d’arte, storicità del linguaggio e dello stile. ” (Garin 2011: 16; sottolineature nel testo, NdR).
In effetti Croce si accorge forse per primo di quanto esplosiva fosse la miccia che Binni aveva acceso all’interno del suo sistema. E nel gennaio del ’47 respinge in modo quasi sprezzante i lavori su Ariosto (cfr. Binni 1996) propostigli da Binni, che pure in quel tempo era suo collega nell’Assemblea Costituente, Croce scrive:
“Caro prof. Binni, [anche l’uso del ‘prof.’, se non mi inganno, serve qui a mantenere una distanza, NdR] ho avuto i saggi sull’Ariosto e mi permetterà per la molta esperienza correlativa ai miei molti anni di dirLe che io li lascerei per ora da parte; mi paiono impostati in modo alquanto incerto; per esempio, quello sulla Poetica, fondato su un concetto che me pare logicamente indifendibile di una poetica del singolo poeta. Ora la poetica nel mio senso originario era una teoria generale della poesia che si sciolse poi in una teoria generale dell’arte. La poetica del singolo poeta è la sua poesia stessa. (…)”
Poi Croce prosegue, con tono davvero professorale:
“L’introduzione nella storia della critica del Furioso è alquanto povera rispetto ai lavori precedenti sull’argomento, tra i quali, senza ricordare uno mio di circa cinquant’anni fa, vi ha (…) etc.” (Cit. in L.Binni 2011: 183)
Confesso che a chi ha conosciuto l’ossessiva completezza bibliografica di cui ha dato prova il Binni direttore della “Rassegna”, fa perfino un po’ sorridere il rimprovero di Croce di una sua insufficienza bibliografica, senza considerare che il Binni del 1947 non era già più il geniale giovane critico del ’35-’36, ma era uno studioso ormai maturo che si apprestava proprio in quei mesi a dare vita alla sua rivoluzionaria lettura di Leopardi.
Ma ciò che a noi più interessa, in sede storico-critica, è il fatto che in realtà si deve proprio allo stesso Binni un’attenuazione, che appare storicamente assai più circostanziata e fondata, di quella che a Garin apparve come “una posizione radicalmente divergente da quella crociana”.
In Poetica, critica e storia letteraria del 1963 (come è noto, l’opera sua forse più impegnata a teorizzare sistematicamente la propria attività di critico e di storico della letteratura) Binni chiarisce bene come l’epoca dell’egemonia di Croce non si configuri affatto come “un blocco unitario e massiccio” ma fin dall’inizio essa sia:
“percorsa da molteplici spinte anticrociane e non crociane in sede estetica e critica” (Binni 1993: 3).
Di più, anche nel campo crociano Binni sa vedere movimenti e fratture: ad esempio in Fubini, che Binni definisce: “uno spiraglio vivo su esigenze, che anche in campo più direttamente postcrociano, sono ormai attive al di là della più rigida ortodossia crociana”, e questo accade anche nello stesso Croce con l’articolazione fra letteratura e poesia (il citato volume La poesia, del 1936), che era da considerarsi (secondo Binni):
“il più avanzato sforzo di arricchimento e di articolazione del fatto espressivo (con accentuazione interessante del gusto come coscienza della poesia che si fa e vigila sul suo ‘farsi’, cfr. La poesia, Bari 1936, p.35) e attenuava la vecchia rigidezza del canone poesia-non poesia. Valga quest’esempio contro l’immagine assurda di un Croce ‘splendido isolato’ e invece capace pur di risposte autonome, ma non dissociabili da un suo rapporto con aspetti del tempo (…). Per combattere il Croce o ciò che lo distacca più da noi occorre però identificarne la vera, intera immagine e il ricco svolgimento storico-personale, intenderlo e giudicarlo storicamente. Meglio così si progredisce al di là della sua lezione che non con l’anticrocianesimo settario.” (Binni 1993: 29-30, nota 3).

4. La poetica (e le sue definizioni binniane)

Prendiamo ancora una volta (per l’ultima volta) le mosse dal saggio di Garin sulla poetica di Binni, anzi dalle sue parole conclusive:
“Attraverso la ‘poetica’ è venuta così maturando una più profonda interpretazione della realtà e della storia. è stata, quella della ‘poetica’ di Binni, una delle vie del ‘lungo viaggio’ della cultura italiana – e delle più feconde e significative.” (Garin 2011: 20)
Carpi (1983: 36) vede il metodo di Binni (e di Russo) come uno sforzo per “aggirare l’esclusivismo monografico e legittimare un più integrale e ‘impuro’ far storia della letteratura e della poesia”, restando invece sempre del tutto estranea a Binni (e anzi a lui invisa) l’altra via di aggiramento perseguita successivamente dalla critica letteraria, quella che tentò di esprimere giudizi di valore per vie di tecniche specifiche, cioè (per dirla con Carpi) “rendere il critico meno filosofo e più letterato”: è la via che dalla filologia e dalla critica stilistica conduce alla semiotica, insomma la via di Fubini e poi di Contini, e Segre e Corti e dei loro emuli e allievi.
Aggiramento dunque e non negazione di Croce, perché nel clima culturale del tempo una rinuncia troppo radicale dell’idea crociana di poesia appariva foriera di esiti solo sociologistici e di materialismo meccanicistico e – come si dice – volgare, “il pericolo del documentarismo” (per dirla con Binni, simmetrico al pericolo del formalismo ed altrettanto vitando). Ma direi anche (almeno nel caso di Binni) che un tale aggiramento del crocianesimo comportava anche una fuoruscita definitiva. Scrive in Poetica, critica e storia letteraria:
“…poiché come ovviamente non si può intendere un verso isolato dal suo contesto (gli equivoci decadenti sul verso della Stampa ‘vivere ardendo e non sentire il male’) e da un contesto inteso nel suo preciso significato entro le ragioni interne di tutto il poeta e del suo sviluppo, nelle prima forme del suo linguaggio e del particolare impegno creativo che lo motiva, così questi a lor volta non possono venir intesi senza la conoscenza e la comprensione del linguaggio dell’epoca e della tradizione che vi confluisce, delle direzioni di tensione poetica dell’epoca e, attraverso questa, di tutta la vita storica che in esse trova espressione estetica.” (Binni 1993: 7 e ss.)
“A questa tendenza storico-critica (la poetica, NdR), alla sua unitaria e centrale istanza di interpretazione e ricostruzione dei fatti artistici in tutta la loro connessa storicità peculiare, sollecitano e rimandano in diverso modo alcune delle tendenze attualmente più vivaci e vistose della critica: storicità sociale dell’opera d’arte [sembra un riferimento diretto al lavoro del critico lukacciano Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, NdR] storicità del linguaggio e dello stile” (ivi: 8)
“L’arte – scrive ancora Binni in Poetica critica e storia letteraria – è parte di storia, e interviene nella storia con una sua forza autonoma e non come illustrazione e documento, solo in quanto commuta forze ed esperienze vitali e storiche in tensione artistica e in opere artistiche.”
E ancora:
“nello studio di poetica come io l’intendo è implicita e comandata una tale disposizione di storicizzazione completa e non solo letteraria. Ma essa rimanda ad una esigenza storico-critica più profonda e complessa, che presuppone a sua volta una visione della storia riccamente problematica e dialettica anche nei rapporti fra le sue forze ed esperienze effettive.” [cit. Il Ponte 2011: 19]
Non sono queste le posizioni di un anti-crociano, ma neppure quelle di un post-crociano: sono le posizioni di chi, assunta interamente attraverso Russo la grande lezione dello storicismo idealistico crociano, ne ha però misurato nella diretta auscultazione dei testi e degli autori tutta la insostenibilità critica e storica, e tenta dunque una nuova sintesi con un concetto di storia dialettico e integrale forse debitore del marxismo e che, comunque, è ormai decisamente fuori dal crocianesimo.

5. La poetica come sintesi

Sintesi dunque, non mediazione (una categoria quest’ultima che fu sempre estranea a Binni, anche in virtù del suo temperamento e del suo ethos), e sintesi fra diversità, che tali restano, ma che tuttavia contengono in sé delle verità interne le quali appartengono tutte e solo a tali diversità, e poiché di ciascuna di tali verità non si può assolutamente fare a meno esse meritano dunque di essere dialetticamente recuperate nella nuova sintetica concezione.
Leggiamo la formulazione binniana di questa sintesi, che prende la forma della doppia negazione correlata, del “né…né…”:
“Una nozione [quella di poetica, NdR] che rifiuta l’equivoco iperuranio immobile di una poesia chiusa in se stessa, platonica, astorica, rifiuta (sia subito chiaro) l’annnegamento della poesia in una storia generale sociale, culturale, politica cui la presenza dell’arte sia un’aggiunta inessenziale o un ornamento puramente illustrativo o decorativo nel senso più corrente della parola. Né pezzo di cielo caduto sulla terra, né puro rispecchiamento della realtà già esistente e semplice “nuova edizione di valori già correnti in altri campi di esperienza” per dirla con il Dewey.
Né fuori della storia, né dopo la storia, ma viva e valida dentro la storia di cui concretamente fa parte (…)” (Binni 1993:19)
La poetica come grande sforzo di sintesi fra la concezione crociana e la concezione dialettica della storia, e questo sembra a me corrispondere perfettamente all’atteggiamento di sintesi fra le diversità tentato sempre da Binni anche in politica, fra liberalismo e socialismo, e non solo, ma anche – ad esempio – fra antifascismo e nonviolenza, fra rivoluzione e democrazia, e così via.
Piuttosto che liberal-socialista io preferirei dire – pensando anche a Capitini, colui che mi sembra il suo unico e vero e costante riferimento politico – e oserei ormai dire semmai liberal-comunista, non solo per rispetto alla sua ultima tessera di partito e alla sua proposta del 1976 di un gruppo di “liberi comunisti” (tentato con Natoli, Cassola, Aristarco, Pratolini e Lelio Basso) ma soprattutto per abbandonare una categoria così logora e – tirata da tutte le parti come è – davvero insopportabilmente consunta e ambigua, come quella di “liberal-socialista”.
E se può spiacere il riferimento troppo diretto al nome di un partito, per il sempre isolato Binni, allora si ricorra almeno alla definizione di “liberal-proletario” che Russo (aderendo nel ’48 al Fronte Popolare) scelse per sé al fine di distinguersi, come egli stesso disse, dai “liberal-proprietari”. Nella lettera a Benedetto Croce del 7 luglio 1948 (a rispondere definitivamente all’aspro, e invero ingiusto, rimprovero di opportunismo rivoltogli da Croce per aver accettato la candidatura nelle liste del Fronte Popolare), Russo scrive:
“Non dovete dimenticare che io discendo da famiglia popolana e ‘vassalla’ e però il sangue non è acqua.”
Forzatura polemica e quasi poetica, certo, questa del sangue popolano (una forzatura, direi, molto “russiana”, nella sostituzione del rigore argomentativo con una persuasiva metafora appassionata), e tanto più sarebbe una forzatura per il borghese Binni, il quale definisce genealogicamente se stesso, come
“di origini in parte aristocratiche (3 quarti), in parte (1 quarto) borghesi-terriere (e forse all’indietro contadine)” (L. Binni 2013: 15),
E permettetemi il ricordo personale della sorniona e affettuosa ironia con cui Ignazio Baldelli ricordava le proprie povere origini contadine (da cui il suo rivendicato essere naturaliter cattolico e democristiano) mentre, a suo dire, il professor Binni, proprio in quanto borghese e figlio di proprietari, era altrettanto naturaliter laico e socialista.
E tuttavia, ben al di là del “sangue” rivendicato da Russo, io credo che quello che anche Binni cercò sempre a sinistra erano in effetti due cose: il classismo (cioè l’esigenza di un rapporto diretto e vitale con il popolo nella sua forma moderna, cioè il proletariato organizzato) e la rivoluzione (cioè l’intransigenza etico-politica e il ragionato rifiuto dello stato di cose presente), due cose che da molto tempo si sono staccate del tutto dal concetto di liberal-socialista.
Molto significativa a questo riguardo la mancata adesione di Binni al Partito d’Azione (che pure sarebbe sembrato la sua destinazione naturale) e la scelta di iscriversi invece al PSI, da lui inteso come Partito di massa, e proletario, nonostante i radicali dissensi – che si sarebbero presto manifestati – con il personale politico che dirigeva quale Partito.

6. Il superamento di Croce

In Binni resta sempre ferma, a me sembra, la preminenza del momento critico in atto rispetto a quello meramente definitorio, metodologico e teorico: “non una nuova estetica, ma un nuovo modo di leggere” (come si legge nell’intelligente risvolto di copertina dell’edizione Le Lettere del ’93 della sua Poetica, critica e storia letteraria, che non so a chi si debba: forse allo stesso Binni?).
Peraltro anche in questo libro (come si è detto, il testo suo forse più teorico), Binni torna continuamente ai testi e alla loro lettura: prima a Foscolo, poi a Goldoni e Molière, e poi ai poeti trecenteschi dell’amatissima sua Perugia, e al petrarchismo cinquecentesco, e ad Alfieri, e Metastasio e Parini, e a Carducci e D’Annunzio e a Montale, e ancora e sempre a Leopardi; a rileggere oggi quel grande libro, sembra quasi che Binni cerchi, appena può, di sfuggire dal discorso teorico-metodologico in quanto tale e di tornare ai suoi testi. E i testi servono a Binni non solo per esemplificare la sua teoria ma, ben più radicalmente, per far vivere il proprio discorso critico, e insomma anche qui egli si conferma essenzialmente critico e storico, e non teorico o metodologo, della letteratura, ed è sempre la poesia ciò che costantemente e soltanto gli sta a cuore.
D’altronde si può dire che supera il crocianesimo assai di più, assai più radicalmente e assai più durevolmente, il Binni che con la storia del decadentismo rovescia la lettura crociana della crisi borghese, nei suoi nessi con la coeva crisi della borghesia europea, o che con La nuova poetica leopardiana del magico suo 1947 rovescia (e direi: definitivamente distrugge) la lettura crociana di Leopardi che non una qualsivoglia smentita teorica dell’Estetica di Benedetto Croce.
Semmai resterebbe da compiere il passo successivo, che Binni non vuole e forse non sa compiere, cioè risalire dall’errore critico-letterario di Croce all’errore storico-politico che lo determina, e questo errore è l’apologia crociana delle “magnifiche sorti e progressive” del liberalismo borghese (un’apologia invero contra rem, vedendo la storia italiana) e la negazione ostinata dei reali termini della crisi della classe borghese in Italia; Croce resta fedele a questa sua opzione politica-ideologica anche se essa lo costringe a non capire nulla della verità e dei limiti del Risorgimento (e dunque di Leopardi) o della crisi europea di inizio secolo (e dunque del decadentismo); e analogo discorso si potrebbe naturalmente fare anche per la riscoperta binniana dell’Ariosto satirico, ben diverso da quello felicemente “armonioso”, emblema del Rinascimento di Croce, e così via.
Ogni vera acquisizione critica invece, attraverso la produttiva categoria di “poetica”, comporta e consente un nesso illuminante con la storia vera, quella agìta collettivamente da tutti gli umani, senza eccezione,

“Negli alterni perigli
e nelle angosce della guerra comune” (Leopardi, La ginestra).



1 Cit. in L.Binni 2011, p. 5.
2 Ibidem.
3 Garin 2011.
4 Costituisce un prezioso repertorio della filologia italiana del Novecento, e non solo di ricordi personali: Feo 2012.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Binni 1993 = Walter Binni, Poetica, critica e storia letteraria (1963) ora in Id., Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, pp. 1-85.

Binni 1996 = Walter Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto e altri studi ariosteschi, a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, Firenze, la Nuova Italia.

Binni 1999 = Walter Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche, a cura di Francesco e Lanfranco Binni, introduzione di Giulio Ferroni, Firenze, Sansoni.

Binni 2009 = Walter Binni, L’ultimo periodo della lirica leopardiana, a cura di Chiara Biagioli, Perugia, Morlacchi.

L.Binni 2011 = Lanfranco Binni, Questo speciale, in «Il Ponte» 2011, pp. 5-7.

L.Binni 2013 = Lanfranco Binni, La protesta di Walter Binni. Una biografia, Firenze, Il Ponte Editore.

Carpi 1983 = Umberto Carpi, La critica storicistica, in AA. VV. , Sette modi di fare critica, a cura di Ottavio Cecchi e Enrico Ghidetti, Roma, Editori Riuniti, pp. 13-61.

Feo 2012 = Michele Feo, Persone, 2 voll., Pontedera, Il Grandevetro.

Garin 2011 = Eugenio Garin, Alle origini della nozione di poetica, in AA.VV., Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di Mario Costanzo, Enrico Ghidetti, Gennaro Savarese, Claudio Varese, Roma, Bonacci, 1985 (ora in Il Ponte 2011, pp. 9-20).

Il Ponte 2011 = «Il Ponte», a.LXVII, nn.7-8 (luglio agosto 2011), Walter Binni 1913-1997, 2 voll., a cura di Lanfranco Binni (nel secondo vol.: Walter Binni. Bibliografia generale (1930-2011) , a cura di Chiara Biagioli).