Salvatore Lo Leggio, Il Novecento di Walter Binni («Il Ponte», luglio 2015). L’articolo è stato anticipato, in forma più ridotta, sul periodico umbro «micropolis», aprile 2015.


Al tempo del nostro apprendistato letterario era ancora in auge la distinzione tra la critica accademica, che si sviluppava nelle ricerche e nelle aule delle Università, e la critica militante, quella delle terze pagine dei giornali (non era ancora in uso dedicare alla cultura una intera sezione del quotidiano o il paginone centrale). La distinzione diveniva a volte contrapposizione corporativa: i “militanti” mettevano sotto accusa per la loro spocchia gli “accademici”, i quali a loro volta rinfacciavano agli avversari un inguaribile dilettantismo.
Walter Binni era per mestiere “accademico”, ma non rientrava nella cerchia dei fanatici dell'“alta cultura” e, di quando in quando, utilizzava quotidiani e periodici d'attualità per comunicare aspetti significativi della propria ricerca. Di più: egli era un critico “diversamente militante”, poiché la serietà della ricerca, la completezza e la qualità della documentazione, il rigore dell'argomentazione, la stessa collocazione professionale nel mondo universitario non gli impedivano affatto di impegnarsi in un giudizio di valore netto, senza “forse” e “nonostante”, senza “qui lo dico e qui lo nego”, giudizio letterario in primo luogo, ma all'occorrenza etico e politico.
Binni, peraltro, non era affatto disinteressato alla letteratura contemporanea, il terreno più congeniale alla “critica militante”, spesso impegnata nella recensione e valutazione di libri nuovi: il saggio che lo aveva imposto come una delle più acute e originali presenze della nuova critica letteraria italiana, La poetica del decadentismo, del 1936, era dedicato ad autori novecenteschi, alcuni dei quali ancora in attività.
L'importanza storica di quel libro non riguarda solo la nozione di “poetica”, quasi un'invenzione di Binni che si rivelerà strumento di indagine critica dalle enormi potenzialità, o la nozione di “decadentismo” appropriatamente trasferita dal contesto francese all'Italia, per significare una temperie, un gusto, una sensibilità che s'estendono dal finire dell'Ottocento ai primi due decenni del secolo nuovo, ma la costruzione di una linea di sviluppo che segna profondamente la storiografia del Primo Novecento letterario italiano: i fermenti della Scapigliatura, D'Annunzio e l'estetismo, Pascoli e la poetica del “fanciullino”, la specularità tra crepuscolari e futuristi. La freschissima riedizione di quel saggio (giovanile e maturo) come sesto volume delle Opere complete che Il Ponte Editore va pubblicando in simbiosi con il Fondo Walter Binni fornisce motivi di meditazione: il fatto che quella linea interpretativa, che quella sistemazione periodizzante, pur meritando approfondimenti e correttivi, regga tuttavia alla distanza di un secolo, conferma il ruolo di primissimo piano dell'italianista perugino nella critica novecentesca.
Con quel libro presenta più di una relazione il quarto dei volumi delle Opere complete, gli Scritti novecenteschi (1934 – 1981), usciti sul finire del 2014. Esso comprende testi generalmente apparsi su riviste, brevi saggi, articoli, recensioni su poeti, scrittori e critici attivi nel secolo scorso, tra il 1934 e il 1951. Dal 1953, anno nel quale inizia le sue pubblicazioni la “Rassegna della letteratura italiana” diretta da Binni, l'intervento su opere recenti di letteratura o di critica è affidato ai collaboratori responsabili della sezione sul Novecento e le incursioni novecentiste dell'italianista perugino cessano, ma proprio per questo acquistano rilievo i due autori cui dedica il proprio impegno critico, Eugenio Montale e Aldo Capitini, i “suoi” poeti del Novecento.
Alcuni testi degli Scritti novecenteschi, in dialogo spesso pugnace, talora ironico, sempre fecondo, con nuovi interventi e apporti critici, approfondiscono i temi già affrontati da Binni nel volume sul decadentismo. Eccellenti, per esempio, mi paiono le pagine del 1941 sul Gozzano, di cui già nel volume sul decadentismo si erano sottolineati il “sentimento diretto”, non mediato, e la capacità di scelta che lo distinguono dagli altri crepuscolari e gli permettono di realizzare compiutamente il “superamento del dannunzianesimo e del pascolismo”. Qui giustamente Binni valorizza la potenza costruttiva del Gozzano soprattutto nei due poemetti che considera più ricchi di poesia, la Signorina Felicita e Le due strade, e riprende, con una punta di orgoglio, la tesi che più lo differenziava dal crocianesimo ortodosso: la “complessa poetica” che presiede a quelle prove gozzaniane, il “calcolo nella scelta del materiale poetico” per il critico perugino non è mera struttura e men che mai ostacolo alla poesia, ma base di essa.
Alcuni altri scritti affrontano un altro passaggio chiave della letteratura protonovecentesca: le riviste di letteratura e cultura, con una attenzione speciale a “La Critica” del Croce, di cui si valorizza una vocazione dialogica, capace di andare oltre lo sterile formulismo e di stimolare anche i non ortodossi e i dissidenti, e a “La Voce”, all'interno della quale Binni opera una distinzione netta, tra le voci più alte, Jahier, Boine, Slataper, e il “praticone” Prezzolini (per non parlare di Papini).
Del Prezzolini, che come lui era nato a Perugia, anche se esibiva un fiorentinismo esagerato, Binni salvava la curiosità intellettuale del periodo vociano, del tempo in cui lo scrittore, emancipatosi dal deleterio fascino del Papini, riusciva ad esprimersi in uno stile brioso, che faceva da pendant al suo attivismo organizzativo ( “più arruolatore che critico” ).
Di grande qualità è la recensione della Storia della letteratura italiana di Giovanni Papini. Lo scrittore fiorentino (probabile inventore della formula sulla “guerra sola igiene del mondo”), dopo avere superficialmente attraversato tutti gli irrazionalismi di inizio secolo, era arrivato a un peculiare clerico-fascismo. Letto oggi fa ridere quasi quanto Mussolini quando lo si vede nei cinegiornali Luce a comiziare con le mani ai fianchi: la prosa papiniana, piena di trovate, figure, scoppiettii, da epigono di D'Annunzio, appare a noi stucchevole e vuota, ma fu efficace strumento corruttivo per l'intellettualità piccolo-borghese del ventennio. Della Storia uscì (1937) solo il primo volume, che si fermava al Trecento; era dedicata “a Benito Mussolini, amico della poesia e dei poeti” e pretendeva di descrivere e illustrare “una delle più vaste province dell'impero spirituale italiano”. Papini, nella sua fase “teppistica”, prima della Grande Guerra, era stato l'inventore della “stroncatura” e di Stroncature nel 1916 aveva persino pubblicato un volume, non limitandosi a libri recenti, ma pretendendo di demolire – tra gli altri – nientemeno che Shakespeare. La recensione di Binni è a sua volta una stroncatura (“chi di spada ferisce ...”) ma, con la puntualità dei riferimenti e il peso dei ragionamenti, rovescia il metodo papiniano: al “non mi piace, ergo non vale niente” sostituisce il “non vale niente, ergo non mi piace”. La chiusa, a bassa voce, è pungente: “Bisognerebbe dire, senza astio e senza amore, che questa Storia non ci prospetta alcun problema e non arricchisce la nostra sensibilità, non ci fornisce né un punto di vista originale né una pagina d'arte”.
La grandezza di Binni, in questi Scritti novecenteschi, si rivela soprattutto nel riconoscere e nel portare alla luce la grande poesia, la grande arte. C'è per esempio una nota gaddiana (del 1946), sull'Adalgisa, in cui allo scrittore lombardo si riconosce un valore assoluto assai prima che in Italia scoppi un “caso Gadda”; e ce n'è un'altra sul Canzoniere di Umberto Saba, del quale cui si illustra la maturazione letteraria: il poeta triestino, pur fedele all'originaria “brama”, riesce a produrre “impasti affascinanti di canzonetta e di nuovo ritmo più perentorio e assorto”.
A parte vanno considerati i due saggi che caratterizzano l'ultima parte del volume, l'Omaggio a Montale e Aldo Capitini e il “Colloquio Corale”, entrambi del 1966. Montale e Capitini sono di certo i poeti del Novecento più cari al Binni, quelli nei quali meglio avverte la lezione dell'amatissimo Leopardi, seppure sviluppata in direzioni diverse. Di Montale Binni, utilizzando come documento di poetica soprattutto l'Autodafè, nega il “disimpegno” e valorizza, anzi, la drammatica coscienza storica, la dignità che da essa nasce. Di Capitini rovescia l'immagine che lo vorrebbe primariamente pensatore, educatore e uomo politico e solo secondariamente poeta. Per Walter Binni è nella poesia del Colloquio corale la sintesi e il vertice del messaggio dell'intellettuale che gli era stato maestro e compagno di lotta. Anche, nella lettura binniana, Capitini parte da Leopardi, “dalla consapevolezza acutissima ... della ostilità della realtà naturale” e dalla “tragica coscienza del limite intollerabile della morte”, ma da “contestatore e rivoluzionario non violento” ritiene proprio dovere battersi per una trasformazione della stessa realtà naturale convinto che “un diverso modo di concezione e di azione da parte dell'uomo, la persuasa attenzione di un diverso comportamento di amore, di nonviolenza, di nonmenzogna, di apertura assoluta … porterà anche la realtà ad aprirsi, a liberarsi dei propri storici e attuali limiti”.