GLI SCRITTI POLITICI DI WALTER BINNI

“I ministri democristiani non giunsero a sancire legalmente il principio da noi escluso dalla Costituzione [il finanziamento alle scuole private]; tanto più amaramente colpisce il fatto che tale operazione, piena di conseguenze gravissime per la scuola di Stato e per la formazione scolastica dei giovani italiani, venga ora impostata e difesa da un ministro laico e socialdemocratico”. Così nel 1957 scrive contro un ragguardevole ministro della Pubblica Istruzione, Paolo Rossi, un padre costituente come Walter Binni, passato dalla politica militante alla cattedra universitaria, prima a Genova, ora a Firenze, poi a Roma. Inutile sottolineare l’attualità (e la ciclicità) della questione che allora vide vincente la dignità e lo spicco di quella scuola di Stato, che oggi pare così avvilita e messa alle strette da una protervia affaristica.
L’intervento di Binni si legge nella raccolta degli scritti politici, raccolti amorosamente dal figlio Lanfranco, cui si deve un ampio saggio introduttivo che traccia il profilo civile del padre, nel contesto delle vicende italiane dagli anni Trenta agli anni Novanta, con una ricca documentazione di altri articoli e lettere – per lo più inedite – cavate dal Fondo Binni dell’Archivio di Stato di Perugia. Tra queste merita cenno una lettera a Bobbio, di dissenso con la tesi della ‘guerra giusta’ e di appello quanto mai accorato sulle sorti della democrazia alla vigilia di tangentopoli: “Io sono più vecchio della mia età e da tempo emarginato e privo di udienza giornalistica[…]. Ma tu hai ben altra possibilità pubbliche: poiché penso proprio che tu non possa non condividere le preoccupazioni di quanti vedono in gran pericolo le sorti della libertà e della democrazia nel nostro paese”. E la lettera di poco successiva a Luigi Pintor, così di nuovo attuale con quel monito all’indignazione: “Tu continua a far esplodere il tuo sacrosanto sdegno (‘sdegnatevi e non peccherete’ secondo un passo biblico) esprimendolo in forme sarcastiche così originali!”
La maggior parte degli interventi politici risale agli anni Quaranta, ma è significativo il primo intervento sul Nazismo, del 1934: c’è ancora attendismo e curiosità, ma già preciso è l’inquadramento storico in una tradizione deteriore, opposta alla grande cultura romantica tedesca ed è già ben netto il rifiuto del barbarico (“un tuffo nella barbarie non è certo il migliore contributo che si possa portare alla civiltà europea”) e della “ripugnante croce uncinata”.
Binni fu un liberalsocialista, legato strettamente al pacifismo di Aldo Capitini, perugino come lui, ricorrente molte volte in queste pagine, anche con lampi autobiografici: ad esempio la comune lettura di Montale con il contraccolpo di una comune etica “di tentare di spezzare, di aprire quella limitatezza, di trasformare la realtà”.
Anche gli scritti più recenti (degli anni Ottanta e Novanta) meritano attenzione proprio per la capacità di rabbia e indignazione del vecchio Binni: penso in particolare al ritratto di Ferruccio Parri (edito postumo nel 2007) con quella “faccia onesta, severa, profondamente alternativa di un paese per tanti aspetti e per tante parti disonesto ed ignobile” o ad alcune battute in interviste, come quella del ’95, a Maria Serena Palieri, sempre sulla decadenza civile: “E’ una marmaglia che è riemersa con forza, come un averno che affiora sulla terra, per dirla con Leopardi”. Il rinvio è a un verso dell’Inno ai Patriarchi “e violento / Emerse il disperato Erebo in terra” ed ho ben fitto nella memoria il timbro della sua voce, dolce e mesta, quando lo pronunciava negli ultimi scambi telefonici. Sono passati quindici anni e quel verso leopardiano e binniano a un tempo è sempre più vero ed attuale. (S.V.)