Carlo Michelstaedter, I figli del mare (1910) Una lettura della prima giovinezza, negli anni del liceo, rimasta sempre presente nel percorso esistenziale e critico, e riemersa con insistenza negli ultimi anni della vita. Dalla pace del mare lontano dalle verdi trasparenze dell’onde dalle lucenti grotte profonde dal silenzio senza richiami – Itti e Senia dal regno del mare sul suolo triste sotto il sole avaro Itti e Senia si risvegliaro dei mortali a vivere la morte. Fra le grigie lagune palustri al vario trasmutar senza riposo al faticare sordo ansioso per le umide vie ritorte alle mille voci d’affanno ai mille fantasmi di gioia alla sete alla fame allo spavento all’inconfessato tormento – alla cura che pensa il domani che all’ieri aggrappa le mani che ognor paventa il presente più forte al vano terrore della morte fra i mortali ricurvi alla terra Itti e Senia i principi del mare sul suolo triste sotto il sole avaro Itti e Senia si risvegliaro. – Ebbero padre ed ebbero madre e fratelli ed amici e parenti e conobbero i dolci sentimenti la pietà e gli affetti e il pudore e conobbero le parole che conviene venerare Itti e Senia i figli del mare e credettero d’amare. E lontani dal loro mare sotto il pallido sole avaro per il dovere facile ed amaro impararono a camminare. Impararono a camminare per le vie che la siepe rinserra e stretti alle bisogna della terra si curvarono a faticare. Sulle pallide facce il timore delle piccole cose umane e le tante speranze vane e l’ansia che stringe il core. Ma nel fondo dell’occhio nero pur viveva il lontano dolore e parlava la voce del mistero per l’ignoto lontano amore. E una sera alla sponda sonante quando il sole calava nel mare e gli uomini cercavano riposo al lor ozio laborioso Itti e Senia alla sponda del mare l’anima solitaria al suono dell’onde per le sue corde più profonde intendevano vibrare. E la vasta voce del mare al loro cuore soffocato lontane suscitava ignote voci, altra patria altra casa un altro altare un’altra pace nel lontano mare. Si sentirono soli ed estrani nelle tristi dimore dell’uomo si sentirono più lontani fra le cose più dolci e care. E bevendo lo sguardo oscuro l’uno all’altra dall’occhio nero videro la fiamma del mistero per doppia face battere più forte. Senia disse: "Vorrei morire" e mirava l’ultimo sole. Itti tacque, che dalla morte nuova vita vedeva salire. E scorrendo l’occhio lontano sulle sponde che serrano il mare sulle case tristi ammucchiate dalle trepide cure avare "Questo è morte, Senia" – egli disse – "questa triste nebbia oscura dove geme la torbida luce dell’angoscia, della paura;. Altra voce dal profondo ho sentito risonare altra luce e più giocondo ho veduto un altro mare. Vedo il mar senza confini senza sponde faticate vedo l’onde illuminate che carena non varcò. Vedo il sole che non cala lento e stanco a sera in mare ma la luce sfolgorare vedo sopra il vasto mar. Senia, il porto non è la terra dove a ogni brivido del mare corre pavido a riparare la stanca vita il pescator. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò". Così disse nell’ora del vespro Itti a Senia con voce lontana; dalla torre batteva la campana del domestico focolare: "Ritornate alle case tranquille alla pace del tetto sicuro, che cercate un cammino più duro? che volete dal perfido mare? Passa la gioia, passa il dolore, accettate la vostra sorte, ogni cosa che vive muore e nessuna cosa vince la morte. Ritornate alla via consueta e godete di ciò che v’è dato: non v’è un fine, non v’è una meta per chi è preda del passato. Ritornate al noto giaciglio alle dolci e care cose ritornate alle mani amorose allo sguardo che trema per voi a coloro che il primo passo vi mossero e il primo accento, che vi diedero il nutrimento che vi crebbe le membra e il cor. Adattatevi, ritornate, siate utili a chi vi ama e spegnete l’infausta brama che vi trae dal retto sentier. Passa la gioia, passa il dolore, accettate la vostra sorte, ogni cosa che vive muore nessuna forza vince la morte". Soffocata nell’onda sonora con l’anima gonfia di pianto ascoltava l’eco del canto nell’oscurità del cor, e con l’occhio all’orizzonte dove il ciel si fondeva col mare si sentiva vacillare Senia, e disse: "Vorrei morire". Ma più forte sullo scoglio l’onda lontana s’infranse e nel fondo una nota pianse pei perduti figli del mare. "No, la morte non è abbandono" disse Itti con voce più forte "ma è il coraggio della morte onde la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il coraggio di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare nella cura dell’avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care. Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t’affidi senza timore ben più forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò". |