Roma, 23 gennaio 1990. Il funerale di Giorgio Caproni


"Italia ingrata dimentichi i tuoi poeti"

Articolo non firmato, "l'Unità", 24 gennaio 1990, sul funerale di Giorgio Caproni.

ROMA. I poeti, si sa, non amano i "potenti", e questi ultimi li ripagano della stessa moneta. Ieri a Roma, ai funerali di Giorgio Caproni, uno fra i più grandi poeti italiani non era presente neppure il più modesto fra i rappresentanti del governo e dell'Italia per così dire "ufficiali". Caproni non se non se ne sarebbe avuto a male: schivo e solitario in vita, anche in morte è rimasto coerente al suo stile scabro e austero. Ma l'assenza totale di "potenti", solleciti invece ad ogni benché minima apparizione spettacolare, è in sé medesima assai eloquente.
Nella chiesa di Santa Maria Madre della Provvidenza, a Roma, ove Caproni abitava da moltissimi anni, accanto ai figli Silvana e Mauro, c'era solo un gruppo di amici, estimatori, ex scolari del maestro elementare, quale il poeta era restato fino a tutti gli anni Cinquanta. Tra gli altri Walter Binni, Guglielmo Petroni, i poeti Elio Filippo Accrocca, Rossana Ombres, Bianca Maria Frabotta, Valerio Magrelli. Un breve rito funebre è stato officiato da un sacerdote, lontano parente del defunto, che ha voluto ricordare come Caproni fosse dotato di una grande cultura religiosa e spesso amasse discutere anche delle prediche che ascoltava.
L'assenza di esponenti ufficiali del governo e delle istituzioni è stata duramente stigmatizzata sia da Petroni, presidente del sindacato scrittori ("Se la cultura non fa anche spettacolo viene emarginata"), sia dal professor Walter Binni. Quest'ultimo ha commentato che "il fatto non è certo unico ma clamorosissimo" ed "è solo una conferma che chi lavora seriamente per l'arte e la cultura viene escluso dal cerchio".


Andrea Barbato: "Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti."

"Cartolina" di Andrea Barbato, trasmessa da RAI 3, 24 gennaio 1990, ore 20,25. Il testo della "cartolina" è stato inviato da Barbato a Walter Binni l'8 aprile 1991 con un biglietto di accompagnamento: "Gentile professor Binni, Le invio il testo di quella remota 'cartolina' che trasmisi in omaggio a Caproni (e un po' di sdegno al Potere). La ringrazio per la Sua attenzione. Con molta stima, Andrea Barbato". La cartolina era indirizzata al sacerdote che aveva officiato il rito funebre.

Caro don China,
ieri, nella sua parrocchia romana del quartiere Montesacro, Santa Maria madre della Provvidenza, ci sono stati i funerali di un poeta, Giorgio Caproni. Era un grande poeta, fra i maggiori del Novecento italiano. Così grande, che lei, don Pietro, ha pensato e temuto per un po' che la sua chiesa fosse troppo piccola per accogliere l'omaggio della prevedibile folla. Intorno alla bara di Caproni, c'erano Binni e Petroni, Accrocca e Ombres, Frabotta e Magrelli. Poeti e letterati come lui. C'era il sindaco di Roma Signorello. C'erano i familiari, naturalmente, qualche amico, qualche ex scolaro. Già, perché Caproni è sempre stato un maestro elementare, oltre che un poeta. Solo poche file di banchi si sono riempite, la parrocchia della Provvidenza è rimasta quasi vuota. Caproni aveva un carattere schivo, viveva appartato, e non si sarebbe rammaricato di quella solitudine. Un rito rapido, un amaro commento del professor Walter Binni sulle assenze del mondo ufficiale, poi tutto è finito. O meglio, tutto comincia ora. Perché un poeta vero - e Caproni lo era - malgrado le assenze oltraggiose, sopravvive. Il fatto che quella chiesa di Montesacro fosse semivuota è solo una minuscola notizia, in una giornata affollata di fatti, di votazioni, di polemiche, di riunioni politiche. La cronaca rimane indifferente.
Eppure, l'assenza di tutti è scandalosa. Dovrebbe far riflettere sul groviglio, sulla confusione di valori che abbiamo creato intorno a noi. Se non c'è lo spettacolo, ha detto Binni, si viene emarginati. La cultura seria non ha cittadinanza, non ha nemmeno onoranze funebri. Non si sa riconoscere neppure dopo la morte chi ha veramente onorato la sua terra. "La poesia di Caproni ha dato un senso alla nostra vita", aveva scritto Geno Pampaloni. Giusto: ma chi se ne è reso conto? Che l'Italia sia immemore e ingrata con i suoi poeti, lo studiamo nelle storie del liceo. Ed è anche vero che "carmina non dant panem" e che "chi vive di penna vive di pena". Certo, per un poeta appassionato, ironico, raziocinante come Caproni, è già stato difficile vivere. Ma, a quanto pare, è anche difficile morire.
Ho sotto gli occhi la cerimonia del funerale di Mariano Rumor. Lo stato italiano, praticamente al completo, era inginocchiato nel duomo di Vicenza. Corone, stendardi, corazzieri in alta uniforme. Il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il presidente del Senato, quasi tutti i ministri, le massime autorità dello Stato. Un omaggio funebre certamente dovuto all'uomo che è stato per cinque volte alla guida di un governo. Ma quelle solennissime immagini della diretta televisiva da Vicenza, facevano pensare ancor di più, con un'associazione forse impropria, alla sua chiesetta vuota di Montesacro, don Pietro. La morte, lo sapevamo, non è uguale per tutti.
Possibile, insomma, che non si sia trovato un sottosegretario, un viceprefetto, un funzionario della Camera o del Senato, che rappresentasse lo Stato nell'addio funebre a Giorgio Caproni? Eppure, i versi di questo poeta livornese saranno ancora letti, amati, studiati, stampati, quando il potere attuale sarà ridotto in polvere, e dimenticati gli uomini che lo detengono. Possibile che, al di fuori di quella pattuglia di amici e poeti, la grande schiera degli intellettuali italiani, quelli che si affollano a discutere sul nome del Pci ma anche sulla lana caprina, la gente delle giurie e dei premi, la mondanità culturale dei salotti e dei ninfei… possibile che nessuno abbia sentito l'obbligo di salutare Giorgio Caproni? Davvero conta solo il potere, la macchina spettacolare della politica, il modello del successo?
Era già accaduto. Ricordiamo, come unico esempio fra tanti, lo scandalo di quel funerale dell'87 a Montecarlo di Lucca, quando dietro al feretro di Carlo Cassola (che aveva arricchito con i suoi scritti editori e produttori cinematografici), c'era solo Mario Capanna. Caproni ha vissuto una vita senza potere, senza aneddoti. Aveva suonato il violino, fatto la Resistenza in Val Trebbia, insegnato ai bambini delle elementari. La sua poesia è stata definita un controcanto ironico, una straordinaria prova stilistica, la testimonianza di un laico appassionato. L'estate scorsa era venuto qui in uno studio della Rai, a ricordare il ventennio della Luna, che gli aveva ispirato dei versi. Certamente, non avrebbe voluto alcuna cerimonia solenne: ma la vergogna dello Stato assente non è meno bruciante per questo. "Sono giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento", scriveva Caproni. Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti. Un saluto da Andrea Barbato.