"Le giornate romane" (1966)

Nell’articolo, pubblicato sul numero di maggio della rivista fiorentina "Il Ponte", Binni ricostruisce il contesto degli avvenimenti di aprile, iniziati con la morte di Paolo Rossi e conclusi con le dimissioni del rettore dell’Università. Una ferma denuncia delle responsabilità, una serrata riflessione sui compiti degli intellettuali.
 
Le drammatiche giornate dell’Università di Roma, iniziate con la tragica morte di Paolo Rossi e concluse con le dimissioni del rettore romano, con la volontaria cessazione dell’occupazione delle facoltà da parte delle forze universitarie antifasciste, con il lungo e acceso dibattito parlamentare e l’ordine del giorno della maggioranza governativa, costituiscono insieme una vicenda di eccezionale importanza nella storia dell’università romana ed italiana e un importante test di reazioni, valutazioni e atteggiamenti della stampa, dei partiti, dell’opinione pubblica, degli stessi protagonisti della vita universitaria romana e italiana.
Mentre si preparano, da parte dell’Interfacoltà romana, piú approfondite documentazioni sia sulla base della prima parte del "Libro bianco", riprodotto in questo numero del "Ponte", sia in ordine all’amministrazione dell’Università di Roma, sia in forma di ricerche sulla composizione studentesca, sulla sistemazione urbanistica, sui rapporti fra la città universitaria e la città di Roma (alcune di queste ricerche saranno affidate a neolaureati che fruiranno di borse istituite alla memoria di Paolo Rossi), si possono raccogliere alcune considerazioni relative ad alcuni aspetti della vicenda e della sua ricordata qualità di test.
Credo anzitutto doveroso e non inutile ricordare ancora una volta come la spiegazione piú superficiale di questa gravissima vicenda sia quella che la fa risalire ad uno stato di disordine "goliardico" su cui si sarebbero innestate artificiosamente lotte di opposte organizzazioni studentesche e l’impiego di opposte violenze di fazioni estremistiche.
La verità è che sulla base di una generale condizione anormale della vita universitaria italiana, macroscopicamente ingigantita nell’Università di Roma (mancanza di strutture democratiche, ad ogni livello, insufficienza degli ordinamenti degli studi, contrasto tra professori insegnanti e professori impegnati in tutt’altre attività professionali, sproporzione fra il numero degli studenti e quello dei docenti, inesistenza di un vero diritto allo studio ed effettiva discriminazione classista ed economica dell’accesso all’università), si sono aggiunte nel caso dell’Università romana alcune cause precise che hanno ulteriormente aggravato la generale situazione universitaria: la presenza di squadre teppistiche antidemocratiche e di una massa cospicua di studenti neofascisti e qualunquisti, il comportamento passivo degli organi di polizia, oreposti alla tutela dell’ordine costituzionale e legale nella città universitaria, il modo di governo dell’Università da parte di un rettore in carica da molti anni.
Io che venivo a Roma dopo circa vent’anni di insegnamento nelle Università di Genova e di Firenze, e che già avevo potuto in quegli atenei verificare i difetti di fondo dell’università italiana (per quel che riguarda Firenze e l’agitazione del 1961 rimando al mio relativo articolo sul numero del "Ponte" del maggio di quell’anno), provai un’impressione profondamente penosa al mio arrivo, nel 1964, di fronte ad una situazione mal immaginabile in base alle sole notizie e voci che giungevano da Roma in altre città.
Tutto ciò che lo stralcio del "Libro bianco" documenta non è che una parte di quanto hanno verificato da tempo coloro che lavorano nell’università di Roma: anzi un ulteriore materiale di fatti criminosi non è stato potuto raccogliere proprio perché l’intimidazione e lo stato di terrore erano tali che molti studenti e studentesse vittime di soprusi, di aggressioni, di insulti, hanno preferito tacere o non sottoscrivere denunce per non aggravare la loro posizione in una simile università, dove spadroneggiano indisturbate squadre organizzate dai movimenti studenteschi del hIovimento Sociale Italiano ("Caravella", FUAN, "Avanguardia Nazionale", etc.) e dal gruppetto pacciardiano di "Nuova Repubblica" ("Primula goliardica") che, come si sa, in Roma fanno le loro piú sfacciate prove di forza.
Questo stato di cose illegale e pericoloso era tollerato, e con ciò stesso incoraggiato, dagli organi di polizia che non volevano vedere e provvedere, come era loro dovere, credendo cosí anche di interpretare la direzione impressa dal rettorato alla vita universitaria romana.
Sia ben chiaro: nessuno vuole inchiodare la polizia sulle posizioni passate, e si prende atto senz’altro del nuovo atteggiamento che la polizia ha tenuto e tiene nella città universitaria da quando di questa si occupa direttamente il questore di Roma e da quando il ministro degli Interni ha fatto dichiarazioni di lealtà democratica e antifascista. Non si può però, per nessuna ragione, celare quel passato e accettare certe errate difese integrali dell’operato della polizia e dei suoi rappresentanti: la dignità della polizia si tutela facendo sí che essa sia effettivamente sempre "degna" e prendendo provvedimenti, ove occorra, nei confronti di quei suoi elementi che si sono assunti gravi e accertate responsabilità, qualunque sia la ragione per cui cosI hanno agito. Quanto alla responsabilità dell’ex-rettore (che si estende a quella del direttore amministrativo e di quella ulteriormente si rende responsabile) nessuna malintesa pietas per la vecchiaia e le "teste canute", nessuna futile considerazione di "opportunità", può indurci a giustificare o minimizzare le gravissime responsabilità di chi ha ricoperto per tredici anni la massima carica universitaria, ha ricevuto proteste e denunce, e nulla ha fatto per prevenire, come era suo preciso dovere, la catena di episodi culminati nella morte del giovane studente socialista.
La verità va detta a giovani e vecchi, a vivi e morti. E la verità è che il comportamento di quel rettore non è stato solo di inerzia e di tolleranza colpevole, ma ha avuto giustificazioni precise, come ha avuto appoggi legati alla vasta rete di interessi di potere privato e politico che avvolge paurosamente l’Università di Roma. La sua intervista del 5 maggio al "Rome Daily American" costituisce una presa di posizione gravissima ("mi sono costantemente opposto all’inserimento di elementi di sinistra nell’Università. Ma questa era la mia responsabilità quale capo di una università di Stato"!) piú della stessa miserevole insistenza sulla versione della morte di Paolo Rossi dovuta ad epilessia, fondata su di una cartella clinica che non porta la minima traccia di simile malattia. E la stessa tardiva e penosa smentita della propria intervista (a tredici giorni di distanza e sotto il peso della querela dei genitori di Paolo Rossi) è ancora elemento gravissimo per il giudizio su di un uomo a cui sono andati elogi e riconoscimenti destituiti di ogni onesta giustificazione. Ma tant’è. Ciò che importa a taluni è solo la squalifica dei "rossi" anche quando questi (come il giovane studente morto e la maggior parte degli elementi attivi nelle giornate romane) erano o senza partito o cattolici o socialisti, e appartenenti dunque ad un partito che è attualmente al governo.
Sulla base di queste verità (che tali non paiono solo a chi non vuol vederle e si preoccupa di tutt’altra cosa che la verità), si possono ricavare alcune considerazioni generali sulle reazioni e gli atteggiamenti presi da varie parti e correnti di opinione pubblica, dı politici e di uomini di cultura e di scuola. Poca attenzione meriterebbero le reazioni degli organi di stampa e degli stessi parlamentari del partito neofascista, che per lo piú si limitano a opporre ad ogni ragionamento espressioni sgrammaticate e balbettamenti insensati.
C’è però da osservare almeno guesto di fronte a loro, e agli organi qualunquistici e scandalistici di cui si ciba con voluttà morbosa la borghesia benpensante italiana. La massiccia campagna di diffamazione, scatenata contro gli uomini piú attivi dell’Università, ha uno scopo preciso (piú chiaro agli interessati qualunquisti e antidemocratici che non agli stessi insensati nazifascisti) non dissimile da quello per cui sono stati a lungo sostenuti l’ex-rettore e la violenza teppistica nell’Università di Roma.
Con questo attacco, come prima con l’azione del teppismo e l’azione di favoreggiamento di questo, si mira a bloccare un’azione che si teme, a ritardarne i tempi, a diminuirne le forze.
Prima si arrestava l’azione di discussione e promozione della riforma universitaria attirando le forze universitarie democratiche della capitale in una continua tensione di difesa contro il teppismo e il malgoverno universitario. Oggi si vuole diminuire la forza di sviluppo dell’iniziativa democratica e rinnovatrice impegnando uomini e gruppi (con una scelta tutta corrispondente alla stessa energia dimostrata da quelli) in una difesa della propria dignità e del proprio passato, cercando di squalificarli, se possibile, non tanto presso l’opinione dı destra, quanto presso i giovani, gli studenti stessi democratici, cercando di metterli fuori lotta ora puntando su di loro individualmente ora confrontando le singole storie dei viaggi lunghi o brevi "attraverso il fascismo" nell’accusa globale a quasi tutta una generazione, rea soprattutto di essersi, a vari livelli cronologici e con varia energia, distaccata dal fascismo, in cui era stata educata tra infiniti inganni e in quella falsificazione della verità che ora di nuovo si adopera nella polemica ricattatoria.
Alla fine è ben assurdo che coloro i quali, cresciuti in un paese pieno di fango, da cui poterono riportarne sporcate almeno le scarpe, fecero di tutto per ripulirsene e per ripulirne il proprio paese, ven gano ora accusati da parte di quelli che si adoperano in ogni modo per riportare nel nostro paese un fango anche peggiore di quello di prima.
Ma piú importante è discutere con ferma chiarezza la posizione per lo meno equivoca di quanti, in questi giorni, hanno rivolto moniti e rimproveri agli uomini e alle forze democratiche e rinnovatrici dell’Università, alla luce di una concezione dell’uomo di cultura, dell’intellettuale, dell’educatore e dei suoi doveri, che deve essere smascherata nella sua configurazione inaccettabile sia nella sua sostanza sia nel suo riferimento alla situazione attuale.
Mi riferisco a pubbliche prese di posizione di professori ordinari della stessa Università di Roma e ad articoli di uomini ed organi che non possono certo essere accomunati sic et simpliciter alla stampa scandalistica neofascista e qualunquista, anche se ad essa hanno offerto aiuti preziosi, contribuendo a confondere le idee sui rapporti fra cultura e politica.
Accanto ad ordini del giorno e comunicati emessi da alcune facoltà o da gruppi di professori romani. diretti ad una difesa del rettore, ad una falsificazione della verità di fatto, ad un’accusa docenti e studenti generosamente insorti contro la violenza fascista e i suoi sostenitori, si può distinguere quello di un gruppo di ordinari della Facoltà di Magistero che (votato in contrasto con un ordine del giorno della stessa Facoltà e prontamente dato alla stampa "indipendente") si presenta particolarmente insidioso per la stessa serenità e superiorità da cui si dichiara improntato.
Il tono della mozione è magnanimo ed autocritico dichiarando una corresponsabilità degli stessi firmatari nella tragica morte di Paolo Rossi "giacché evidentemente la loro opera educativa non ha raggiunto - almeno per la totalità dei discepoli come sarebbe stato ed è necessario - il suo scopo primo: quello di persuadere al rispetto della dignità e libertà propria ed altrui, e di far considerare ogni violenza come segno di immaturità e di inciviltà" e sostenendo, in altra parte del testo, che "il disinteresse alla vita comunitaria, che giunge in alcuni casi sino al sistematico assenteismo, da parte della grande maggioranza degli studenti e degli insegnanti, sia alle radici del male, giacché apre la via all’azione di gruppi faziosi e pertanto antidemocratici per definizione".
Ottimamente. Anche se i gruppi faziosi e la violenza non vengono - come si doveva - indicati con la parola che ad essi competeva (fascista) e se l’assenteismo di cui si parla non è solo quello di quanti non partecipano di fatto alla vita universitaria, ma anche quello di chi, pur variamente operando in quanto docente con lezioni e magari esercitazioni, non si è proposto il problema di un impegnativo rapporto educativo, non solo specialistico, con gli studenti.
Come se lo sono invece proposto e lo hanno esercitato proprio quei docenti che divengono il centrale obbiettivo polemico e denunciatario del docurnento, là dove i firmatari "credono loro dovere di manifestare il loro stupore e dolore per l’atteggiamento di alcuni pochi colleghi che, travalicando di molto l’adesione alla semplice occupazione delle Facoltà, hanno creduto di associarsi a chi opponeva alla violenza altre violenze". Quali altre violenze? Le azioni intese a dimostrare pubblicamente che l’unica violenza era quella delle squadre teppistiche, a promuovere l’interessamento del parlamento e del governo su di una situazione drammatica e assurda?
E che dei professori sentano il dovere di porsi a fianco dei loro studenti minacciati, aggrediti, in un primo tempo duramente trattati dalla polizia, che essi sentano il dovere di partecipare alle assemblee comuni di studenti, incaricati, assistenti a cui li legano l’interesse "comunitario", scientifico ed educativo, esponendosi agli oltraggi delle canaglie, alle rappresaglie di ogni genere e insieme rifiutandosi, con gli studenti, di usare qualsiasi forma di violenza, non può suscitare stupore e dolore se non in chi al fondo condivide l’idea del professore cui compete solo il dovere "scientifico" e risolve di fatto la sua missione educativa nel non intervenire, ne] chiudersi nella sua "purezza" scientifica per poi parlare genericamente di assenteismo e puntare sulla denuncia, ad ogni effetto, di quei "pochi" della cui precisa azione ha avuto notizia solo indiretta e tendenziosa. Questo non è l’ideale del professore e dell’intellettuale che hanno avuto ed esercitato uomini come Francesco De Sanctis, come Salvemini, come Calamandrei, come Russo e tanti altri che, a diverso livello di tempi, di situazioni, di forza personale, dettero alti esempi insieme di magistero scientifico e di magistero morale e politico. E non rifiutarono contatti, là dove era necessario, con quelle forze politiche che nello stesso documento vengono ammonite a tenersi lontane dall’Università.
Qui (e al di là di ogni possibile identificazione o diversificazione attuale dei singoli professori e di ogni schematizzazione che abbisogna sempre di precisazioni e gradazioni di giudizio) è il punto di discrimine fra i professori che si richiamano al De Sanctis e magari al Leopardi (il Leopardi poeta di supremi interventi e "Malpensante", come si definí nei Paralipomeni, supremo nemico di ogni evasione e di ogni "purezza" passiva e reazionaria) e i professori che si tengono nei limiti dell’insegnamento specialistico ammantandolo di parole solenni ed austere di dignità, di serenità, di missione educativa, esercitata, di fatto, a parole e smentita specie quando le situazioni impongono decisioni e posizioni attive. Lietissimi naturalmente se differenze pronunciatesi in queste giornate potranno ridursi entro ripensamenti piú meditati e in quella azione per la riforma universitaria su cui debbono concentrarsi le forze piú serie dell’Università.
Ma quali sarebbero i "chierici traditori" di cui si torna a parlare, fuori dell’ambito universitario, in questi giorni? Ecco (come ulteriore controllo di una concezione inaccettabile dell’educatore e dell’intellettuale che educa non educando, eludendo i suoi doveri verso la scuola e il paese, ignorando la realtà delle situazioni concrete e delle loro inevitabili implicazioni politiche) altre due prese di posizione che dimostrano l’urgenza di una discussione - qui appena iniziata - sul tema generale dell’intellettuale e dell’educatore, dei suoi doveri e dei suoi rapporti con la politica.
Una è (anche se non legata alla situazione universitarıa, quella del presidente Johnson, che ricevendo una laurea honoris causa ha tracciato il ritratto del "buon professore" che non deve "orientare", ma "chiarire", e che soprattutto non deve mai occuparsi di politica, accettando cosí di fatto la politica dei governi qualunque essa sia, anche quando essa - come notava Aladino sull’"Astrolabio" del 22 maggio - "si dimentica della Repubblica di Platone" e obbliga tanto piú gli intellettuali "a testimoniare contro la feccia di Romolo".
Poiché gli intellettuali non vivono nell’Olimpo, ma su di una terra intrisa di male e di sangue, una simile concezione è da rigettare recisamente come quella, cosí concorde nella sostanza, che nella "Fiera letteraria" del 12 maggio conclude un articolo non firmato (I volti della violenza) e pur cosí accettabile nella sua prima parte.
Nella prima parte infatti (con un consenso assai interessante alle nostre interpretazioni dei fatti da parte di un organo non certo di sinistra) si definiva lucidamente come assurda la versione della morte di Paolo Rossi quale "incidente" assimilandola ad altri "incidenti" della nostra triste storia nazionale: quelli di Matteotti, di Gobetti e di Amendola. Ma nella seconda, la mano abile dello scrittore, tutt’altro che inesperto di politica, porta per gradi a ben altre conclusioni da quelle che l’inizio poteva farci attendere (e cioè una coraggiosa denuncia dei "chierici" che non sentono i loro interi impegni educativi e lasciano i loro studenti isolati e senza punti di riferimento - magari polemico - nella concreta figura e presa di posizione dei loro docenti).
Vero e giusto l’invito all’esame di coscienza, vera e giusta l’indicazione della responsabilità dei "maestri" nell’educazione dei giovani ("professori che non sempre sentono di dover essere so prattutto dei maestri e di dover creare rapporti reali, concreti, diretti con la vita della scuola, con gli studenti"), vero e giusto almeno l’avvio sui pericoli delle organizzazioni studentesche a riprodurre nella vita universitaria null’altro che le formule dei partiti. Ma qui dalle verità accettabili e generali si passa a conclusioni assai discutibili. Come e soprattutto la conclusione secondo cui all’Università "i maestri" stanno abdicando alla loro funzione di guida, non insegnano piú le cose concrete del sapere, ma esortano piuttosto a sistemare il mondo di domani secondo questo o quel sistema politico che prevede, in pratica, l’uso della forza e la cancellazione della libertà, anche della libertà del sapere. È sempre dalla "trahison des clercs" che nascono le dittature".
Certo noi non amiamo il "chierico rosso o nero" della denuncia montaliana di Piccolo testamento e abbiamo sempre protestato ed agito in ogni caso concreto contro ogni asservimento, di tipo zdanovista o meno, della cultura all’autoritarismo e alla costruzione illiberale della società e dello stato.
Ma qui c’è un problema piú generale. Non è vero che le dittature nascono dalla trahison des clercs solo e soprattutto nel senso indicato dall’articolista della "Fiera letteraria". Anzi nel nostro paese la dittatura fascista è nata dalla trabison des clercs nel senso di una rinuncia di responsabilità etico-politica da parte degli intellettuali e degli educatori. Essa è stata aiutata potentemente dalle "società degli apoti" di prezzoliniana memoria, dal disprezzo di molti intellettuali per la politica e poi dal loro ruere in servitium, avidi di feluche e di spadini accademici, da certa stessa predicazione e pratica della "purezza scientifica e letteraria, dal silenzio di tanti maestri sui problemi storici e civili. Né è giusto contrapporre come salutare un simile atteggiamento solo perché si pensa (come certo fa l’articolista della "Fiera") alla paventata "dittatura comunista". Perché, pensando anche a quella ipotesi, per gli educatori e gli intellettuali non si pone il problema di un assoluto disimpegno, di un rifugio nelle "cose concrete del sapere" (e sono poi concrete queste cose se mancano di un orientamento e di un nesso generale con i problemi della vita e della storia?), bensí quello di un piú profondo impegno (parola svalutabile solo nella sua accezione piú esterna e rozza), di una piú profonda chiarezza di prese di posizione. Chi vive da decenni nell’Università sa che i giovani migliori, quelli che saranno i maestri di domani, vogliono insieme dai loro insegnanti verità e coraggio di verità, sicurezza scientifica e offerta di orientamento generale, su cuí poter discutere, consentendo o dissentendo; vogliono ed amano insegnanti che non si nascondono sotto l’impenetrabilità della dignità scientifica e accademica e che, quando le situazioni lo chiedono, testimoniano di persona e con i fatti sulla coerenza delle loro idee e della loro missione educativa.
È da qui che dovrebbe cominciare un discorso piú complesso sui rapporti fra politica, cultura e scuola, come può essere svolto da un intellettuale socialista liberissimo e proprio perciò non privo di un doveroso senso di responsabilità politica e civile. Credo di averne indicato alcuni agganci iniziali entro le occasioni non pretestuose di una polemica, primo momento di un esame che pur di quella necessitava: cosí come l’azione per la riforma universitaria necessitava di una battaglia decisa contro le forze che ne bloccavano ogni proficuo sviluppo.