da "Il XX giugno nel Risorgimento italiano" (1955)

È il testo di un discorso celebrativo tenuto a Perugia, nella Sala dei Notari, il 20 giugno 1954, pubblicato nel 1955 sulla rivista "Perusia", e poi raccolto in La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri (1983). Un esempio significativo del forte e costante legame tra Binni e la sua città, luogo centrale di affetti e memoria.
 
Ho ancora vivissima l’impressione che, negli anni della fanciullezza e della prima adolescenza, destava in me la giornata del XX Giugno: il suono mesto e virile del Campanone, il passaggio della carrozza che recava la giunta comunale a deporre corone al monumento e al Cimitero, svegliavano in me una confusa ma profonda commozione, una suggestione fantastica che certe vecchie stampe, rievocanti la battaglia e l’ingresso in città degli Svizzeri, vennero poi precisando in immagini di eroismo tanto più affascinante perché sfortunato, di violenza tanto più ripugnante perché esercitata in nome di segni a cui il mio giovane cuore associava le idee più alte del sacrificio e dell’amore fra gli uomini. E quelle immagini, quell’emozione di tristezza e di orgoglio, quegli impulsi combattivi e quella pietà per le vittime inermi, incisero profondamente in me una istintiva simpatia per i ribelli, per i combattenti senza divisa, per le insurrezioni popolari, un primo sentimento della celebrazione della vita civile mediante gesti di eroismo e di protesta collettiva e naturalmente lo sdegno per la violenza ammantata sotto le insegne del diritto militare, per l’abuso del potere politico da parte di una istituzione religiosa che aveva mostrato in quel caso di usare la violenza (e poi lodarla e premiarla) in maniera anche peggiore di quanto non facessero istituzioni mondane e solamente politiche.

E mi sembrava bello essere perugino soprattutto per merito di quella data gloriosa, di quell’avvenimento che tuttora mi appare pieno di civilissimo significativo: quello di una città che abbandonato a se stessa, tiene fede all’impegno preso insorgendo e si espone in nome dei propri ideali civili alle conseguenze di una battaglia inevitabilmente perduta e che poi, sotto l’occupazione, si comporta con tanta dignità e serena fierezza.
E, d’altra parte, ai miei ricordi di adolescente, appartiene anche quello di una ripetuta visita ad una lapide che, nel nostro bellissimo Cimitero, aveva sempre attirato la mia curiosità e su cui fantasticai a lungo, a mano a mano che crescevano le mie cognizioni storiche e la mia possibilità di interpretarne il significato: una lapide in francese, sormontata da uno stemma gentilizio, dedicata al conte Abyberg, capitano del primo reggimento estero al servizio della Santa Sede, caduto alla presa di Perugia. Implicava forse quella lapide una smentita alle care stampe del saccheggio e delle stragi, il principio di una rivalutazione in me dei combattenti dell’altra parte? Invece sotto quello stemma e quell’epigrafe cavalleresca e bellicosa non c’era neppure il dubbio fascino di un’ultima prova eroica di forze battute e sconfessate dalla storia, di quei pittoreschi residui del feudalismo e del legittimismo europeo, che sotto il Lamoricière si raccolsero nel’60 a Roma e fecero prova non ingloriosa a Castelfidardo.

Il governo pontificio nel 1859 non aveva ancora fatto appello alle forze più retrive e più antiquate della nobiltà occidentale e a Perugia si erano battuti solo dei mercenari, anche se ornati di stemmi e di titoli svizzeri savoiardi tedeschi. E non potei non provare una certa delusione quando appresi che il cavalleresco guerriero "caduto alla presa di Perugia al servizio della Santa Sede", sarebbe (così pare) rimasto ucciso da una palla il moschetto rimbalzata da una casa di cui egli stava guidando il saccheggio!

Così quello stemma e quel titolo, quell’epigrafe cavalleresca coprivano una realtà squallida e miserabile e la lotta dei perugini assumeva sempre più ai miei occhi il valore di una lotta fra uomini liberi e vivi nella storia, e poveri avventurieri senza scrupoli, a cui l’orpello dell’inquadramento militare, la nobiltà degli ufficiali e l’insegna delle chiavi di San Pietro, non aggiungevano che una decorazione sfacciata, un pretesto di dignità ad un’impresa che la resistenza perugina ebbe il merito di rivelare nella sua vera natura.

E infatti - volendo passare dai ricordi ad un concreto omaggio a quell’avvenimento, omaggio che non può essere che la rapida ricostruzione di esso e la valutazione del suo significato nella storia del Risorgimento italiano - bisognerà dire che il XX giugno fu soprattutto la chiara dimostrazione di una essenziale differenza fra le forze vive, reali del Risorgimento, e quelle fittizie antistoriche del dominio temporale dei Papi, fra gli ideali nuovi e concreti anche se diversamente profondi e capaci di sviluppo, che davano vigore alle forze progressive, moderate o mazziniane che fossero, e l’assurdità di una organizzazione politica artificiosa, senza necessità ideale o sociale o economica, bisognosa per difendersi di ricorrere (nell’epoca delle nazionalità!) a truppe mercenarie e straniere.
L’eroica difesa e soprattutto il saccheggio e la violenza degli Svizzeri a Perugia costituirono così, in quella fase delicatissima del nostro Risorgimento, un elemento di grande importanza nella definitiva condanna italiana ed europea del governo pontificio, la cui assurdità e artificiosità storica appariva tanto chiara quanto la sua immoralità proprio da un punto di vista cristiano: che era poi l’impressione di sdegnata meraviglia che, in maniera piuttosto enfatica e tutt’altro che poetica, voleva rendere il giovane Carducci nel suo sonetto, Per le stragi di Perugia, quando trovava esecrando il fatto che Cristo fosse stato come ideale capitano al "reo drappello" degli Svizzeri:

Cristo di libertade insegnatore,
Cristo che a Pietro fe’ ripor la spada,
Che uccidere non vuol, perdona e muore.
(G. CARDUCCI, Juvenilia, in Opere, ed. Naz., Bologna 1950, vol. II, pp. 209).
 
Cosicché si può ben dire che la riconquista di Perugia, se fu fruttuosa immediatamente al governo pontificio in quanto fermò quella che poteva essere una frana del suo dominio nell’Umbria e nelle Marche già nel ‘59, importò un decisivo passivo per quel governo che, a causa di quel gesto di forza male impiegata, di violenza sproporzionata (gesto lodato e premiato dallo stesso Pontefice, compiuto da truppe mercenarie straniere nel momento stesso in cui il culto del principio di nazionalità era nel suo massimo fiore), si trovò coperto di discredito in tutto il mondo civile; tanto più che, a causa dell’accennato saccheggio dell’Albergo di Francia e delle perdite finanziarie subite dall’americano Perkins, quel governo, che prima aveva tutto negato, fu obbligato dalla diplomazia americana ad ammettere quanto era stato testimoniato da quell’inopportuno ospite straniero, e apparve così pubblicamente insieme bugiardo e vile.

Ma le reazioni più interessanti furono proprio quelle italiane, anche se allo sviluppo del nostro Risorgimento, nei riguardi del governo pontificio, giovò moltissimo il quasi unanime coro di proteste che si levò sui giornali di ogni parte d’Europa. L’azione degli Svizzeri pose davvero in crisi la coscienza di una gran parte di cattolici italiani e come si possono facilmente trovare testimonianze di sdegno e di commozione (in cui coincidevano una cristiana sollecitudine per quel sangue innocente versato, con la coscienza nazionale e liberale ferita dall’impiego degli Svizzeri e dall’imposizione violenta dell’autorità a una città che si era pacificamente liberata) anche in sacerdoti come il canonico Chelli di Grosseto che "piangeva al racconto di una strage di innocenti e di inermi fatta nel mezzo d’Italia, si può anche indicativamente citare una lettera del Ricasoli al Lambruschini (21 giugno 1859) in cui alle esitazioni del noto pedagogista cattolico circa l’azione unitaria del governo provvisorio toscano si oppone, come prova della necessità di agire e di non credere più alle vecchie illusioni federali neoguelfe, il fatto decisivo che "il papa manda gli Svizzeri a far assaltare Perugia". E lo stesso Ricasoli, in una lettera del 5 luglio al fratello Vincenzo, elencando alcuni avvenimenti che impegnano tutti gl’italiani ad agire concordemente e a disperdere ogni illusione sulla utilizzazione dei vecchi príncipi e sul compromesso con lo stato pontificio, metteva in primissimo piano "i fatti di Perugia", che han rivoltato la coscienza più grossolana contro il Papa e il suo governo.

Il sacrificio perugino cooperava così in maniera decisiva ad aumentare la provvidenziale frattura che permise indubbiamente la più facile realizzazione dell’unificazione italiana e della prima costruzione del nuovo stato unitario, e impedì pertanto alla Chiesa di inquadrare politicamente i suoi fedeli a cui essa aveva troppo recentemente offerto una linea politica così assurda e reazionaria e macchiata dalle forme estreme dell’autoritarismo e della violenza oppressiva.
E d’altra parte l’episodio del XX giugno diveniva nel periodo tra ‘59 e ‘60 un potente stimolo al proseguimento dell’azione liberatrice e unificatrice, una fortissima arma sentimentale nelle mani dei partiti patriottici anche se, si può ben immaginare, adoperata diversamente (e motivo persino di polemica aspra) dai mazziniani e dai cavouriani.
Allo spirito del XX giugno si educarono generazionı di uomıni liberi e si ispirò a lungo la vita della nostra città con quelle libere amministrazioni comunali che proprio a quel nome simbolico intitolarono spesso le loro opere più civili (scuole, asili, istituzioni di beneficenza pubblica) e che, onorando solennemente ogni anno quella data, rinnovarono un impegno solenne a mantenere la città sulla via del progresso civile e sociale, nel rispetto della democrazia, della libertà e di una severa fede laica: valori ed ideali a cui, pur nel mutarsi delle condizioni storiche e nel precisarsi sempre più concreto delle esigenze sociali, la democrazia perugina rimase lungamente ed attivamente fedele.

E da quell’impegno lontano, da quella lezione di eroismo e di civiltà attinsero pur forza molti dei perugini combattenti contro la dittatura fascista e di quell’episodio molti si ricordarono anche per condannare la conciliazione fra lo stato fascista e la chiesa romana e, più tardi, il piccolo ed inutile machiavellismo che accettò l’inserimento dei trattati lateranensi nella nostra costituzione repubblicana, la quale ne venne in tanti punti fondamentali snaturata e messa in dubbio.

Ed ancora adesso, quando i termini della lotta politica sono tanto cambiati da quelli del Risorgimento e impegnano gli uomini in posizioni di valore universale e legano sempre più necessariamente la libertà e la democrazia alla soluzione del problema sociale, noi possiamo pure guardare con reverenza ed affetto a quella data gloriosa che rende ai nostri occhi ancora più bella la nostra città, ci fa lieti di esserne cittadini e ci impegna ad onorarla con la nostra attività più seria, con il nostro servizio alla causa di una umanità libera e fraterna.