"Questa lotta tra vecchio e nuovo" (1997)

Intervista di Eugenio Manca per "L’Unità" del 2 febbraio 1997. Il testo è stato quindi raccolto nel volume Poetica e poesia (1999).

E' allarmato lo sguardo di Walter Binni sul panorama che ci sta intorno. Definisce intollerabile il clima di "ottuso revisionismo" dentro cui scompaiono differenze storiche, responsabilità morali, riferimenti ideali. Italianista fra i nostri maggiori, elaboratore di un metodo storico-critico che ha profondamente innovato gli studi sulla nostra letteratura, membro dell’Assemblea Costituente, affıda a questa intervista le sue amare "impressioni di fine secolo".
In conclusione domando: professore, ma esiste un criterio oggettivo che ci aiuti a riconoscere ciò che è "nuovo" da ciò che non lo è? Risponde: "Mi orienterei così: è nuovo ciò che contiene elementi di promozione della vita sociale, civile, culturale di un paese; è vecchio ciò che quella vita ostacola e fa regredire. L’anagrafe da sola non basta. Un valore innovatore può avere molti secoli, e la conservazione può vestirsi di falsa modernità". E poi cita lo Zibaldone, il passo in cui Leopardi rammenta come "a un gran fautore della monarchia assoluta che diceva la Costituzione d’Inghilterra è cosa vecchia e adattata ad altri tempi e bisognerebbe rimodernarla, rispose uno degli astanti: "è più vecchia la tirannia"".
Indigesto, pericoloso, intollerabile appare a Walter Binni - italianista insigne, deputato alla Costituente, accademico dei Lincei e maestro di maestri - l’equivoco, che oggi teme dilagante, in forza del quale ciò che si presenta come inedito rechi in sé il segno dell’innovazione positiva, mentre ciò che viene dal passato sia irrimediabilmente regressivo: "Se così fosse - nota - dovremmo mettere in dubbio molti dei valori che hanno mosso il cammino dell’umanità. Hitler era considerato nuovo, e vecchi i suoi non molti awersari; in Italia i principî dell’89 erano giudicati vecchiume in periodo fascista; e mentre ancor oggi alcuni fondamenti della Magna Charta inglese sono da ritenersi nuovi, non potrebbe davvero considerarsi moderno chi volesse distruggerli. È un equivoco che mi riempie di sdegno, e temo che ad alimentarlo sia quel clima di ottuso revisionismo storico che tende ad annebbiare differenze e distinzioni, e induce persone insospettabili, anche nell’ambito della sinistra, ad equiparazioni assurde".
Binni non è uomo di nostalgie: di rotture, invece, di scoperte e di forti innovazioni. La sua nozione di "poetica", che s’è venuta articolando fin dal 1936 sulla base di un metodo storico-critico antitetico a quello di Croce, ha illuminato di luce nuovissima gli studi sull’intera letteratura italiana, da Dante a Leopardi. Né meno moderno e franco di pregiudizi è stato il suo itinerario civile di formazione liberalsocialista, la cospirazione antifascista in quella sua Perugia "dalla bellezza solenne e invernale", la Resistenza, la Costituente, il sodalizio col rivoluzionario nonviolento Capitini, la vivida presenza nelle battaglie culturali prima tra le file dei socialisti, poi - dal ‘68 - in posizione autonoma ma non isolata. E dunque gratuita e offensiva suona alle orecchie di questo precursore ottantaquattrenne l’accusa di conservatorismo che sembra riservata a chi oggi è dubbioso o dissenziente.

Ma, professore, non è forse legittimo obiettare che sempre le generazioni più adulte hanno guardato attraverso un velo di scetticismo se non proprio di sospetto al cosiddetto "nuovo avanzante", specie quando esso si poneva in posizione polemica nei confronti del "vecchio persistente"?

Non so quanto sia vero. Al tempo dei miei vent’anni tutto ci passava per la testa tranne una contrapposizione fondata sul semplice dato anagrafico. Ma andiamo al merito: che il nuovo sia rappresentato da questa nebbia in cui sbiadiscono i valori della democrazia, si attenuano ie differenze fra destra e sinistra, tutte uguali sono reputate le ragioni dei vivi e perfino quelle dei morti - tanto quelli che caddero per la libertà e l’indipendenza quanto quelli che perirono nel tentativo di ripristinare dittatura e nazismo-, ebbene che questo sia il nuovo io proprio non lo credo. Che sia nuovo il modello liberista, nuove le teorie del mercato, nuova una parola come "privato", nuovo lo scambio tra i concetti di "garanzia" e di "opportunità" in un progetto di revisione dello stato sociale, nuova un’ipotesi di affidamento presidenzialista, neppure questo sono disposto a credere. Li vedo piuttosto come pessimi segnali di involuzione, spie di un clima volto alla ricerca di "normalità" e "serenità" da cui vengano espunti non solo le ideologie ma anche gli ideali, cancellate le differenze, offuscate le responsabilità storiche, avallate tendenze culturali regressive. Lasciamo stare Popper, che ciascuno tira di qua o di là, ma dawero si può considerare nuovo il pensiero di Heidegger o di Nietzsche?

Non negherà che ogni transizione sia difficile. Studioso delle epoche di transizione e partecipe lei stesso di un drammatico passaggio della storia italiana, vorrà ammettere che il compito è immane...

Ne vedo tutte le diffıcoltà ma non posso nascondere la mia contrarietà al diffondersi di un clima denso di equivoci. Al sindaco di Reggio Emilia, che invitava anche me, coi pochi altri costituenti soprawissuti, alle celebrazioni per il Tricolore, ho scritto confermando il significato rivoluzionario, giacobino che per me assume il Tricolore, e il suo stretto legame con i valori della Resistenza antifascista. Il sacrifıcio umano merita rispetto, ma l’equiparazione dei fronti e perfino l’invito alla venerazione dei morti per qualunque causa schierati, questo mi pare inaccettabile. È questo clima, in fondo, che rende possibili episodi come quello che ha per vittima Sofri. Né per lui né per "Lotta Continua" ho mai nutrito grande entusiasmo, e l’approdo di quasi tutto quel gruppo a posizioni prestigiose legate al potere me ne offre conferma. E tuttavia sento come una grave, dolorosa mancanza di giustizia il fatto che da un lato venga comminata una condanna assoluta e definitiva 25 anni dopo e sulla base delle parole di un teste palesemente inattendibile; e dall’altro che un uomo come Licio Gelli se ne stia tranquillo nella sua villa e, se arrestato, venga rilasciato pochi minuti dopo e con tante scuse.

Lei insiste sul clima. Le pare davvero così infausto?

È un clima che sembra propiziare fenomeni preoccupanti: una sentenza aberrante che raccoglie il plauso dell’estrema destra; l’insistenza, in verità ben poco contrastata dal Pds, su forme più o meno spinte di presidenzialismo che molti temono foriere di rischi autoritari; i tentativi di smantellamento di "mani pulite", l’attacco ai giudici; il riproporsi degli appetiti privati sul sistema scolastico, laddove la Costituzione prevede sì la piena libertà della scuola privata, ma "senza oneri per lo Stato"
.
Che cosa pensa della possibile revisione del testo costituzionale?

Penso che la prima parte, contenente i principi fondamentali, vada considerata intangibile. So bene che per Cossiga e altri, tutta la Costituzione sarebbe da rivedere, mentre la "Bicamerale" non potrà che limitarsi a intervenire solo sulla seconda parte. Mi attendo che le forze democratiche si mostrino ferme e unite nella difesa di quei caratteri di libertà, giustizia sociale, laicità, che a suo tempo si vollero a fondamento della repubblica.

Non coglie anche lei, professore, la rilevanza, la novità della presenza di una grande forza di sinistra alla guida del Paese?

La colgo interamente ma temo che tale prospettiva venga messa in forse dalle concessioni che vedo profilarsi su vari terreni: la giustizia, la scuola, lo stato sociale, il presidenzialismo. Sarò franco: considero pericolosissimo oltre che illusorio pensare di poter procedere, insieme con minoranze composte di ex fascisti e di uomini che sono espressione di un partito-azienda, ad un raddrizzamento della situazione italiana. Pensare di poter operare una trasformazione - o come un tempo si diceva con troppo orgoglio "cambiare il mondo" - con interlocutori di questo genere non mi pare possibile.

E tuttavia in passuto lei stesso fu testimone di un grande sforzo unitario ad opera di gruppi e partiti di ispirazione la più diversua...

Non vorrà confondere il clima che si respirava cinquant’anni fa con quello dei giorni nostri ... Una tensione, una speranza fortissima animavano allora non solo gli uomini di sinistra ma i rappresentanti di ogni settore dell’Assemblea Costituente, dalla quale l’estrema destra era totalmente esclusa. Noi tutti avevamo l’impressione di collaborare ad un’impresa importante, e ciascuno vi partecipava portando le riflessioni maturate nella propria e spesso drammatica esperienza di combattente, di esule, di perseguitato. C’erano Parri, Terracini, Gronchi, Calamandrei, Concetto Marchesi, c'era Benedetto Croce ... Fu un anno e mezzo di eccezionale fervore. Lei trova possibile un raffronto tra quel clima, quegli obbiettivi, quello sforzo unitario, e ciò che accade oggi? Si è salutata con entusiasmo la fine delle ideologie, e certo i sistemi di pensiero rigidi e ossificati non meritano alcun rimpianto. Ma non trova anche lei che una società povera di valori forti, privata di punti di riferimento ideale, sia come un corpo senza spina dorsale? Capisco, sono vecchio, e forse vedo le cose con occhi troppo allarmati, ma aver consonanza in questo giudizio con uomini come Bobbio e Garin non allevia la pena.

Un altro severo osservatore della vicenda italiana, Mario Luzi, muove agli intellettuali il rimprovero della renitenza, quasi della diserzione civile di fronte all’incombere del disastro...

E mi par vero. Per lungo tempo ci fu l’intellettuale "impegnato", che non voleva necessariamente dire partiticamente schierato ma impegnato a un livello più profondo, più ambizioso. Oggi la parola impegno è diventata dispregiativa e ciò è molto grave: l’impegno, non certo in forma "zdanoviana", è importante: è importante dare una prospettiva al proprio lavoro, sono importanti l’impegno stilistico, la ricerca linguistica, la sperimentazione, la creatività. Confesso che se guardo alle nuove generazioni di scrittori, portatori di quella moda di porcheriole che si definisce "letteratura trash" e li raffronto alle generazioni precedenti, dei Gadda, dei Calvino, di Bilenchi, di Pratolini, di Cassola, diTobino, dello stesso Pasolini, sono dawero imbarazzato.

Professore, che cosa ci sulverà: la poesia, forse?

Io ho molti dubbi sulle virtù taumaturgiche della poesia, la quale del resto non sfugge a quel clima di ambiguità ed equivoco cui accennavo. Neppure il grande Leopardi è stato risparmiato da una revisione in chiave nichilista e persino reazionaria ad opera di Cioran e dei suoi seguaci italiani, in opposizione alla interpretazione, che è mia da gran tempo, di un Leopardi profondamente pessimista e perciò violentemente protestatario e ansiosamente proteso verso una nuova società fondata su di un assoluto rigore intellettuale e morale e su di un "vero amore" per gli uomini persuasi della propria miseria e caducità senza "stolte" speranze ultraterrene. Comunque la poesia da sola non basta, essa va innervata in ogni altra attività umana. Alla base c’è la vita civile che deve essere intessuta di democrazia. E c’è la scuola - la scuola pubblica, laica, che non si alimenta di alcun credo già fatto, strumento fondamentale di formazione delle nuove generazioni - che va difesa strenuamente, sottratta a qualunque patteggiamento, senza incertezze di antica o nuova origine.