Perugia nella mia vita. Quasi un racconto (1997)


La prima stesura di questo profilo autobiografico, una sorta di bilancio esistenziale, risale al 1982; Binni vi ritorna più volte nel corso degli anni, con aggiunte e cambiamenti, finché lo "chiude" nel 1997 a pochi mesi dalla morte. Il testo è stato pubblicato nel 1998 a cura degli eredi, e quindi raccolto nella nuova edizione 2001 di La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri.

Quando qualche amico perugino che ancora mi rimane mi dice: "Perché vai tante volte a Lucca e vieni così raramente a Perugia?", rispondo: "Perché a Lucca ho ancora una casa, la casa della mia compagna. A Perugia ho solo la tomba dei miei. Finché sarò vivo mi servirà una casa. Quando sarò morto, mi servirà una tomba". A Lucca, dalla casa di Elena, vedo i rossi tetti della città, le sue mura alberate, la curva idillica dei monti pisani, il mareggiare petrificato delle Alpi Apuane. A Perugia dal luogo della tomba in cui dormirò il mio sonno ("sonno profondo e senza sogni", "via dagli affetti, via dalle memorie") accanto a mia madre (a mio padre, ai miei nonni paterni; gli altri miei antenati sono sepolti o in chiese di Perugia, Foligno, Rimini, Bologna, Fermo, Arezzo e Camerino o in cimiteri di quelle e altre città) accanto alla mia compagna, non potrò più "vedere", dal sommo del colle del nostro cimitero, il Subasio, Assisi, Monte Pecoraro, la valle del Tevere, che ancora vedo, con passione implacata, le rare volte che vengo a Perugia e mi reco a colloquiare (senza risposta, se non tutta immaginaria e sentimentale) con mia madre, o, più a destra, nella parte nuova del cimitero, con Aldo Capitini, mentre guardo dal luogo della sua tomba San Domenico, con il suo bosco, San Pietro, lo sprone del Muraglione, in cui mi si profila, a ricordo appassionato, la figura elegante, il volto ansioso e proteso di mia madre, che così spesso ci si recava solitaria e pensosa.
Con quell’amaro scherzo mi libero dalla domanda affettuosa dei rari e cari amici che ancora conservo a Perugia. Ma la verità vera è che Perugia (che sogno spesso di notte e spesso anche desto, ad occhi aperti) è ormai per me, nei rari ritorni e malgrado l’incontro con i vecchi amici rimastimi, una specie di discesa nel regno delle ombre, la visita dolente e stupita di luoghi cari, e per sempre vuoti della vita che amai, a cominciare dal vecchio Brufani in cui tutti i miei amici Bottelli e Collins sono scomparsi e dove sopravvivono solo i ricordi di una infanzia felice, quando ci venivo a giocare con Giorgio Bottelli e con tanti altri bambini e ricevevo, orgoglioso e affascinato, il bacio sorridente della bella Muriel Collins.
Perugia è ormai occasione di un duro confronto fra la vecchiaia che vivo, sorpreso, irato e mai rassegnato, e gli anni lontani della mia infanzia, adolescenza, gioventù, così gremite di vitalità e attività: dal periodo in cui abitavo nella casa paterna e natale, in Via della Cupa, sotto l’arco dei Mandolini nel palazzo omonimo (piena di care persone, fra cui le tenere e troppo laboriose "donne di servizio", piena di animali amati e rispettati da me come vere e proprie persone: gli eleganti e snelli "pointers" da caccia, i gatti d’angora come la deliziosa Chérie, il volpino Fifino, geloso di me e spesso beccato da un vecchio pappagallo che, iroso, gridava le sole parole apprese: "Guerra" e "Caffè", la coppia fedele dei minuscoli bengalini a cui mia madre affettuosamente paragonava certe giovani coppie di innamorati o di "sposini") a quello in cui, più tardi, vivevo con la mia giovane compagna lucchese – Elena, la "luminosa", la "splendente" secondo l’etimologia del nome greco: tale era allora, tale è rimasta e rimarrà per me "fur ewig" "in eterno", cioè finché avrò vita – e con i miei figli bambini in via Lorenzo Spirito Gualtieri, fuori Porta S. Susanna, sopra la Piaggia Colombata, protesa sulla vallata da Prepo fino a Monte Malbe e Monte Morcino.

Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé, ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato ancor tristo, e il dire: io fui,

mi ripeto con Leopardi, il poeta della mia vita. Appunto. Ormai il vecchio "pessimista rivoluzionario", il "vecchio capriolo" che (secondo le parole dell’amico Rigorni Stern nel suo ultimo libro) "pascola lontano dal branco, con fare sospettoso e irascibile", a Perugia si sente tanto più sottoposto al triste paragone con il passato infantile e giovanile, tanto più si sente sradicato che altrove, perché qui avrebbe voluto stendere le sue radici, mentre oramai le affonda solo nel ricordo e nell’impegno pertinace, ma più stanco, negli affetti rari e forti che gli rimangono, nella tenace volontà e proiezione utopica, e pur persuasa, di una società e realtà diverse (non garantite da nessuna legge meccanica o divina) e nei dolci-amarissimi ricordi, nelle larve del passato "per sempre". E qui più si sente nella situazione leopardiana dello scomparso o del presto destinato a sparire: "ad altri il passar per la terra oggi è sortito – e l’abitar questi odorati colli", colli e terra che per me sono sempre quelli di Perugia e dei suoi dintorni, paesaggi e luoghi cittadini e campestri, che sempre scattano nella memoria, mai cancellati da altri paesaggi e luoghi in cui la vicenda vitale mi ha portato a "passare" e vivere, a bruciare la breve fiamma di materia che sente e passa.
*
Mentre scrivo queste brevi pagine nella mia casa romana, davanti al giardino di Villa Torlonia, di colpo mi ritrovo nella mia casa natale, nel nulla da cui qui a Perugia uscii tanti anni fa’ piccolo e ingenuo bambino, in una giornata di neve e di tramontana, di prima mattina, caldo nel letto e protetto dalle cure materne, ad ascoltare rapito la voce festosa di un giornalaio, a me noto come eroico combattente nella grande guerra da poco finita, che gridava: "Corriere dei piccoli, piccoli, piccoli, brr: che freddo"; o mi ritrovo, ragazzo, a una finestra aperta sul Monte Malbe e Monte Lacugnana accanto a mia madre (era il 1929, l’anno del "nevone"), ambedue sorpresi e commossi dalla vista inattesa del cielo divenuto improvvisamente tutto sereno e della luna che illuminava la vallata e i tetti colmi di neve, o mi ritrovo, pure in quell’anno, in un’aula del Liceo, a leggere, sotto il banco, i romanzi di Svevo, gli Indifferenti di Moravia o gli Ossi di seppia di Montale, sottraendomi così alle noiosissime lezioni di un vecchio e dotto professore di greco ma viceversa pronto ad accendermi alla lettura che il preside, il toscano Chiavacci, ci faceva a volte delle poesie di Michelstaedter ("il porto è la furia del mare") o, adolescente, nella sala della Biblioteca Augusta (allora era nel palazzo comunale) a leggere antiche cronache perugine che alcuni vecchi inservienti mi portavano, riluttanti e brontoloni ("sono libri difficili per la sua età") e da cui traevo, oltre un esagerato orgoglio campanilistico, un rinforzo al mio nascente anticlericalismo (la rivolta antipapale del 1378, la guerra del sale contro Paolo III, la difesa repubblicana contro i sanfedisti aretini del ‘99, la trascinante narrazione del 20 giugno) sollecitato anche dai ricordi materni delle gesta del nonno garibaldino alle battaglie di Bezzecca, di Monte Rotondo e Mentana, o, già venticinquenne e sposato, sul balcone della mia casa di via Spirito Gualtieri, meditabondo e tristissimo per la morte immatura di mia madre (che alle mie stolte giovanili parole, affannate e impersuase, a lei morente: "Spera, abbi fiducia ... " aveva opposto le sue estreme nude parole: "In che?") improvvisamente sorpreso dal canto di due giovinette che salivano, tenendosi per mano, gli ultimi gradini della Piaggia Colombata, ritmando il passo sulla canzonetta di moda, stretto da una inattesa attrazione della vitalità giovanile, che intrecciandosi alle mie cupe meditazioni mi provocavano una rabbia profonda contro me stesso e gli inganni della vita (pur così autentici nella loro qualità di impegni e di affetti profondi come quello per la mia giovane compagna che attendeva il nostro primo figlio, nato sei giorni dopo la morte di mia madre). O, più tardi, nei giorni dopo l’8 settembre del ‘43, con altri antifascisti in una sala del comando della zona militare alle prese con un generale scettico e pronto a passare al nemico nazista, nel vano tentativo di organizzare una disperata e temeraria resistenza a Perugia contro i tedeschi giunti a Città della Pieve (tentativo replicato con una folla di popolani, uomini e donne, che invano richiedeva armi davanti alla caserma di S. Agostino) o, ancora più tardi, nella Piazza Matteotti, la vecchia piazza delle Erbe e prima di Sopramuro, il primo maggio 1945, impegnato in un comizio, illuminato dalle speranze di quegli anni indimenticabili, speranze illusorie, ma allora ben persuase (mi riferirono che un vecchio popolano socialista-massimalista diceva di me "quello è uno che ce crede": non ebbi mai più un omaggio così schietto e gradito). O infine sulla torre della porta S. Angelo (c’era uno dei molti circoli socialisti che io avevo contribuito a creare) alla fine del ‘48 (quando, finita la mia attività di deputato all’Assemblea Costituente e vinto un concorso universitario con cattedra a Genova, avrei lasciato Perugia il giorno sucessivo) solo e meditabondo a contemplare la città e il paesaggio scuro e montuoso fra Monte Ripido e Monte Tezio e a dipanare i tanti ricordi dell’infanzia, dell’adolescenza, della gioventù che con quella partenza mi pareva già finita (avevo trentacinque anni) o destinata ad esser ripresa tutta da capo in quella veste di "professore" che mi sembrava troppo stretta per la varietà intrecciata di impegni che avevo vissuto da Perugia, a Roma, Firenze, Pisa, Pavia, Milano e altrove, ma sempre con la primaria residenza e cittadinanza perugina. Ripensavo alle semplici, schiette feste che proprio su quel torrione intorno alla rossa bandiera con la falce, il martello e il libro si erano svolte con compagne e compagni socialisti e comunisti, con i loro cari volti a cominciare da quello soavissimo di Maria Schippa comunista a quelli fraterni di Bruno e Maria Enei socialisti, i più amati dalla mia compagna. E sentivo, fra attrazione e malinconia nostalgica, che quella era la svolta decisiva della mia vita di uomo maturo. La mia sorte mi portava altrove, non sarei più tornato a vivere e a lavorare a Perugia.
Poi mi riscuoto da questo sogno, mi ritrovo nella mia abitazione romana, e contemplo, fra stupore e fastidio, il mio ritratto di giovane ardente e malinconico, dipinto da Andrea Scaramucci a Perugia, nel ‘37, confrontandolo con il volto attuale, profondamente segnato dalla vecchiaia e appena ancora riconoscibile nelle pieghe della fronte caparbia, delle labbra serrate e sottili, del mento volitivo e spavaldo, del grosso naso, eredità non gradita del mio bisnonno paterno, perugino, Giustiniano degli Azzi Vitelleschi, testimoniata inequivocabilmente da uno sbiadito dagherrotipo di metà Ottocento che conservo ad una parete di una stanza gremita di oggetti provenienti dalla sua villa di Casaglia.
Egli era (come il bisnonno materno, Girolamo Barugi di Foligno e lo stesso più amato nonno materno garibaldino Francesco Agabiti di antica famiglia fermana e poi riminese-bolognese) un aristocratico: solo il ramo di cui porto il cognome è di origine borghese terriera, accomunata agli altri rami da un tracollo economico tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, causato da una pari inadeguatezza alle regole della civiltà industriale e capitalistica.
Così, disorganico alla classe borghese in cui mi ha posto assai marginalmente la mia situazione sociale, sradicato dalla vecchia classe giustamente battuta da cui sostanzialmente provengo, scomodo, ma pertinace e volontario alleato della classe proletaria (ormai in gran parte imborghesita e disgregata dal consumismo e dallo sviluppo economico tardo-capitalistico in gruppi sociali per ora mal definibili) e allontanatomi da tanto tempo dalle formazioni partitiche socialiste in cui ho militato sempre più con difficoltà e contrasti, ma non dalla "sinistra", vivo e soffro la condizione di un intellettuale assolutamente disorganico e sradicato, anche se ostinatamente proteso ed attento ad ogni segno di cambiamento rispetto alla società attuale in cui sono costretto a vivere. Ma, ripeto, fra tante ragioni di sradicamento mi pesa molto quella di essere ormai anche così realmente sradicato dalla città in cui sono nato e cresciuto (e di cui ho quasi dimenticato il dialetto, pronto però a vibrare se sento – come mi accadde una volta in treno nei pressi di Castiglion del Lago – una ragazza dire ad un’altra "Gliel’è ditt ta lia?", lo hai detto a lei?) a cui son pur legato da ragioni bioereditarie e, più, da ragioni di congenialità e di formazione, la città cui devo sostanzialmente l’etimo della mia personalità, dei miei gusti, della mia prospettiva etico-politica, l’inizio incancellabile della mia vicenda vitale, i primi incontri essenziali con luoghi, storia, usanze, persone, profonde amicizie, seppur debbo l’incontro essenziale della mia compagna alla civile Toscana (durante gli studi universitari a Pisa), di cui Perugia mi pare poi come una originalissima continuazione e propaggine, sia per la comune origine etrusca, sia per la sua storia medievale, quando Perugia era ancora considerata città toscana come la qualifica il novelliere trecentesco del Pecorone (del resto i Degli Azzi, il ramo perugino della mia famiglia, divennero perugini solo nel ‘600 e più tardi si imparentarono con i Vitelleschi e i Barugi di Foligno: prima vivevano dall’Alto Medioevo ad Arezzo).
Così, per ragioni familiari e ambientali, devo tutto a Perugia (o così mi piace pensare: il che è poi la stessa cosa) per le origini e la formazione della mia personalità e del mio carattere temerario ed impratico, cui contribuirono anche le prime tenaci impressioni del suo paesaggio, il retaggio dei suoi impeti protestatari e ribelli, la sua lezione di essenzialità che scaturisce da ogni aspetto della sua asciutta, petrosa natura che si rivela interamente e si esalta soprattutto nell’inverno duro e dominato dalla tramontana.
Qui si è svolta la mia infanzia felice e protetta, fra timida e altera di figlio unico, fra i dubbi ultimi bagliori della belle époque, segnata fin dal vestiario femminile (rivedo nel giardinetto dei carabinieri mia madre, alta ed elegante nel suo vestito, lungo fino ai piedi e protratto in alto nel "coprigola" di satin, con il vasto cappello infiorato, con il manicotto di pelliccia) e i segni della "grande guerra" (lo zio materno, lo zio ufficiale in guerra, lo zio "oppi-uno-due, no dui", il passo dei soldati, le mantelline azzurre degli ufficiali di artiglieria e i colletti rossi dei cacciatori delle Alpi, le uniformi grigio-verde con mostrine rosso-bianche del reggimento cecoslovacco che si formava e addestrava a Perugia, le notizie di mio padre dal fronte) e i primi indizi puerili di aggressività, come quando, ad una festa in maschera di bambini all’Hôtel Palace, mi picchiai con un ragazzo più grande e più forte per far coppia con una coetanea, dolce e bella, di nome Nerina, da tempo scomparsa.
Qui si svolse la irrequieta adolescenza ("du traumerische, ruhelose Jugend") quando collocavo i miei primi sogni di azione e di poesia sui colli e sui luoghi della mia città e del suo paesaggio (Dante nella selva tra S. Pietro e S. Domenico, Ariosto sul colle di S. Marino, Leopardi fra l’idillio di Monte Pecoraro e di Prepo e la severa bellezza di S. Bevignate, del colle del cimitero o lo slancio rupestre di Monte Tezio) e mi avvicinavo alla cultura fra il Liceo, le conferenze dell’Università per Stranieri (dove la cultura si personificava in modelli ammirati ed emulati nel desiderio – ricordo ancora Borgese, che tanto allora ammiravo, mentre contemplava fuori del Brufani la vallata umbra, pensoso e severo, con le mani ai fianchi-) fino alla scoperta essenziale di Capitini, nel suo studiolo nella cella campanaria del Municipio, fra i suoi libri che accrescevano e disciplinavano le mie precedenti letture disordinate e casuali (a lui soprattutto debbo l’abbandono definitivo degli inganni nazionalistici e corporativi del fascismo di "sinistra" e il decisivo passaggio all’antifascismo militante) mentre insieme mi educavano qui a Perugia la musica e il teatro, fra la Società degli amici della musica e il Pavone e il Morlacchi, e il cinematografo (fra il Turreno e il Minerva) mi forniva, in una frequentazione quasi quotidiana (iniziata fin da bambino con mio nonno e con mia madre) la sollecitazione dei drammi italiani con Francesca Bertini, delle comiche con Ridolini, Max Linder, Fatty e Charlot, dei films con l’ammiratissima Greta Garbo (il suo volto che si sfa sotto le dure parole del vecchio marito tradito in Maria Waleska ) e dell’espressionismo tedesco, fino alla sconvolgente scoperta della Dietrich in Angelo azzurro .
E qui a Perugia (nell’intreccio con le offerte di altre città e paesaggi naturali e culturali: il ricco ambiente culturale dell’Università di Pisa con la frequentazione delle "Giubbe rosse" a Firenze, quello di Heidelberg, di Pavia, di Milano, di Torino o di Bolzano, dove fui ufficiale di artiglieria e per sei mesi insegnante di italiano e storia prima di sposarmi e ritornare a Perugia all’Università per Stranieri) sono iniziati i miei impegni etico-politici nel gruppo di amici e compagni legati all’esempio e alla lezione di Aldo Capitini, prima nel gruppo liberalsocialista, intorno al ‘37, che il mio giovanile attivismo contribuì (come ricorda Capitini nel volume Antifascismo fra i giovani) a rendere appunto un movimento attivo e da Perugia propagato in tutta Italia, poi, nel ‘43, nel ricostituito partito socialista che rappresentai, per la circoscrizione Perugia-Terni-Rieti, all’Assemblea Costituente.
Qui a Perugia (nelle vacanze estive, natalizie, pasquali, durante l’Università a Pisa) ho ideato e iniziato i miei primi libri critici (La poetica del decadentismo) e soprattutto la nuova interpretazione del grandissimo Leopardi, qui a Perugia ho iniziato la mia vita di compagno e di padre (i miei due figli sono nati a Perugia). Qui a Perugia ho pur cominciato a comprendere la legge del "mondo" ("Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili contro i generosi" come scrive Leopardi) e ho compiuto scelte essenziali e mai smentite cercando di praticare la via ardua e quasi paradossale della "virtù" (vecchia ma sempre fondamentale parola: a un mio caro allievo che mi chiedeva che vale l’etica senza la politica risposi che vale la politica senza l’etica) fedele, a mio modo, alla grande parabola evangelica dei gigli dei campi "amate la giustizia e il resto vi sarà dato per sovrappiù" e mi sono persuaso, per sempre, che la vita val solo leopardianamente a "spregiarla", se ai falsi valori del potere e della ricchezza non si preferiscono quelli, veri, della lealtà ("bella come una pura fronte" scriveva ispirato Capitini), dell’autenticità, della giustizia, della verità, del "bene comune", senza di cui la vita non è solo, per sua natura, infelice (l’infelicità è parte e limite essenziale della condizione umana, e la vita alla fine è più "crudele che vana" per dirla con Montale) ma indegna poiché essa "vale" solo per usarla coraggiosamente per terminarla senza viltà e senza stolte speranze.
Certo l’ho imparato dai grandi, essenziali testi fisolofici e poetici, frequentati nel lungo corso della mia vita ("Fais ta longue et lourde tâche... et puis souffre et meurs sans gémer", "the reste is silent"), ma, mentre questi in gran parte li ho già assimilati per sempre nella mia gioventù perugina e mentre la mia dura esperienza del "mondo" l’ho appresa nell’attrito dell’esperienza qui a Perugia, tutto ciò me lo ha anche ispirato il senso profondo di una città scabra ed essenziale, antiretorica e intensa più che edonisticamente "bella", il senso profondo della sua storia, ricca di ribellioni e proteste, spesso temerarie e sconfitte, così come il mio stesso lavoro di intellettuale e di scrittore, il mio stesso metodo critico, fondato sulla tensione di forze e di impegni, commutati nella forza suprema della grande poesia, mi sembra ispirato alla struttura ascensionale e complessa della città, alla metafora tensiva della sua tramontana, che spesso mi è apparsa idealmente tradotta nelle più alte espressioni della poesia, "conforto" stimolo, moltiplicazione di sentimenti e pensieri e non abbietta "consolazione" e frivolo piacere nella lotta pertinace con la realtà ostile della natura e del "mondo": "come fiamma più arde più contesa – dal vento, così alta virtù che’l cielo esalta – tanto più splende quanto più è offesa" secondo la sublime isolata terzina di Michelangelo.
Quella fiamma, quella "tramontana" reale e ideale che hanno acceso dalle radici il mio essere personale e sociale si spengerà interamente solo quando il mio filo biologico (così resistente e così fragile, avviato quasi per ardita scommessa da mia madre, se figlio unico di un figlio unico sono nato fra due fratelli nati morti) si troncherà e io tornerò (si fa per dire) per sempre a Perugia (ma senza alcuna vita né presente né futura) nel Cimitero in cui desidero di essere sepolto accanto a mia madre e alla mia compagna. 4 novembre 1982-1997