"Professione reporter di Antonioni"

Articoli pubblicati nel numero 245, gennaio-febbraio 1977, della rivista "Cinema Nuovo" diretta da Guido Aristarco, poi raccolti nel volume Poetica e poesia (1999).


"Professione reporter di Antonioni"

L’autodistruzione sostanziale (pur nell’apparenza della ricerca di una diversa vita) in cui culmina l’"avventura" di Locke mi sembra ben interessante e attuale e vivamente sollecitante anzitutto proprio in se stessa, in quanto il viaggio verso la rinuncia dell’identità precedente e verso la morte è condotto con maturi moduli e ragioni interne della poetica di Antonioni nei suoi esiti ultimi, in una maniera di poesia conoscitiva e problematica propria di questo grande regista. Né poi, a ben guardare, e pur senza isolatamente ipervalutarli, mancano nel viaggio di Locke acuti segnali politici e sociali propri del nostro tempo, espressivamente risolti, e agganci a problemi su cui il fılm fa "riflettere" lo spettatore: i problemi propri del reporter e del suo "documentare" che la società capitalistica vuole neutro e a cui Locke si ribella, i problemi più fondi del rapporto fra solitudine e diversi raccordi dell’individuo con la società, voluti, non voluti, subiti, desiderati, i problemi dei rivoluzionari in cerca di armi, i problemi dell’Africa fra rivoluzione e tirannide, e i problemi di una Spagna desolata.
Ma il fondo del mio interesse di pessimista rivoluzionario per questo fılm, e in genere per la produzione di Antonioni - tanto intellettuale quanto artisticamente sapiente fıno a un’esasperata specificità - è proprio la maniera lucida e, ripeto, valida artisticamente, con cui questo intellettuale-regista fa vedere problemi propri dell’uomo attuale in una negatività risoluta, premessa, a mio awiso, di ogni vera possibilità di alternativa alla società-realtà in cui orrendamente viviamo. Alla fıne punterei decisamente sul "racconto del cieco" o meglio monologo (dato il rapporto così distaccato che Locke ha con la ragazza incontrata nel labirinto del palazzo di Gaudì, raffıgurato nel suo gelido furore fantastico-onirico), punta estrema delle dichiarazioni reticenti del reporter nel suo viaggio-abbandono a un’altra vita, in realtà diversifıcata da quella abbandonata proprio dalla coscienza di questa parabola-apologo. Locke stesso è il cieco che recupera la vista e perciò si "suicida", e il suo è l’"occhio" aperto che vede la società e la vita, in certo senso, l’"occhio" stesso dell’intellettuale-regista che a sua volta fa recuperare la vista allo spettatore.
E il suicidio del cieco, ora veggente, come il "suicidio" di Locke entrato in una vicenda che non può non condurlo alla morte, sono la sigla forte della insostenibilità dell’esistenza in questa società, in cui l’individuo che "vede" è costretto a desiderare di perdere la sua identità e di rifiutare la vita. Allo spettatore sta poi ricavare l’alternativa (essa stessa problematica e non trionfalistica e sicura): o la morte o l’abbietta rassegnazione. Ma la presa di coscienza, la vista dell’occhio aperto (prima chiuso nelle illusioni quotidiane e nella accettazione di falsi valori e del vitalismo qualunquistico) è momento essenziale anche e soprattutto per chi, solo a questo costo, può profılare la sua protesta e la sua alternativa rivoluzionaria priva essa stessa di ogni "ottimismo". A questo momento essenziale mi pare che porti forte contributo (e con la forza moltiplicatrice e conoscitiva dell’arte) anche l’"occhio" di Antonioni e del suo ultimo fılm.