dalla recensione di Attilio Momigliano a La poetica del decadentismo italiano (1936)

La pubblicazione del saggio La poetica del decadentismo italiano nel 1936 è oggetto di numerose recensioni, ed anche di attacchi politici da parte della stampa di regime a causa della sua apertura culturale estranea agli stereotipi nazionalisti. Attilio Momigliano recensisce il volume sul "Corriere della sera" del 9 ottobre.

Possiamo dividere la storia della nostra lirica in due epoche: dallo stil nuovo al Carducci; e dalla scapigliatura in avanti. Le rivoluzioni letterarie anteriori al ‘60 sono poca cosa in confronto con quella che si inizia ai tempi di Praga e Betteloni, e continua tuttora. Il subcosciente si leva contro l’intelligenza e la ragione; l’atmosfera e la musica abbattono la costruzione e la linea. Il vero anticlassicismo e antitradizionalismo non è quello dei romantici, ma quello dei decadenti.
Queste sono verità acquisite, ma generiche. Si desiderava una storia di questo che è il periodo più complicato della nostra lirica, una storia in cui fossero sciolte tutte le incertezze e le contraddizioni, segnati tutti i trapassi, inquadrati i poeti apparentemente solitari. Esce ora, con questo preciso intento, il libro di un giovanissimo: La poetica del decadentismo italiano di Walter Binni (Firenze, Sansoni).
Non è una storia di poesia, ma di poetica: e in questo è il primo segreto dei suoi risultati. Binni non studia di proposito i frutti della poesia, ma i programmi: i quali, ancora tumultuari e rudimentali negli scapigliati, si fanno più ricchi e più consapevoli in Pascoli e D’Annunzio, i veri creatori della nuova tradizione, nei crespuscolari e nei futuristi. Studiando, non la poesia ma la poetica, esplicita o implicita, egli descrive come in questi lunghi decenni, dagli scapigliati ai crepuscolari, si venga maturando il nuovo ideale poetico, fa la storia della coscienza poetica dell’Italia dal ‘60 ad oggi.
(...) Binni considera quello che va dagli scapigliati ai futuristi come il nostro primo decadentismo e, mi pare, il solo che si possa chiamare con questo nome di scuola. Alla soglia dell’epoca seguente si ferma come se essa, assimilate del tutto le esperienze europee e superatele, segnasse un periodo diverso e originale. Forse anche questi limiti del lavoro, assai discutibili, hanno contribuito a mettere in ombra certi lati di Pascoli e D’Annunzio, i quali invece agiscono ancora come fermenti sulla poesia e sulla prosa d’oggi. Direi, particolarmente sulla prosa.
I dissensi non tolgono che si debba riconoscere a questo libro un valore eccezionale. Una materia prima fluttuante vi è sistemata, complessivamente, con una sicurezza di linee ed una capacità di definizioni che io trovo in pochi dei nostri critici provetti. Vi leggerete molte cose già dette, ma non mai con un così chiaro senso dello svolgimento ininterrotto e logico della storia della nostra cultura e della nostra letteratura. Per esempio, la poesia di Gozzano – e quindi dei crepuscolari – era stata definita "una violenta inserzione di prosa nel Poema paradisiaco": Binni riprende questo rapporto fra D’Annunzio e crepuscolari, ma riattacca quell’inserzione di prosa al verismo e alla poetica pascoliana del "fanciullino"; e quindi sottolinea risolutamente l’origine italiana dei crepuscolari e non lascia, nella storia di questi settant’anni, nessun movimento poetico solitario e indipendente.
Binni è un esempio dell’approfondimento del senso storico operatosi proprio in seno a quella nostra critica che un tempo si chiamava estetica. Questa sua qualità è aiutata da una precisa preparazione teorica e da una singolare capacità di definire, distinguere e collegare le personalità poetiche. Finissimo nelle rare analisi (vedi come isola il decadentismo di Digitale purpurea), Binni è però sopra tutto un critico sintetico e intelligente. Non assapora la poesia, ma la giudica e la stringe in una formula: Lucini, "quasi uno scapigliato ingigantito, fatto più scaltro culturalmente e più esasperato polemicamente"; crepuscolarismo, "poesia dell’umiltà e dell’indifferenza dolente"; alla base del futurismo c’è "una sfiducia nella parola e nel discorso come organismo spirituale capace di espressione". Questa nativa felicità si mescola ancora con la condiscendenza all’approssimativo, alla parola accettata senza saggiarne la necessità o la forza espressiva, e con l’impazienza della composizione. Ma il complesso del libro dice che questi difetti, assorbiti dalla critica deteriore, sono potenzialmente superati.