"A sette mesi dalla morte di Paolo Rossi" (1966)


Nel numero di novembre-dicembre della rivista "La conquista", mensile dei giovani socialisti romani, Binni insiste. Il testo non è mai stato ripubblicato.

Circa sette mesi fa, il 28 aprile, moriva all'Ospedale di S.Giovanni, appena ventenne, Paolo Rossi, studente del primo anno di Architettura, rappresentante della lista dell'UGI (Unione Goliardica Italiana, ndr), iscritto alla Federazione Giovanile Socialista. Moriva per la caduta da un muretto alto pochi metri in seguito ad un malore causato da percosse ricevute (come ormai si va sempre più chiarendo in base a testimonianze e documenti, raccolti dalla famiglia) durante un'aggressione a studenti democratici da parte di elementi nazifascisti specializzati ed attivi da tempo nel più brutale pestaggio dei loro avversari.
Durante quell'aggressione Paolo Rossi si era trovato nella mischia soprattutto (come dimostra chiaramente una delle fotografie scattate in quell'occasione dal fotografo Mordenti) nell'intenzione di trattenere i suoi compagni dal rispondere alle provocazioni fasciste, convinto, com'egli era, della superiorità del metodo della persuasione e del civile confronto rispetto a quello della violenza, della sopraffazione fisica, e non perciò meno persuaso della intollerabilità della sopravvivenza appunto di metodi e di atteggiamenti che più di vent'anni prima avevano subìto la sanzione di una sconfitta definitiva nella guerra di liberazione e nella Resistenza.
Agli ideali dell'antifascismo, della Resistenza, della Costituzione democratica egli era stato educato nel seno di una famiglia cattolica-democratica che aveva partecipato alla Resistenza. E a quegli ideali egli aveva tenuto fede approfondendoli personalmente con una volontà di partecipazione alla causa della giustizia sociale e del rinnovamento civile del nostro paese che lo aveva condotto ad aderire al Partito socialista e alle sue organizzazioni giovanili politiche e studentesche.
E' per tutto ciò che noi ricordiamo e piangiamo ancora la sua morte, la sua giovane vita stroncata nel momento più luminoso del suo sviluppo (quando si apriva sempre meglio a impegni culturali, civili, umani con impetuosa freschezza) non solo come ogni morte precoce, come ogni scomparsa di giovani - in ogni caso crudelmente rapiti agli affetti e all'esercizio dei valori, quando questi in loro sono più puri ed entusiastici - ma come una morte tanto più crudele e insieme tanto più degna di attivo ricordo, perché dovuta non alla malattia e al caso, ma ad una violenza pertinace, stolta e malvagia, e alle circostanze ben precise che permisero a quella violenza di pronunciarsi e di esercitarsi indisturbata e addirittura favorita.
Ciò che in ogni caso, nessuna persona onesta e intelligente può dimenticare è appunto il contesto preciso in cui quella morte avvenne (attività illegale e anticostituzionale di bande teppistiche neofasciste nell'Università di Roma e colpevole tolleranza o favoreggiamento di quella da parte delle autorità accademiche e degli organi preposti alla tutela della legge e della Costituzione) e che fu ben avvertito dalla stessa maggioranza governativa se essa, a conclusione di un lungo dibattito parlamentare su quella morte e sulle vicende dell'Università di Roma, si accordò su di un ordine del giorno inequivoco nel denunciare "l'anormale situazione che per le violenze fasciste si è venuta a determinare nella Università di Roma".
Alla luce di quella diagnosi, che molti degli stessi professori e studenti dell'Università di Roma precisarono energicamente e con documenti inoppugnabili, la morte di Paolo Rossi non può in alcun modo essere ridotta ad un caso incidentale, insignificante e slegato dalla intollerabile situazione generale in cui essa avvenne.
Lo ha autorevolmente, per tutti noi, ribadito pochi giorni fa, a Tribuna politica il compagno De Martino nella sua sdegnata risposta ad un giornalista di destra (illustratosi a lungo nella campagna di diffamazione e alterazione della verità in vari organi di stampa di cui la destra abbondantemente dispone): "Nego assolutamente che negli episodi che lei riporta vi sia stata una speculazione e nego anche che sia stata una pura e semplice disgrazia. La Magistratura può dire quello che crede giusto dire sul piano giudiziario. Noi diamo un giudizio politico. Se lei chiama disgrazia il fatto che un pmovero ragazzo di diciannove anni, che si trova in mezzo a tumulti e violenze all'interno dell'Università, e lì, magari anche per caso, cade e perde la vita, se lei la definisce disgrazia, io la definisco un delitto politico, ricollegandolo al clima che si era creato nell'Università di Roma, all'intolleranza non certo della sinistra, ma di elementi di destra, che ha creato poi le premesse per quelle conseguenze, e che è costata la vita, ancora una volta, a un giovane socialista" ("Avanti!", 7 ottobre 1966).
Ma va aggiunto, a completamento della risposta di De Martino, che il più assillante e spregiudicato esame dei fatti non può non indurci a confermare il carattere non casuale di quella morte. Infatti le fotografie di quella tragica mattina e le testimonianze di tre studenti, che conoscevano Paolo ed erano dunque in condizione di individuarlo durante l'aggressione fascista, ci confortano nella versione delle percosse come causa della sua caduta (la versione degli avvocati e dei periti della famiglia Rossi). E invece nulla prova la presunta malattia di Paolo a cui ostano d'altra parte le infinite testimonianze sulla sua buona salute, sulla sua attività di rocciatore, scalatore, che lo avevano fatto scegliere dai suoi professori fra i giovani adatti a rilievi sulle parti più alte e pericolose di S. Giorgio in Velabro.
Sono queste le ragioni che hanno motivato (insieme alle perizie) la richiesta degli avvocati dei Rossi per una istruttoria formale e che ci danno tanto più il diritto e il dovere di contestare energicamente sia le notizie singolarmente "fuggite" dagli ambienti giudiziari in merito ad una richiesta di archiviazione da parte del Procuratore (e poi in merito ad una archiviazione del Giudice Istruttore che immediatamente si è dimostrata invece non avvenuta), sia la lunga campagna di stampa di destra e "indipendente", intesa, da una parte, a isolare la morte di Paolo dalle circostanze in cui è avvenuta e, dall'altra, a risolverla nell'incidente dovuto alla presunta malattia.
E' qui che il discorso dovrebbe ampliarsi a dismisura sui metodi e le ragioni di quella campagna che, inizialmente promossa dai più direttamente interessati, è stata poi raccolta e rilanciata da tutti gloi organi e settimanali, centrali e periferici, del qualunquismo e "benpensantismo" italiano.
Lo spazio non mi permette di svolgere qui tale discorso amarissimo ed estremamente significativo per la bassezza, la spregiudicatezza faziosa di tanta stampa italiana e per i suoi rapporti con forze precise e con un settore dell'opinione pubblica più proclive a gustare notizie scandalistiche sui partiti e sugli uomini democratici che a cercar di capire la verità dei fatti e il loro significato.
A noi, per amore della verità, per il dovere contratto con il giovane compagno morto, per il dovere perenne di una lotta democratica mai esauribile, spetta di non cedere all'amarezza degli oltraggi, al senso di disgusto che si prova di fronte ad una campagna di stampa così chiaramente falsa, deformatrice, profondamente antidemocratica per contenuti e metodi.
Spetta a noi di condurre avanti, senza opportunismi e remore falsamente prudenziali, una battaglia democratica e civile che, mentre mira a stabilire la verità di fatto sulla morte di Paolo Rossi, non può insieme non mirare a chiarirne i nessi sociali e politici con una situazione più vasta e pericolosa, a colpire i settori che di quella situazione e della stessa campagna di stampa sono stati e sono interessati sostenitori, a sollecitare le forze democratiche ad una assidua vigilanza, ad una estrema chiarezza di intenti, ad una azione energica di fronte al complesso panorama di interessi, di connivenze, di antidemocratica volontà che la morte di Paolo Rossi e la lunga polemica che ne è seguita, ci hanno ancor meglio rivelato.
Noi non chiediamo vendette e violenza (parole di un vocabolario non nostro e indegne del giovane puro che qui ricordiamo), non chiediamo sopraffazioni e alterazioni della verità da contrapporre a chi ne fa la stessa ragione della propria vita meschina e rattratta. Chiediamo però giustizia, verità, rispetto e realizzazione delle leggi costituzionali, come elementi di una decisa lotta contro un mondo vecchio e duro a morire, contro concezioni (se tali possono dirsi) che non hanno diritto di cittadinanza in una società democratica. Perché rifiuto della violenza e fede nella forza delle idee non voglion dire indulgenza inerte e accettazione passiva. Anzi lo stesso amore che proviamo per ogni creatura umana non può non essere severo ed esigente, non può mancare mai di giudizio e attiva presa di posizione su fatti, idee e comportamenti. Altrimenti esso diventa una falsa, sbagliata pietà che lascia i mali e i veleni circolare pericolosi nel corpo della nazione, che lascia le cose come stanno e come vorrebbero che stessero le forze conservatrici.
Per questa sete di giustizia e di verità, per questo inesausto sdegno morale e civile, noi dobbiamo a Paolo Rossi e a noi stessi, al nostro paese e al nostro partito l'impegno di non interrompere la battaglia democratica e antifascista per cui e in cui Paolo Rossi è morto, e in cui si inserisce la lotta per il chiarimento delle circostanze della sua morte e per la giustizia che ad essa va resa.
Come potremmo altrimenti pensare a lui, a lui morto e perduto alla vita? Come potremmo sentirci in pari con lui e con la nostra coscienza?
I morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si possono lasciare alla solitudine del sepolcro. I morti ci chiedono di vivere attraverso l'onore concreto che a loro rendiamo proseguendo la lotta per le ragioni che li condussero alla morte. Non è vero che essi chiedono di essere lasciati nella pace del sepolcro e dell'oblio. Non è vero che essi chiedono di essere posti "al di sopra della mischia". Vogliono, comandano, invece, di vivere nella prosecuzione della lotta in cui sono caduti.
Perciò a Paolo Rossi, in questa ricorrenza, promettiamo ancora una volta di averlo vivo con noi, di batterci per la verità e il significato della sua morte, di proseguire la lotta per cui egli morì, senza odio, ma senza indulgenza, senza violenza, ma senza viltà, affinché dal nostro paese siano cancellate le vergogne che resero possibile il suo sacrificio, affinché gli ideali di democrazia e di socialismo in cui credeva divengano forze e forme effettive della società italiana.