da Preromanticismo italiano, "Introduzione" (1947)
Una vigorosa sistemazione storica della linea di
sensibilità nuova e di nuova critica e poesia, che nel
denso e complesso secondo Settecento italiano, emerge dal
sensismo illuministico in forme preromantiche per intrecciarsi
anche con l'affiorare di elementi neoclassici. Mentre così
viene portata nuova luce sulla consistenza letteraria di molte
personalità maggiori e minori dell'epoca (Parini, Varano,
Bettinelli, i fratelli Verri, Baretti, Cesarotti, Bertola,
Pindemonte, Alfieri) nel libro si svolge, come in un originale
racconto critico, la trama variegata di sentimenti, costumi,
prospettive ideologiche e antropologiche, senso della natura e
del paesaggio, e culmina nella grande e tragica
personalità intellettuale e poetica dell'Alfieri,
preparando così la stessa comprensione di Foscolo e di
Leopardi.
Uno studio di storia letteraria che abbia l'esperienza della
provvisorietà e dell'utilità degli schemi (ma del
resto chi potrebbe vantarsi di adeguare la libertà di una
concreta vita spirituale?) e che sappia l'importanza di una
valutazione non miracolistica della poesia, tende a cogliere
nella poetica di un periodo il complesso vitale di intenzioni, di
aspirazioni culturali, che lega l'espressione poetica al mondo
spirituale senza cui essa non sarebbe nata: e lo lega non
casualmente, ma proprio riducendolo tutto in termini di
discussione letteraria, in dimensioni inevitabilmente di
"poetica", che è sempre il tramite rigoroso fra
indiscriminata esperienza e poesia.
Lavoro storico che non ha nulla di esteriormente deterministico
perché parte sempre dalle personalità che della
storia sono i soggetti, ma che non rimangono monadisticamente
rinchiuse e incomunicabili quando, pur nella massima
possibilità rivoluzionaria, interpretano e realizzano le
esigenze più profonde di un tempo, reagiscono ad una
cultura, discutono e risolvono, ponendone nuovi, dei problemi di
idee e di sensibilità vedendoli sempre in una
Koiné letteraria da cui muovono per il loro
particolare senso del valore. Sì che un Rimbaud nella sua
apparenza di "caso" non era che il più contemporaneo al
tempo dei segreti fermenti di una poetica del subconscio cui
già in diversa maniera tendevano Blake e Novalis.
Tali studi di storia della poetica si rivelano tanto più
incisivi per quei periodi in cui matura una crisi letteraria, nel
passaggio fra due culture letterarie, dove ai vecchi schemi di
origine romantica e all'indistinzione cronistica meglio si
oppongono linee corrispondenti a precise volontà in campo
artistico: il che non vuol dire far la storia dello stile
o dei semplici mezzi espressivi.
Uno di questi periodi della nostra storia letteraria è
quello del secondo Settecento, pieno di ricca complessità,
in cui reazioni diverse si complicano, tendono ad equilibrio e ne
escono in una storia di ardimenti a metà, di rivoluzioni
facili e frivole e insieme di squarci improvvisi nel tessuto
più appariscente, di accomodamenti verso una sistemazione
coerente sulla base di una costante tradizionale di buon senso e
di moderazione. Il nome di preromanticismo (che in
Germania combatte con Frühromantik e in Italia con il
crociano protoromanticismo) designa utilmente ai nostri
scopi un periodo che ha la sua tipica atmosfera, ma soprattutto
vive come avvio ad una civiltà letteraria più
organica, come svolgimento e abbandono di una poetica nella sua
piena maturità. Periodo in cui provvisorie sintesi si
realizzano su residui di una cultura consumata e su spunti di una
nuova sensibilità, su fermenti ancora torbidi, ma capaci
di incidere sul linguaggio tradizionale, di sommuoverlo entro i
suoi chiari limiti aulici. E mentre un più caratteristico
tono di sensibilità languida, smorzata, autunnale
distingue un momento di costume letterario dal quasi
contemporaneo svolgersi del gusto neoclassico, in realtà
l'aspirazione alla perfezione del secondo e l'ansia di sensazioni
indefinite e infinite del primo si fondono in un deciso distacco
dalla sintesi arcadico-illuministica, dalla placida
sensibilità di una poetica a base razionalistica:
sicché il nome di preromanticismo meglio si addice a tutto
il periodo del secondo Settecento (in cui tra l'altro da noi il
neoclassicismo non è ancora pienamente sviluppato), a quel
fascio nervosissimo di problemi, di esigenze assai confuse in cui
elementi spesso contrastanti collaborano (remore reazionarie che
si confondono con l'esigenza del concreto, dell'individualizzato,
del tradizionale) ad una nuova cultura letteraria. Il primato
è indubbiamente della sensibilità e sotto il suo
segno si svolgono le nuove intuizioni, ma sarebbe un errore
limitare degli studi sul preromanticismo alla auscultazione
dell'"anima sensibile" a cui ci ha abituato soprattutto la
critica francese dei vari Monglond o Trahard, dimenticando come
il sentimentalismo settecentesco specie in Italia si avvia
a vigoroso senso del concreto ed a coscienza del dramma della
situazione umana, della storia umana, con la presenza più
o meno segreta delle grandi intuizioni del Vico.
Certo uno studio più attento di questo periodo nei suoi
motivi di sensibilità quali si vengono formando in un
linguaggio poetico che ne risente l'urgenza e si sforza di
accettarli (anche dai testi stranieri) senza spezzarsi, integra e
corregge l'eccessiva attenzione prestata tradizionalmente da noi
al più generico e desanctisiano rinnovamento come
prerisorgimento soprattutto civile e nazionale, e dà un
senso a quelle presenze di scrittori, di traduttori che ogni
testo scolastico riporta dalle vecchie indagini, dai paralleli
della scuola dello Zumbini o dello Zanella, dai primi tentativi
di "letteratura comparata", senza passare a ricercare il loro
valore di testimonianza nel campo concreto della lingua poetica,
del gusto, della sensibilità, ed unitariamente nella
storia della poetica, in un momento in cui, prima della
più decisiva crisi del seconto Ottocento, l'aulica
tradizione italiana subisce un urto potente sui suoi tipici
baluardi di canto metastasiano e di decoro pariniano.
Naturalmente nessuna pretesa di voler "spiegare" la poesia di un
Foscolo o di un Leopardi con uno studio del preromanticismo, ma
per quello che riguarda la poetica di quei grandi romantici
neoclassici è legittimo pienamente chiedersi se tra la
poetica di un Parini e la loro (al di là dei legami che a
quella li stringe per il côté classicistico)
non si possa trovare una trama letteraria in cui si avvertono
atteggiamenti, cadenze che colmano quel divario di impostazione
generale. Si leggano, ad esempio, i primi versi del Giorno
(Sorge il mattino in compagnia dell'alba
dinanzi al sol, che di poi grande appare
su l'estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l'onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel moglie e i minori
suoi figlioletti intiepidir la notte;
poi sul dorso recando i sacri arnesi
che prima ritrovò Cerere e Pale,
move seguendo i lenti bovi, e scuote
lungo il picciol sentier da i curvi rami
fresca rugiada che di gemme al paro
la nascente del sol luce rifrange.)
e si avrà come uno spaccato di quella poetica: ecco il
suono uguale, confermato dall'incontro di parole precise,
conclusive per la loro forza di definizione e di eleganza,
dall'aggettivazione sempre operante, collaborante a precisare
sensazioni le più oggettive possibili. E nel paesaggio una
decorazione meticolosa, lineare, con poco colore, senza notazioni
suggestive e sentimentali, concentrata sul particolare prezioso e
quasi miniaturistico.
Da questa poetica a quella di un Foscolo, di un Leopardi non
c'è solo il divario dell'accento personale, ma anche un
divario di tempo poetico, di cultura letteraria, per cui,
malgrado l'ammirazione e la presenza del Parini a quei due grandi
poeti, il tono della loro poesia è così nuovo e
quasi al di là di una avvenuta rivoluzione. Si rompa una
pagina dell'Ortis: "Andavo dianzi perdendomi per le
campagne, inferraiuolato sino agli occhi, considerando lo
squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi, senza erba
né fronda che mi attestasse le sue passate dovizie.
Né poteano gli occhi miei lungamente lissarsi su le spalle
de' monti, il vertice de' quali era immerso in una negra nube di
gelida nebbia che piombava ad accrescere il lutto dell'aere
freddo ed ottenebrato. E parevami vedere quelle nevi
disciogliersi e precipitare a torrenti che innondavano il piano,
strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne e
sterminando in un giorno le fatiche di tanti anni e le speranze
di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un raggio di
sole, il quale quantunque restasse poi soverchiato dalla
caligine, lasciava pur di vedere che sua mercè soltanto il
mondo non era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io
rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva
ancor le tracce del suo splendore: O Sole! diss'io, tutto cangia
quaggiù! E verrà giorno che Dio ritirerà il
suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato né
più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti,
né più l'alba inghirlandata di celesti rose
verrà cinta di un tuo raggio su l'oriente ad annunziar che
tu sorgi" (18 gennaio). Senza istituire un minuto esame
stilistico, quale diversa impostazione nel giovane Foscolo che
pur vedeva nel Parini un maestro di vita e di arte! Basti
osservare come il paesaggio tempestoso e sconvolto sia adoperato
non descrittivisticamente, ma per un urto sentimentale, per la
creazione di un tono tetro a cui il movimento di questa prosa si
adatta con la sua abbondanza che non è più l'enfasi
barocca sopravvissuta nel Settecento per particolari effetti, con
il suo procedere a masse preordinate in cui i particolari, tanto
amorosamente rilevati dal Parini, hanno importanza di
rafforzamento di un'onda colorita a grandi chiazze dai contorni
sfumati, senza un disegno secco ed evidente su di un campo di
luce uguale e funzionale al disegno stesso.
Nuove parole godute per il loro suono greve e per il cupo
pittoresco cumulo di verbi per rendere un movimento numeroso e
turgido: mezzi di una poetica che tende all'impeto, al movimento
sentimentale, non più alla chiara eleganza settecentesca,
a quel disegno minuto e preciso. Più al sublime,
che al bello, per adoperare una terminologia dell'epoca.
Quelle invocazioni appassionate e dolenti che accomunano
all'ansia dell'uomo nuovi miti di una natura che non è
più sfondo decoroso e sensuale, e che ritornano con una
forza distintiva che le fa "leopardiane" nell'inizio del Canto
del Pastore o in altri Canti:
Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai
silenziosa luna?
Come nell'Ortis l'idillio campestre che si alterna ai
motivi dell'orrore cosmico e della disperazione umana è
ben lontano dall'edonismo arcadico, tutto teso com'è a un
senso di fedeltà insidiata e nostalgica che si traduce in
colore leggermente appannato, in luminosità fremente ed
ansiosa. E se per il Foscolo si può dire che
l'Ortis è poi superato nella poetica dei
Sepolcri e delle Grazie (che però da quella
esperienza essenziale non potrebbero in alcun modo prescindere),
anche l'idillio leopardiano ha dietro di sé una somma di
esperienze preromantiche che ammettono la sua intonazione ben
diversamente da quanto farebbe una semplice autorizzazione
tassesco-arcadica.
Si legga del Cesarotti questa paginetta sul bello morale ("La
mescolanza del bello morale col sensibile rende questo più
interessante. Un boschetto di alberi ben disposti è bello
per sé; ma se questo è di cipressi funebri ci
attrae di più per la dolce melanconia che sveglia in noi
l'idea della caducità umana. La sensazione divien
più viva e profonda, se in mezzo a un circondario di
cipressi v'è una tomba o una memoria di un uomo celebrato
o caro... Un mare in tempesta presenta l'aspetto d'un nulla
terribile ma esso divien patetico se veggiamo da lungi un legno
in pericolo di naufragare... Una campagna solitaria con una
capanna e una greggia condotta da un pastorello inteso a suonar
la zampogna, divien deliziosa, perché sveglia l'idea della
pace e della innocenza") e i "temi" del preromanticismo si
presentano nella loro autonoma vitalità e nel loro
pretesto e suggerimento a ben altri idilli e a ben altre
meditazioni poetiche. Si legga qualche periodo delle Prose
campestri del Pindemonte ("Ah sì, viene un tempo nel
quale più che il sentir nuovi affetti, giova contentarsi
della rimembranza di quelli che abbiam sentito. Ragionamenti,
letture, espansioni di cuore, rimproveri dolci, innocenti
scherzi, piaceri dell'anima, momenti felici e rapidi, no, io non
v'ho interamente perduto") - e si metta vicino magari a qualche
pagina del Viaggio sul Reno del Bertola - e si sente il
piano letterario, di esperienza di poetica su cui si muove certa
prosa ottocentesca. Si legga una declamazione sull'orrido
del Gargallo
(Un lungo ululo d'upupa e di gufi,
e belve urlar, che il raggio odian diurno,
e Borea, che scrosciar fa la boscaglia,
e un volger di fiumi taciturno),
e non appare sconnessa e letterariamente casuale la presenza
più moderata dei testi romantici del primo Ottocento. Come
le dichiarazioni in sede di poetica (perché è
questo che a noi interessa) di un Bettinelli, di un A. Verri, di
un Baretti storicizzano ampiamente la continuità e la
novità, attraverso il nuovo bagno di europeismo, di un
Berchet, alla stessa maniera che la potente rivoluzione poetica
dell'Alfieri è presente alla sintesi dei grandi romantici
neoclassici a cui portò essenziali suggestioni di
linguaggio e di cadenza la versione cesarottiana
dell'Ossian:
Ma dimmi, o bella luce, ove t'ascondi,
lasciando il corso tuo, quando svanisce
la tua candida faccia? Hai tu, com'io
l'ampie tue sale? O ad abitar ten vai
nell'ombra del dolor? Cadder dal cielo
le tue sorelle? O più non son coloro
che nella notte s'allegraron teco?
Sì, sì, luce leggiadra, essi son spenti
e tu spesso per piangerli t'ascondi.
Ma verrà notte ancor che tu, tu stessa
cadrai per sempre, e lascerai nel cielo
il tuo azzurro sentier...
Così più di una ricerca su lontani precursori (le
ricerche del Quigley e del Robertson sui precedenti italiani del
Bodmer) di teorie estetiche romantiche, mi è sembrato
importante richiamare l'attenzione sulla viva esperienza di
letterati e poeti legati in una comunanza di problemi e di tempo
in quegli anni ricchissimi di curiosità europeistica, in
cui stimoli esterni di diversa direzione (per intendersi, Pope e
Rousseau) coincidono con il caratteristico raccorciamento dello
sviluppo italiano nel quale elementi illuministici maturano
accanto a potenti fermenti preromantici elidendosi e
complicandosi in un impasto storico di grande interesse e tale da
spiegare la particolare natura dello stesso romanticismo italiano
nelle sue direzioni fondamentali di neoclassicismo romantico
(Foscolo-Leopardi) e di romanticismo 1816.
E fuori del chiuso ambito (naturalmente chiuso, ma concreto)
della nostra storia letteraria, uno studio che si propone di
saggiare la poetica romantica in formazione, i vari tentativi di
compromesso e di rivoluzione, di sintesi e di rottura entro la
nostra tradizione, contribuisce ad arricchire quella larga e
multiforme indagine europea "entre classicisme et romantisme",
aiutando ad una precisazione del problema preromantico fuori del
vago sensibilismo o del contenutistico studio di costume
letterario alla Van Tieghem e alla Baldensperger, nella sua
natura spirituale, ma insieme rigorosamente di poetica, una volta
che ci si sia intesi su di una storia letteraria in cui non i
poeti divengano documenti di un'epoca, ma i vari aspetti
dell'epoca, le sue aspirazioni etiche, religiose vengano portati
coerentemente nel commutatore della poetica. Se si vuole,
ripeto, fare storia letteraria e non panorama di
civiltà.
Così a voler intendere la sintesi di un Pindemonte, l'urto
estremistico di un Viale, la fortunata audacia del Cesarotti,
gioverà viceversa aver presente il più largo
significato del preromanticismo e la sua complessità
europea, la sua natura di novità che determina le reazioni
e gli entusiasmi dei letterati italiani di fronte ai nuovi testi
e alle loro traduzioni.
E proprio a questo scopo è essenziale indicare come nella
destinazione singolarmente poetica dei motivi preromantici (bello
morale, sublime, ma culminante in espressione d'arte) la forza
rivoluzionaria sia costituita da un primo impulso non letterario,
da un motivo vitale, da un malessere, da un'ansia teoricamente
ingiustificata nel pieno della civiltà settecentesca
animata da un sostanziale senso di benessere (anche dove
prevalgono le accuse di Candide, anche dove, secondo il
bellissimo brano di Goethe nella Dichtung und Wahrheit,
l'ottimismo illuministico sembrava trovare una amara e inattesa
sconfessione nel terremoto di Lisbona), di virtù attiva e
compensata edonisticamente.
L'insoddisfazione dei metodi minuziosi della ragione avviava
un'elegia (il termine più adatto all'intonazione
preromantica) sensibile e dolente che solo più tardi il
romanticismo organizzava come Streben verso l'assoluto e
teorizzava nel grande idealismo tedesco, ma che in quell'aria di
tramonto e di alba si svolgeva in una religiosità vaga,
ora volta allo sfogo dell'orrido e del macabro ora rifugiata in
un idillio elegiaco il cui termine di colloquio è la
natura. Una natura diventata qualcosa di più
che sfondo e decorazione, non più considerata a piccole
sezioni miniaturistiche, ma nel suo ritmo più libero,
mitizzata come prima originale espressione della vita; intima,
solenne e paurosa nel suo persistere primitivo fuori di ogni
possibile progresso, nel suo ripetere una parola misteriosa e
solenne che elude la nostra capacità speculativa e suscita
in noi l'unica misura con cui possiamo adeguarci a quel ritmo: il
sentimento. Termini tradizionali della più facile
riduzione Saint-Pierre Chateaubriand, ma vivi nel loro vigore
più poetico e segreto già prima della formazione
dei grandi miti romantici della protesta contro un potere
"arcano" e neroniano (il Caino byroniano, il
Gesù nell'orto di Vigny, la Ginestra
leopardiana) fin dal Prometeo goethiano (1744) e prima ancora
nella meditazione lirica dei preromantici inglesi e tedeschi.
In Inghilterra, in periodo illuministico, l'empirismo aveva in se
stesso i germi del proprio superamento sentimentale e insieme la
possibilità di una sistemazione Addison-Pope (buon
senso-buon gusto), di una poetica di decoroso ragionamento in
versi che portava come bersaglio polemico la vistosa
eredità di Boileau:
(quelque sujet qu'on traite, ou plaisant ou sublime, que
toujours le bon sens s'accorde avec la rime)
e che poteva essere ripudiata come "poesia" da Keats nella stessa
misura che Leopardi adoperò per Parini.
Ma sulle grazie geometriche dell'Omero imparruccato e dei
poemetti del progresso scientifico, il sensismo inglese dava
dignità ai sensi interni, al sentimento e questa
autorizzazione si complicava singolarmente con quella specie di
sensismo spiritualistico e mistico cui, al di là del
moralismo sentimentale dei romanzi di Richardson, collaboravano
le insorgenti esigenze pietistiche il cui esempio più
decisivo, nella sua monotona ed ossessiva tensione, le
Notti di E. Young, implicava (e lo Young aveva teorizzato
una violenta protesta contro la tirannia delle regole e delle
tradizioni letterarie) una rottura senza riserve del cerchio
ottimismo-decorazione per un ricorso integrale alla esaltazione,
alla allucinazione come via ad un lirismo più che
letterario, ad una espressione incurante di ordine e di
chiarezza. Quella prosa di morbosa appassionatezza, quel
procedere per ritorni ossessivi, per suggestione di immagini
accumulate ed insistenti nella direzione notte e morte a
cui il paesaggio allude continuamente con l'aiuto più
tradizionale del sublime biblico miltoniano, è al centro
di quella preoccupazione di eloquenza poetica che trova il testo
più realizzato nella Elegia del Gray e la grandiosa
figurazione poematica nello pseudo-Ossian macphersoniano,
che accogliendo la nuova curiosità delle emozioni (il
romanzo nero è in questo senso indice di un turbamento
più profondo di una moda piacevole) costituiva il
tentativo più consapevole, e quindi efficace, di
concretare l'angoscia del suo tempo in una rappresentazione quasi
tradizionale: personaggi, costume, paesaggio, tutti mezzi per
suggerire quell'esaltazione tetra, quell'orrore senza spiegazione
che provocava, nella patina di falso antico, violenze
linguistiche e soluzioni letterarie, capaci di una maniera e di
un gusto. Anche nella letteratura tedesca una grande poesia
barocca ricca di fermenti religiosi che superano in esaltazione
poetica i limiti di qualsiasi preziosismo o marinismo (Gerhardt,
Spee, Hoffmanswaldau), aveva lasciato nel pieno trionfo
fridericiano, della Stilisierung razionalistica, un impeto
che non manca nel limpido problemismo di Lessing e la ricerca del
popolare passava facilmente, come in Claudius, dalla chiarezza
razionale alla intuitività del sentimento. Per cui si
può tradizionalmente parlare di Gegenoffensive des
Gefühls come del superamento di una parentesi eterogenea
allo spirito poetico tedesco. E accanto alle fondamentali
intuizioni di Hamann, Herder, sulla direttiva dello storicismo
idealistico, la rivolta dello Sturm und Drang, il
wertherismo, spezzando il prezioso impasto francese-tedesco del
rococò, la misura decorativa verso il grandioso indefinito
del genio e dell'anima melanconica, si univano all'idillio di
Gessner e alla meditazione lirico-religiosa di Haller e
Klopstock, le cui poesie bardite venivano poi a rinforzare
l'influenza ossianesca in Europa.
Sì che fra le due letterature nordiche si operava una
specie di fraterna collaborazione nella rottura della poetica
illuministica e nella formazione di un animo poetico nuovo,
superiore, anche se appoggiato, alle semplici discussioni
teoriche, realizzato in esemplari poetici, in testi che
letterature come quella francese ed italiana dovevano risentire
con un di più di fascino, di meraviglia e di repulsione
anche se non mancavano di precedenti in senso preromantico,
specie nelle querelles sulle regole o sugli antichi e i
moderni.
In Francia il reagente più notevole per una evoluzione
preromantica del sensismo che là sembrava trovare la sua
sistemazione più razionalistica e materialistica, priva di
ogni fermento religioso di qualsiasi source (si può
ricordare che il Vallery-Radot nel compilare la sua Anthologie
de la poésie catholique en France, Paris 1933, non ha
trovato autori per il secolo XVIII), fu l'indagine romanzesca
sulle passioni che arrivò a Sade e Rétif e
Choderlos de Laclos, ma che già in Manon Lescaut,
prima di una chiara influenza del Richardson, portava punte
nervose e tenere che resistettero al modulo di prosa rapida,
eccitata intellettualmente dei romanzi illuministici di Voltaire,
e si ammorbidirono e si svolsero in linea coerente fino a
Saint-Pierre e a Rousseau: "le maître des âmes
sensibles", lo scandalo dei Lasserre e dei Reynaud nel loro
rifiuto del romanticismo come fenomeno anglogermanico,
antifrancese, introdotto abusivamente da transfughi della
luminosa tradizione classicista. Uno di questi contrabbandieri
sarebbe quel magnifico traduttore della seconda metà del
secolo che le storie letterarie francesi calcolano troppo poco e
che nella sua opera di mediazione intelligente e raflinata
tradusse Young, Macpherson (e Shakespeare) e dotato di una
facilità sorvegliata e delle possibilità estreme
della poetica sensista, creò una prosa vivace e languida
insieme che rimase esempio decisivo di prosa preromantica
francese, di ritmo preromantico anche per molti letterati
italiani.
Tourneur operò una mediazione più facile in quanto
egli non tentò neppure di accordare i nuovi testi poetici
con una tradizione di alta poesia che in quel tempo era decaduta
in un classicismo arido ed in un estenuato giuoco rococò,
e tradusse prosa poetica (Macpherson e Young) in una prosa
poetica già svegliata nei romanzieri da una sottile
indagine della sensibilità, dei sentimenti:
"Partout où mes vers rediront ta mort, tu recevras
les soupirs des coeurs sensibles: le jeune homme dans la fogue de
l'âge et des plaisirs suspendra la joie pour s'attendrir
sur ton sort: il ira mélancolique et pensif, rêver
à toi au milieu des tombeaux... ". In un certo smorzamento
più elegante dell'originale, Tourneur mira a tendere la
capacità poetica della prosa romanzesca francese al suo
massimo, senza rivoluzionarla e senza ricorrere alla lirica in
versi.
Con Rousseau e Diderot (le cui intuizioni potenti circa la natura
istintiva della poesia, la sua condizione inevitabilmente geniale
e la sua qualità di "enorme et barbare et sauvage"
trovano una maturità contemporanea che da noi mancò
ai preannunci di Vico) l'opera di Tourneur stimola gli sparsi
elementi di discussione e di sensibilità
"larmoyante" ad una poetica che sempre meglio è
nutrita di una cultura letteraria veramente europea e non
regolistica come era in generale rimasta quella illuministica
eccessivamente appoggiata sul classicismo boileauiano.
La tradizione italiana non aveva nel primo Settecento - a parte
il Vico - valide autorizzazioni in senso preromantico e la
sintesi poetica pariniana aveva una forza prepotente di
esclusiva che non trovava aperte ragioni di protesta,
realizzando un'opera che rispondeva anche all'incipiente tendenza
neoclassica, come inverava e superava la tenerezza arcadica in
sensistica sfumatura.
È perciò da quella poetica tipicamente
settecentesca che il preromanticismo italiano si distingue e si
distacca con un delicato intreccio di dichiarazioni critiche, di
attuazioni poetiche a cui resta essenziale la presenza del
preromanticismo europeo nella mediazione complessa o
contraddittoria delle traduzioni. Mentre una discussione ideale e
trattenuta da esplosioni tardive di illuminismo, da ritorni di
posizioni più antiquate si avvia fra i letterati
più aperti ed europei in una crisi di cultura letteraria
in cui è difficile distinguere nettamente, se non nella
sua collaborazione alla più generale poetica, la linea
nuova; le traduzioni dei testi preromantici inglesi e tedeschi,
spesso nella mediazione francese, vengono a sollecitare e a
suscitare l'evoluzione del sensismo, la lotta antiregolistica,
l'amore del concreto, la personalizzazione del sublime nel
genio, le nuove posizioni insomma da cui ha origine il
romanticismo, confermando qualche isolata espressione indigena
(Varano), permettendo esempi di una nuova maniera poetica. Donde
una più larga e feconda crisi entro il linguaggio poetico
inadatto ad accogliere quelle immagini, quella lirica cresciuta
su di una oratoria tetra e desolata, quei moti dolenti di un
languore non procedente da intenerita sensualità, ma da
torbidi sviluppi sentimentali. Senza una libertà di prosa
come quella del romanzo francese, le traduzioni o rimanevano
letterali e sconcertanti o richiedevano accomodamenti e
riduzioni: ma pur in questa opera contrastata di accettazioni
timide e di riduzioni, di equivoci entusiasmi, i letterati
italiani 1770 risentivano la poetica dei preromantici inglesi e
tedeschi e nella imitazione (che prendeva carattere di moda
coesistente con altre mode e maniere) di "notti", "tombe", "canti
barditi", "idilli malinconici", una nuova aura poetica si
diffondeva, nuovi canoni e nuovi modelli si precisavano
all'attenzione generale: fra i quali l'ammiratissimo
Ossian nella mediazione del Cesarotti. E questa, che
è la massima esperienza preromantica prima dell'Alfieri,
supera ogni altro tentativo di mediazione e rappresenta da sola,
con la sua efficacia di formato poema, con la coscienza critica e
linguistica del Cesarotti, il più concreto testo
preromantico e il più ricco spunto sia come mondo di
suggestioni fantastiche, sia proprio come realizzazione di
immagini in versi, alla poetica di tanti romantici.
Dopo la versione cesarottiana e l'era delle traduzioni, la
diffusa moda preromantica diventa periferico esercizio o
fortunato equilibrio, come soprattutto nel Pindemonte (che
riprospetta in un impasto neoclassico - preromantico la laboriosa
sintesi di motivi storicamente diversi), mentre una sorta di
estremismo preromantico sembra voler spezzare risolutamente la
decorosa forma tradizionale e resta come una mano tesa verso il
romanticismo dei Tedaldi Fores e dei Guerrazzi.
Con il romanticismo 1816, dopo la decisiva irruzione del
titanismo alfieriano, e la definitiva consumazione di ogni
Arcadia preromantica, e con il grande romanticismo
neoclassico di Foscolo e Leopardi, nuove esperienze coerenti, e
chiarite anche nei loro contatti europei, sostituiscono gli esili
tentativi del secondo Settecento; ma non c'è poetica
ottocentesca che nel suo distacco dal limite pariniano non abbia
fatto i suoi conti con i testi della crisi preromantica.
I capitoli che seguono tendono perciò a dare un contributo
per una storia del romanticismo italiano e a costituire insieme
un approfondimento storico di un'epoca di crisi della nostra
letteratura nelle sue linee di gusto, nella sua concreta
attività poetica.
da "Parini e l'illuminismo" (1956)
Curatore di un precoce commento alle Odi del Parini nel
1938, Binni dedicherà un assiduo impegno critico alla
complessa poetica pariniana nei suoi nuclei fondamentali: "il
classicismo del letterato, il sensismo del realista,
l'illuminismo del riformatore", di cui tenterà una prima
sintesi dinamica in uno dei capitoli di Preromanticismo
italiano (1947): "sintesi mirabile di Arcadia, illuminismo,
sensismo, su base classicistica". Gli studi di Binni, che trovano
un momento significativo in questo saggio del 1956, approderanno
a una grande sintesi nel capitolo pariniano del volume Il
Settecento (1968) della Storia della letteratura italiana
Garzanti diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno,
riproposto con note aggiunte nel volume Settecento maggiore
(1978). Il brano che segue è l'inizio del saggio del
1956.
Nel quadro della cultura illuministica italiana la poesia del
Parini rappresenta la sintesi più alta e originale di
motivi ideali e di esigenze artistiche proprie di quella cultura:
sintesi che supera con una coscienza letteraria e poetica
più sicura e personale le forme più divulgative e
seccamente razionalistiche di un semplice didascalismo insaporito
da una più esterna eleganza oraziana (la posizione
dell'"util poeta e tosco Orazio" attribuita dal Bettinelli
all'Algarotti) e supera insieme l'edonismo
classicistico-rococò di un Savioli con un deciso impegno
morale e con la forza persuasa di un alto messaggio umano e
civile che originalmente traduce la fede fondamentale di una
civiltà lucida e fervida, attiva e innovatrice.
Tutta l'opera del Parini si può sostanzialmente inscrivere
nelle generali esigenze della civiltà illuministica anche
se di queste essa offre una versione particolare, caratterizzata
da una personale misura morale e poetica che, come rifiuta le
posizioni estreme dell'ideologia sistematica e le forme
più immediate di una concezione letteraria puramente
didascalica e contenutistica, così nettamente reagisce poi
alle tentazioni della sensibilità e del gusto
preromantico, condannati dal poeta in nome della sua
fedeltà alla tradizione italo-greca e alla luce di un
preciso ideale di vita ispirato ai binomi inseparabili di
Natura-Ragione e Piacere-Virtù.
Ideali che ben rappresentano compendiosamente l'incontro
fondamentale nel Parini di ispirazioni illuministiche e
umanistiche e sorreggono al centro lo svolgimento della sua
opera, anche se le "costanti" pariniane del classicismo e
dell'illuminismo si precisano in dosature di diversa
intensità, attraverso una storia di fasi non opposte e
rigidamente schematiche, ma duttilmente identificabili in un
processo che dagli inizi arcadici e da posizioni più
combattive sale ad una più alta fase finale, in cui il
classicismo si fa più chiaramente "neoclassicismo" nobile
e virilmente sereno e la fede illuministica si depura in un
ideale di saggezza umana più personale e luminosamente
poetico.
Si può discutere la precisa linea di tale storia, ma certo
con l'attenzione ad essa pare anche più facile proporre
una immagine complessa e storica di fronte alle eventuali
immagini contrastanti e forzate di un Parini come puro letterato
arcadico-umanistico, a cui i contenuti civili e ideali potrebbero
essere semplice pretesto di alta esperienza stilistica, e di un
Parini poeta civile illuministicamente prerivoluzionario o
addirittura presocialista.
E a proposito di questa seconda interpretazione occorrerà
comunque subito precisare che, mentre la posizione illuministica
del Parini ha una sua evoluzione quanto ad intensità
polemica, essa è, in generale, contraddistinta da un forte
senso di misura, di cautela, di concretezza, diffidente di ogni
avventura e di ogni affrettata rottura dell'ordine presente.
Come, già nel periodo più combattivo, chiaramente
ci attesta la significativa contrapposizione, nella "Cicalata in
versi" I Ciarlatani, del '62, tra il riformatore prudente che
compie sicuri passi di progresso, iniziato con una autoriforma
morale, e il rivoluzionario dottrinario e fanaticamente
sistematico:
Un filosofo viene
tutto modesto, e dice:
- Bisogna a poco a poco,
pian pian, di loco in loco
levar gli errori dal mondo morale:
dunque ciascuno emendi
prima sé stesso e poi degli altri il male. -
Ecco un altro che grida:
- Tutto il mondo è corrotto;
bisogna metter sotto
quello che sta di sopra, e rovesciare
le leggi, il governare;
non è che il mio sistema
che il possa render sano. -
Credete al primo; l'altro è un ciarlatano.
Prudenza riformatrice ben in accordo, del resto, con il concreto
moto riformatore, a cui, nella Lombardia austriaca, il Parini
attivamente collaborò, e che, d'altra parte sarebbe
ugualmente errato ridurre a timidezza e a gusto di compromesso
ritardatore di un più forte movimento storico,
perché a quella prudenza non manca mai il genuino accento
di una decisa persuasione, di una fede in un sicuro progresso
umano, morale, civile che supera in profonda partecipazione
personale quello che poteva essere un semplice accompagnamento
dell'azione riformatrice ufficiale da parte di un poeta
cortigiano.
da "Tre liriche del Carducci" (1957)
Alternando il momento della sintesi con quello dell'analisi,
l'esplorazione della lirica Nevicata propone una nuova
interpretazione della poetica carducciana, entrando in quelle
"zone d'ombra" già segnalate da Luigi Russo, in un nuovo
intreccio energico di analisi tematica e stilistica. Il saggio
del 1957 sarà poi raccolto nel volume Carducci e altri
saggi (1960).
I.
NEVICATA
Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita più non salgon da la città,
non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzon ilare e di gioventù.
Da la torre di piazza roche per l'aëre le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí.
Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
In breve, o cari, in breve - tu càlmati indomito cuore -
giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò.
Dirò subito che questa "barbara" è per me uno dei
risultati più interi ed intensi della poesia del Carducci,
una sintesi equilibrata ed energica delle sue tendenze più
personali, una prova notevole delle sue possibilità di
concentrazione lirica e di sicura realizzazione espressiva, della
sua matura ricchezza di vibrazione e di suggestione sentimentale
e fantastica tutta dominata in un'articolazione scandita e
continua, in un quadro compatto, senza incrinature e cadute di
tono.
Proprio in tal senso è una risposta positiva ai nostri
dubbi, alla nostra insoddisfazione di fronte ai pericoli di
diluizione dei nuclei lirici, di cadute e sbalzi di tono
così frequenti nel Carducci anche in poesie ispirate che
tante volte chiedono se non tagli antologici certo sorvoli rapidi
su parti improvvisamente scadenti ed approssimative, in cui la
tensione poetica autentica vien surrogata dai sobbalzi del
declamato o da confidenze troppo discorsive o da compiacimenti
illustrativi agevolati dalla tentazione della varietà e da
certi conati di una poetica spesso poco sicura fra tecnicismo
aristocratico e prezioso, facilità parlante e i più
pesanti "doveri" e la pericolosa vocazione costituzionale del
vaticinio civile e patriottico.
Qui invece (e del resto la brevità è propizia in
generale al Carducci, malgrado la sua tendenza all'affresco e
all'opera complessa in cui più raramente la sua forza
regge all'impegno) la concentrazione è massima, la
intuizione centrale si è svolta intera, ha riempito tutto
il quadro sino ai suoi margini estremi, senza dispersioni, senza
sbavature sentimentali, senza pose di outrance
sentimentale e verbale, pur essendo ricca di una dolente
sensibilità, di un impeto che tende, entro una costruzione
squadrata e netta, ogni parola, ogni movimento di ritmo, ogni
immagme con la pienezza e la sicurezza di una poesia che trova un
consolidamento espressivo coerente ed unitario.
Certo, sia ben chiaro, sempre nei limiti di profondità di
un poeta che mi pare rischioso ed errato mettere a paragone con
quei maggiori poeti lontani o vicini (e sian questi Foscolo o
Leopardi), da cui lo distacca (ed egli ne fu a suo modo cosciente
se parlando della sua "religione per i grandi poeti", per "i
grandi astri che ridono eterni", se ne dichiarava dolorosamente
lontano quanto a propria forza creativa), una minore pienezza
lirica centrale, una diversa profondità della parola che
sale da zone interiori più circoscritte e meno complesse,
realizzandosi in una minore assolutezza espressiva, in uno stile
che mantiene spesso qualcosa di più greve e pesante, di
meno limpido e puro, mentre la sua stessa serietà
artistica e tecnica non può vincere spesso centrali
incertezze, oscillazioni fra l'approssimativo e il prezioso. Ma,
affermati francamente questi limiti costituzionali, mi pare che
in questo componimento si possa cogliere uno dei momenti
più intensi e realizzati delle vere possibilità
poetiche carducciane.
In questa poesia, in questo eccezionale momento di riepilogo
interiore da parte di un poeta che ha il pieno possesso di tutti
i suoi mezzi e motivi lirici senza più distinzione fra
ispirazione e tecnica, il Carducci rivedeva liricamente entro di
sé, in un'attiva memoria dolente e vigorosa, lo
svolgimento più profondo e l'approdo virile funereo della
sua tormentata esperienza vitale, tesa fra orgogliosi impeti di
affermazione, di possesso della realtà, di ideali
umanistico-naturalistici, di intero contatto con gli uomini,
condotti fino all'espansione euforica del Canto
dell'amore, e il sentimento della difficoltà e
fragilità di quel possesso, della resistenza di una
realtà umana opaca e deludente. Sentimento quest'ultimo
che lo aveva portato, proprio nel pieno della passione per Lidia,
a immergersi cupamente nel tedio (parola e sentimento ben suo, al
di là di certe forzature di posa romantica, corrispondente
ad un polo del suo fondamentale contrasto di temperamento e di
intuizione lirica della vita), a rifugiarsi fra i morti che non
deludono e che non tradiscono, a contemplare la tomba non solo
con l'orrore affascinato della sua condizione di totale
esclusione, ma proprio nel suo fascino di rifugio, di suprema e
dolorosa sicurezza, di risposta sdegnosa ed eroica alla
mediocrità e alla viltà, agli inganni del presente
e degli uomini impari all'altezza del sogno di una umanità
intera e poetica, di quella schiatta "alta, gentile e pura" cui
il Carducci aspirava ardentemente già all'aprirsi della
sua maturità umana e poetica.
Di questa tensione alla morte, e al rifugio tra i morti si era
fatto espressione concitata e sintetica il grido "il mio cuore
è coi morti" che, nel '74, aveva dominato il ritornello
doloroso di Brindisi funebre ("beviam, beviamo ai morti -
con essi sta il mio cuor"), e aveva risuonato in tante lettere di
anni successivi con la sicurezza di un leitmotiv
profondamente consolidato in una precisa sentenza personale e
poetica. E questa aveva trovato la sua precisa formulazione fra
stimolo di esperienze dolorose e il contatto propizio con un
testo di Hölderlin letto e tradotto parzialmente
nell'agosto-settembre 1874: quella poesia Griechenland sul
cui finale il Carducci tornò ancora nel 1903 variandone
leggermente la traduzione con la mano mal certa in una delle
ultime patetiche sue prove di scrittura a lapis, tanto quei versi
gli erano cari, tanto egli aveva sentito la loro importanza nella
chiarificazione di un suo sentimento che chiedeva e non trovava
ancor bene espressione.
Quel finale di Griechenland infatti lo aveva aiutato, fra
lettura e traduzione, a definire questo suo ardente e cupo
desiderio della morte come rifugio dolente e consolatore e a
precisarne le direzioni essenziali di una impetuosa discesa alla
casa dei morti con quel "giù" così carico di
tensione e di brama complicata dal sentimento fisico della tomba
e dell'Ade che il Carducci sentiva soprattutto come sotterraneo,
non celeste, indissolubilmente legato alla sua sensibilità
tutta terrena ed umana:
Là dove il mirto e un miglior sol corona
Anacreonte e Alceo là giù vo' gir!
Con i santi là giù di Maratona
ne l'esil casa d'Hade io vo' dormir!
La mia lacrima estrema, Ellade bella,
scorra e risuoni il canto ultimo a te!
Alza le forci omai, fatal sorella,
perché tutto co' morti il mio cuor è.
Poi, proprio nel 1880, la lettura e traduzione di un altro brano
di Hölderlin (poeta-guida di questo motivo nella propizia
consonanza di una posizione neoclassicoromantica di amore della
Grecia e di nostalgia di un passato eroico e luminoso) venne a
rinforzare, in un periodo di meditazione cimiteriale così
intenso (aperto nel '79 dall'elegia Fuori alla Certosa di
Bologna), la suggestione, il fascino della discesa fra i
morti sempre più intensificato da un sentimento di precoce
vecchiaia, di crescente solitudine e distacco, fra la scomparsa e
la perdita di vecchi e giovani amici e la fine dell'amore per
Lidia, prima ancora della sua morte.
Quando il 29 gennaio 1881, sullo sfondo sollecitante della cupa
giornata invernale e nevosa (già l'anno precedente
l'elegia Ave. In morte di G. P. si era aperta sullo sfondo
di una giornata di neve: "Or che le nevi premono, | lenzuol
funereo, le terre e gli animi, e de la vita il fremito | fioco
per l'aura vernal disperdesi"), il Carducci scrisse la prima
stesura di Nevicata, tutti quegli spunti e avvii del
motivo che fermentava da tempo nel suo animo e nella sua
fantasia, quelle parole e immagini già provate e incubate
nelle lettere, nelle traduzioni da Hölderlin, nelle poesie
precedenti (e con quelle altre parole e ritmi più suoi ed
echi di altri poeti sentiti come congeniali alla situazione o ad
elementi del suo svolgimento) vennero a raccogliersi entro una
centrale intuizione, così diversa dalle forme di uno sfogo
immediato e diaristico. E si composero, presero spazio poetico in
un quadro in cui la situazione immediata e precisa (l'interno
dello studio del poeta, la finestra dai vetri appannati, lo
sguardo al cielo nevoso, l'attenzione al silenzio che nega e
recupera i suoni consueti, stimolata dal tocco isolato delle ore
della torre di piazza) si liricizza in rapporto all'espressione
del motivo a lungo meditato e si dispone a prepararlo, a creargli
suggestione e realtà di scena.
Una scena, che nella energica simmetria del componimento, occupa
con la sua più diretta espressione tutta la prima
metà della poesia sino al trapasso ad una scena più
interiore, precisato nel verso 6 in cui il suono delle ore svolge
la sua allusione più segreta, il suo intimo riferimento al
misterioso sospiro di un mondo perduto e lontano dalla vita
consueta, alla voce prima dei morti.
E in questa prima scena che crea l'atmosfera
realistico-suggestiva e conduce dall'esterno all'interno, sulla
guida di una sensibilissima disposizione progressiva pur
nell'apparente giustapporsi staccato e pausato di impressioni a
sé stanti, e sul filo unitario di un continuo riferimento
all'attenzione centrale del poeta (prima lo sguardo al cielo
cinereo e alla neve che lenta fiocca, poi la sensazione del
silenzio che abolisce, ricordandoli e trasferendoli in una zona
di nostalgia implicita e sommessa, i suoni del giorno consueto,
poi l'attutito vibrare dell'unico suono che resiste e che nella
sua unicità suggerisce l'avvio più deciso allo
sviluppo della interpretazione più personale e poetica di
tutte queste sensazioni e di questa dimensione insolita fra
realtà e sogno interiore), la realizzazione di un
così eccezionale e perfetto equilibrio in tensione
raccoglie, come già dicevo, parole, immagini, ritmi
più veramente carducciani nella loro funzione più
matura e originale.
Si pensi per le parole-colore e suono al tematico "cinereo" (uno
dei colori più tipici delle gamme carducciane nella loro
bipartita tensione e nei loro impasti a contrasto), al "roco",
che nell'eccellente incontro ritmico del verso 5 ("roche per
l'aere le ore") riprende la prova di Mors più
pesantemente onomatopeica ("e solo il rivo roco s'ode gemere"). O
si pensi all'immagine del silenzio della giornata nevosa (Ave e
alcune aperture di lettere), o, nella singolare e non più
ripresa adozione di un particolare distico elegiaco, all'impasto
di ritmo solenne e rapido, scandito e vibrante, di predominante
lentezza energica e pensosa con esiti di squillo attutito e di
suono cupo nei finali dei distici mediante un ardito impiego (non
divertimento prezioso, ma funzione di poesia) delle cinque vocali
accentate in fine di verso: quasi con una utilizzazione superiore
delle tendenze di ritmo e di suono di Rime nuove e di
Odi barbare sulla trama dominante delle seconde.
Poi, dopo il primo distico in cui più forte domina il
silenzio e lo squallore della giornata invernale, un movimento
più animato cresce nel secondo distico fino al chiaro
recupero nostalgico, pur nella negazione, di freschi elementi
vitali con il rilievo lieto di quell'"ilare" (vibrante incontro
di immagine e suono) e lo squillo rapido del finale "e di
gioventù". Mentre il ritmo più lento, monotono,
scuro del terzo distico trova un esito più complesso nella
direzione di uno sviluppo di distanza suggestiva, di suono che
apre il passaggio ad una zona misteriosa, spirituale,
approfondita dalla sua stessa misteriosa lontananza.
Proprio sull'avvio del verso 6 (dove la componente del singolare
spiritualismo carducciano non prevarica in vaporosità,
come troppo spesso succede nello sviluppo senile, lievito e
pericolo di Rime e ritmi, fra gli esiti alti
dell'Elegia del Monte Spluga e l'inconcludente misticismo
della Chiesa di Polenta), la poesia si svolge nella sua
parte più intensa, più lirica: quella a cui il
Carducci da tempo soprattutto pensava, ma che aveva bisogno, per
superare il grido autobiografico, la notazione
epistolare-diaristica, appunto di tutta la mitizzazione scenica,
del quadro realistico-fantastico entro cui l'appello ai morti,
l'impeto della discesa fra loro trova la forza di trasfigurarsi
fantasticamente, anche se nei modi energicamente compendiosi e
concentrati che son propri del migliore Carducci.
Con un potente passaggio, la mitizzazione dei morti negli
"uccelli raminghi" che picchiano ai vetri appannati, rivela il
suo significato aperto e la forza dell'immagine iniziale, la sua
ferma violenza tempestosa che imprime una eccezionale pienezza
alle singole parole, e si ripercuote intera nel finale del
distico traducendosi nell'energico riferimento personale in cui
la posizione del dativo "a me" dopo "chiamano" per superare la
semplice assimilazione al reggimento del primo verbo in un
violento salire dell'onda poetica fino all'intensissima forma di
dativo personale: "guardano e chiamano a me", che unifica tutto
ormai nel rapporto diretto fra il poeta e i morti.
Al loro appello e al loro sguardo affascinante e inquieto
risponde l'ultimo distico, in cui il motivo, maturato a contatto
di Hölderlin, si svolge e si arricchisce nella risposta ai
morti e nel brusco, patetico invito al cuore a placarsi. Un
invito che in quella risposta si inserisce audacissimo a
movimentare drammaticamente questo dialogo concitato e dolente,
ricco di risonanze elegiache e affettuose, accelerato dalla
urgenza che proveniva dall'appello dei morti e che si ripercuote
nella replica del rassicurante "in breve", per concludersi nel
denso, scuro sviluppo di suoni, di direzioni, di parole-immagini
funerarie ("giù al silenzio verrò, ne l'ombra
riposerò"), tese da un'estrema energia volitiva,
perentoria e tutta vibrante fra un sospirato desiderio di rifugio
e di riposo da tutto ciò che la vita rappresenta di vile,
di deludente, di mediocre, di malvagio e un dolente rimpianto e
una prefigurazione di abbandono degli aspetti consolatori della
vitalità. Aspetti negati assolutamente dai termini estremi
del loro contrasto ("giù", "silenzio", "ombra") e che,
d'altra parte, anche in questa poesia il Carducci aveva trovato
modo di ricordare e vagheggiar sobriamente pur negandoli ("non
d'amor la canzon ilare e di gioventú") nel quadro della
giornata invernale e del suo simbolo cimiteriale secondo un
modulo di contrasto essenziale alla sua visione poetica.
A questo risultato così deciso e pieno il Carducci giunse
attraverso una elaborazione che, pur sulla base di un primo
abbozzo sostanzialmente ben delineante i termini essenziali della
poesia, indica molto significativamente per noi il procedere
della sua espressione, e soprattutto isola bene i punti
più significativi della poesia, il passaggio sempre
più sicuro a quella totale immagine sintetica così
sua e matura nello scarto dei pericoli di approssimazione, di
letterarietà, o di vaporosità o pesantezza.
L'elaborazione di Nevicata si dispone in quattro momenti:
due vicinissimi, il 29 e il 30 gennaio, uno più lontano,
11-18-19-20-21-24 marzo, l'ultimo, quello della stampa, avvenuta
il 3 aprile quando la poesia venne pubblicata nella "Rassegna
Settimanale" col titolo di Nevata.
Nel passaggio dall'abbozzo (che presenta un complesso insieme di
varianti) del 29 gennaio alla stesura completa del giorno
seguente, la poesia venne consolidandosi con una intensificazione
del motivo centrale e con la sostituzione di forme più
schiettamente carducciane ad altre più deboli, più
esterne, più letterarie o approssimative.
Al verso 1 "ciel di cenere" diviene "ciel cinereo", addensando la
forma precedente più pesante e distaccata nell'aggettivo
ricco di vibrazioni foniche e allusive.
Al verso 3 la sistemazione è definitiva e assimila
più personalmente i chiari echi leopardiani della
Quiete dopo la tempesta. Come avviene anche al verso 5
ormai fissato nella sua forza di precisione e allusione musicale
immaginativa, tolto l'ingombro della qualifica dell'aer "freddo"
che distraeva dalla sensazione del suono delle ore che ora
riempie grave e suggestivo tutto il verso.
Mentre al verso 6, ancora così insufficiente, il Carducci
trovava almeno l'esito squillante ("manda" dell'abbozzo diviene
"spedì"), che risponde all'esito accentato dei versi 2 e
4: passaggio dall'eco lieta e struggente di suoni vitali a quello
misterioso di un primo appello alla visione interiore, anche se
in forme d'immagine troppo aperta e direttamente funerea ("le ore
| passano messagger che la morte spedì").
Al verso 7, eliminata la tentazione dell'eccesso realistico
("beccano") e cambiato l'approssimativo "annebbiati" in
"appannati" così coerente visivamente alla sensazione
attutita già realizzata in quella del suono roco delle
ore, il verso si completa metricamente con l'acquisto di un minor
distacco tra l'immagine simbolica e il suo spiegato contenuto
prima troppo chiuso nel verso successivo. E nei versi 7-8 compare
l'enjambement che dà sviluppo più concreto
al passaggio dall'immagine al suo significato simbolico.
Il verso 8 trova il suo finale energico e doloroso, completando
il percorso già seguito nelle varianti dell'abbuzzo
("m'aspettan là giù" variato in "chiaman là
giù", e quindi, successivamente, in "invitano reduci",
"chiaman reduci a me") e rimandando all'ultimo distico l'intera
forza dell'indicazione del luogo cui il poeta è chiamato.
E lo sguardo e l'appello dei morti vien meglio scandito, il
riferimento personale diventa più intenso, per non dir
poi, nell'ultimo distico, di come la forza perentoria del finale
"riposerò" si opponga definitivamente al moto più
blando (anche se forse più logicamente coerente all'idea
della compagnia dei morti) del quasi pacificato "riposeremo
là giù".
Molti punti però rimanevano ancora incerti e inadeguati e
solo a distanza di mesi un nuovo ripensamento riesce ad avviare
la soluzione dell'essenziale passaggio del verso 6 (accanto alla
vecchia lezione "passano, messagger che la morte spedì"
compare la lezione definitiva, ma con incertezze e cancellature,
eliminate solo sulle bozze di stampa) mentre al verso 9
ugualmente si abbinano due lezioni di cui nelle bozze appar
compiuta la scelta definitiva: "in breve, o cari, in breve - tu
calmati indomito cuore" e (veramente assurda e spia di tentazioni
contro cui il Carducci anche in questa poesia ispirata
dové lottare) "spengiti, o mente altera, tu calmati
indomito cuore" come varianti della prima parte del verso.
Fra le bozze e la stampa gli ultimi ritocchi, e fra questi la
felice trasformazione del verso 4 che ne uscì tutto
più mosso e illuminato da quel centrale "ilare", la
modificazione del verso 2 che passa ad una forma più
unitaria, ma ancora mancante del "più" essenziale al ritmo
e alla precisazione della scena invernale silenziosa in contrasto
con il fervore consueto delle giornate (modificazione
quest'ultima apportata nella edizione delle Poesie del
1900) e l'estremo reinserimento del "giù" al verso 10 che
il poeta aveva tentato nella terza stesura con una trasposizione
sbagliata dei due termini del moto a luogo ("giù
all'ombra") e che ora trova la sua collocazione e il suo accordo
perfetto.
Così la poesia raggiungeva il suo equilibrio in tensione,
la sua luce, il suo chiaroscuro, la sua musica interiore, la sua
squadrata nettezza tutta vibrante di violenza appassionata, la
sua virile fermezza.
Il messaggio della Ginestra ai giovani del ventesimo secolo
(1988)
Articolo pubblicato nel numero di maggio-giugno 1988 della
rivista "Cinema Nuovo" diretta da Guido Aristarco. Una forte
attualizzazione etico-politica dell'estremo messaggio
leopardiano. Il testo sarà poi raccolto nel volume
Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di
metodologia (1993) .
La Ginestra, scritta nel 1836 quasi alle soglie della morte,
desiderata e presentita è, nell'economia interna della
vicenda vitale e intellettuale-poetica del Leopardi, il suo
supremo messaggio etico-filosofico espresso interamente in una
suprema forma poetica, mentre nella storia letteraria - su piano
non solo italiano - è insieme, non solo il più
vigoroso ed alto dei "messaggi" dei grandi poeti dell'epoca
romantica (Friedensfeier di Hölderlin, il
Prometheus unbound di Shelley, la Bouteille à la
mer di Vigny), ma addirittura, a mio avviso, la poesia
più grande degli ultimi due secoli, la più
significativa per la problematica nascente del mondo moderno, la
più aperta su di un lungo futuro che tuttora ci coinvolge
e ci supera.
Questa altissima valutazione della Ginestra (al culmine di
una interpretazione dell'ultimo periodo della poesia leopardiana,
da me impostata ventenne sin dal 1934-'35 con una tesina
universitaria alla Normale di Pisa e con un articolo ricavatone,
strutturata più saldamente nel mio libro del 1947 La
nuova poetica leopardiana, poi sviluppata in una
ricostruzione dinamica di tutto Leopardi nell'introduzione alla
mia edizione di Tutte le opere di Leopardi del 1969 e nel
mio volume La protesta di Leopardi del '73 e su su fino ad
oggi) venne a rompere decisamente una lunga tradizione di grave
fraintendimento e di mistificazione in chiave "idillica" di tutto
Leopardi (pensatore e poeta troppo scomodo ed inquietante nella
sua vera realtà per una società bisognosa di
"melodie" rassicuranti), e quindi di svalutazione della
Ginestra perché giudicata non "idillica", ritenuta
un ragionamento in versi o un frammentario assortimento di brani
oratorii, discorsivi e di qualche raro squarcio poetico definito
appunto di ritorno di "idillio" o di "idillio cosmico". Mentre la
Ginestra trovò accoglienza sin entusiastica da
parte cattolica (il caso di Ungaretti) ma perché
erroneamente, quando non tendenziosamente, letta come un puro e
semplice messaggio di "amore cristiano". Proprio in risposta a
quest'ultimo grave fraintendimento, per comprendere la vera
natura e grandezza della Ginestra occorre anzitutto
intendere la direzione delle posizioni ideologiche e morali
leopardiane (veicolate dalla sua grande e nuova forza creativa)
che sono qui condotte alla loro conclusione estrema, al culmine
di una battaglia polemica, in forme originalmente poetiche,
contro tutte le ideologie reazionarie o liberalmoderate
eticopolitiche e filosofiche dell'età della Restaurazione,
fra la Palinodia, I nuovi credenti e l'autentico
capolavoro aspramente satirico e polemico dei Paralipomeni
della Batracomiomachia, capolavoro e non opera minore come fu
valutata fino a quello che in tempi recenti Liana Cellerino ha
chiamato "il colpo di scena della folgorante rivalutazione di
Binni nel '47".
La direzione per me (e per altri miei compagni di lavoro)
indiscutibile del pensiero leopardiano specie nella sua fase
matura ed ultima, è quella di un materialismo
razionalistico, complesso ed articolato: dopo la giovanile lunga
fase del "sistema" della natura benefica e delle generose, vitali
illusioni contrapposte alla raison sterile e
sterilizzatrice di ogni spontaneità e grandezza, la
ragione è divenuta sempre più per Leopardi una
ragione concreta che demistifica la realtà, la libera
dalle "superbe fole" cristiane e spiritualistiche rivelando la
vera natura dell'universo e della stessa specie umana. Tutta
materia che, nel caso dell'uomo, è "materia che sente e
pensa", quella materia pensante che comporta la
vacuità dello "spirito" che per Leopardi non è
più che flatus vocis. Donde un antiteismo ribelle e
alla fine un deciso ateismo, in opposizione ad ogni pretesa
teocentrica, geocentrica, antropocentrica, ad ogni visione
provvidenzialistica sia religiosa che "prometeica".
La ragione sempre più è persuasa delle sue
fondamentali verità e insieme sempre più è
capace di autocriticarsi e di porsi nuovi problemi (si pensi alla
dolorosa, sublime problematica delle due canzoni sepolcrali con
il susseguirsi di interrogazioni, di affermazioni e ancora
interrogazioni sul tema bruciante della morte senza al di
là e della separazione per sempre fra le
persone strette da un profondo vincolo di amore, supremo
scelus della natura matrigna) di moltiplicarli con le
stesse proprie forze e con quelle inerenti della immaginazione e
del sentimento (forze tutte di origine materiale, diremmo adesso,
di origine biochimica).
Così quella che Leopardi chiamava "la sua filosofia
disperata ma vera" combatte a tutto campo la credenza in una vita
ultraterrena come quella di una natura dell'uomo creato per la
felicità e per la sua perfettibilità. Filosofia,
quella leopardiana, fondata sul coraggio della verità (il
"nulla al ver detraendo" della Ginestra è il vero
blasone araldico di Leopardi) e affermante la fondamentale
infelicità, caducità, limitatezza della sorte
dell'uomo e della terra ("l'oscuro granel di sabbia - il qual di
terra ha nome") di cui proprio nella Ginestra gli uomini
del suo "secol superbo e sciocco" sono, in maniera impellente,
invitati a prendere chiara coscienza. E tale consapevolezza
è necessaria e preliminare a quella via ardua e stretta
che il Leopardi (vero intellettuale ed eroe del "vero", opposto
all'orgoglioso intellettuale spiritualista ed ottimista,
rappresentante della sua epoca e, si badi bene, "astuto o folle"
e dunque spesso anche collaboratore consapevole delle forze e
classi dominanti propone come unica possibilità di attiva
unione fra gli uomini, come unica alternativa alla falsa
società fondata sulla forza del potere arbitrario e sul
sostegno a questo delle credenze spiritualistiche e religiose.
E tale unica alternativa è la risposta "eroica" di non
rassegnazione, di non autocompianto, ma viceversa di resistenza,
di difesa contro la natura nemica, che coinvolge necessariamente
tutti gli uomini: eroismo è amor proprio rivolto agli
altri, al "bene comune", ai "pubblici fati", e così si
spiega il nesso fra il protagonista della Ginestra,
Leopardi, e il simbolo della "odorata ginestra" ("i danni
altrui commiserando"). E in tal senso non si tratta
davvero di un simbolo di "femminilità", di
passività e di rassegnazione come alcuni studiosi
vorrebbero, e il "vero amore" leopardiano è amore con
rigore, e non esclude, anzi richiede severità energica
nella lotta per la verità contro gli stolti o interessati
intellettuali che fanno regredire il pensiero e celano la
verità materialistica ed atea, pessimistica-eroica al
popolo cui essa è interamente dovuta. Vero amore
fra tutti gli uomini della terra, verità pessimistica,
coraggiosamente impugnata contro ogni ritorno e riflusso di
spiritualismo e di sciocco ottimismo e che si realizzano in lotta
contro la natura ostile e contro quella parte di natura che
è radice della malvagità degli stessi uomini ("dico
che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini
dabbene, di vili contro i generosi" afferma Leopardi nel 1°
dei Pensieri). Questa lotta, fondata sulla diffusione
della verità che può e deve educare il popolo, vale
per una prassi sociale interamente alternativa rispetto a quella
tradizionale basata sull'"egoismo" (che particolarmente si
esaltava già allora nella emergente società
borghese) mentre sarà invece democratica, giusta e
fraterna la nuova polis comunitaria sorta dall'alleanza di
tutti gli uomini contro il "nemico comune".
E questa lotta è tanto più doverosa quanto
più ardua e difficile, senza nessuna garanzia divina o
umana di successo, esposta continuamente alla distruzione anche
totale della vita sulla terra, per opera della natura o dello
stesso stolto pensare ed agire degli uomini. La massa ingente di
pensieri e di proposte etico-civili che gremisce questo testo
fondamentale per la civiltà umana (proprio noi ne sentiamo
la profonda attualità nel nostro tempo per tante ragioni
minaccioso ed oscuro, sotto l'incombere del pericolo nucleare e
dei disastri ecologici, fra tanto riflusso di evasione nel
privato e del risorgere in nuove forme sofisticate di uno
sfrenato irrazionalismo e misticismo e nuovi travestimenti
ideologici di sfruttamento dell'uomo sull'uomo) non è un
nobile altissimo appello privo di adeguata e coerente forza
poetica. Anzi ciò che gli conferisce l'intero suo spessore
ideale è proprio la coerente, integrale collaborazione e
sin fusione costante fra pensiero e poesia, la sua formidabile,
necessaria espressione poetica, originalissima ed eversiva,
pessimistica ed "eroica" come la tematica e problematica del suo
nerbo etico-filosofico, promossa com'è dalla spinta di una
esperienza poetica precedente così complessa, e
soprattutto dalla nuova "poetica" energica, eroica dell'ultimo
periodo leopardiano dopo il '30 e così strutturata in una
estrema novità di forme lirico-sinfoniche, di cui qui
è impossibile render conto adeguato, ma di cui almeno
indicheremo la inaudita pressione del ritmo incalzante come in
questa perentoria affermazione della sua personale distinzione da
quegli intellettuali in mala fede che adulano il "secol superbo e
sciocco" ("non io - con tal vergogna - scenderò sotterra;
- ma il disprezzo piuttosto che si serra - di te nel petto mio -
mostrato avrò quanto si possa aperto"), della costruzione
a strofe lunghissime, tentacolari, avvolgenti, con l'uso
spregiudicato e nuovissimo di rime, rime interne, assonanze,
ossessive ripetizioni di parole, spesso ignote al linguaggio
aulico e tradizionale della lirica ("fetido orgoglio",
"vigliaccamente rivolgesti il dosso" significativamente riprese
dal linguaggio aspramente creativo dell'Alfieri delle
Satire), sprezzante di ogni décor
classicistico. E soprattutto la adozione non casuale - ma
promossa dai temi e problemi del pensiero e del comportamento
morale - di un linguaggio"materialistico", estremamente
fisicizzato, sì che anche i paesaggi desertici e lividi
appaiono come un'arida, nuda, scabra, scagliosa crosta terrestre
violentemente lacerata dalla stessa forza aggressiva che promuove
la direzione aggressiva del pensiero. Mentre le rare immagini di
esseri viventi, animali selvatici e repellenti (ad eccezione
dell'unica figura umana del "villanello" laborioso che segnala la
forza autentica dell'attrazione di Leopardi per le "persone"
delle classi subalterne "la cui vita - come scrive in una grande
lettera da Roma del 1823 - si fonda sul vero e non sul falso",
cioè che vivono "di travaglio e non d'intrigo, d'impostura
e d'inganno" come la maggior parte della parassitaria popolazione
romana del tempo) sono investite da una violenta deformazione e
colte nello spasimo vitalmente degradato del loro movimento sotto
la luce ossessiva e funerea del deserto vesuviano o delle rovine
scheletrite e allucinanti di Pompei: "dove s'annida e si contorce
al sole - la serpe e dove al noto - cavernoso covil torna il
coniglio", "e nell'orror della secreta notte - per li vacui
teatri, - per li templi deformi e per le rotte - case, ove i
parti il pipistrello asconde".
Contro ogni vecchia e nuova operazione distinzionistica
esercitata sulla Ginestra, si oppone l'enorme forza
vitale, l'eccezionale ampiezza di respiro ideale, morale e
poetico, la forza del ritmo incessante (che è della poesia
e del pensiero inseparabilmente) che non permette se non a
"tecnici" senza senso di pensiero e di poesia, di operare
distinzioni entro quell'unitaria e dinamica specie di colata
lavica che di per sé comanda uno spregiudicato e adeguato
modo di lettura critica certo agevolato, per uomini del nostro
secolo, da alti esempi di poesia e arte disarmonica ed aspra (si
pensi al Montale di Ossi di seppia, alla musica del
Wozzek di Alban Berg, alla Guernica di Picasso ,
all'Alexander Nevskji, Ottobre di Ejzenstejn, per stare ad
esempi fin troppo ovvii). Basti portare almeno un esempio di tale
forza trascinante unitaria: la citazione della strofe quinta, in
cui la sequenza formidabile della colata della lava del Vesuvio e
dei suoi effetti distruttivi è appoggiata al paragone con
il formicaio distrutto dalla caduta di "un picciol pomo" (si
ripensa alla finale meditazione di Julien Sorel in attesa della
ghigliottina, con il paragone della casualità della sorte
umana e quella del formicaio investito e distrutto dallo scarpone
ferrato del cacciatore in corsa dietro la sua preda nel quasi
contemporaneo Le rouge et le noir di Stendhal) ed è
tanto altamente e intensamente poetica quanto valida a
certificare la verità della miseria e debolezza degli
uomini assimilati alle formiche nell'eguale esposizione alle
casuali catastrofi naturali.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Di questo supremo messaggio del Leopardi si poteva già
trovare, fra le altre, una notevole traccia di parziale
anticipazione in un pensiero dello Zibaldone del 13 aprile
1827, i cui stessi contenuti sono ben significativi per la
tensione di Leopardi verso una nuova civilizzazione e una nuova
umanità comunitaria: tensione che è come un filo
rosso che si intreccia a tanti altri fili della folta matassa
leopardiana fino al suo predominio nell'ultima fase del suo
pensiero e della sua poesia: "Congetture sopra una futura
civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle
scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede
che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o
selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle
scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la
civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre
nuove conquiste, e non può star ferma, né
contenersi dentro alcun termine, massime in quanto
all'estensione, e finché vi siano creature civilizzabili e
associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande
alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro
alle cose non intelligenti. Può servire per la
Lettera a un giovane del ventesimo secolo" . La
Ginestra può leggersi anche come la realizzazione
suprema di questa Lettera a un giovane del ventesimo
secolo, mai stesa, ma vivamente pensata: messaggio, quello
della Ginestra, che è, sulla asserita, amarissima
realtà della sorte degli uomini tutta e solo su questa
terra, tanto più l'invito urgente ad una lotta per una
attiva e concorde prassi sociale, per una società
comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, "eguale"
giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui
successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più
doverosa proprio nella sua ardua difficoltà.
Ed ogni lettore che abbia storicamente e correttamente compresa
la direzione delle posizioni leopardiane (anche se personalmente
non le condivida interamente) non può comunque uscire
dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico,
inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il
proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) "un impeto,
una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni" (e non con
l'animo "in calma e in riposo") che è appunto per Leopardi
il vero effetto della grande poesia.
Dall'ultima lezione leopardiana, sulla Ginestra (1993)
In occasione dell'ottantesimo compleanno di Binni, numerosi
allievi e colleghi dell'Università di Roma, ma anche delle
altre Università dove Binni ha insegnato - Genova, Pisa,
Firenze - chiedono al "maestro" un'ultima lezione, in un'aula
piena di giovani studentesse e studenti. Una lezione "a braccio",
nella migliore tradizione di una lunga e appassionata
attività di critico-insegnante. Il testo sarà poi
raccolto nel volume Lezioni leopardiane (1994) .
Ultima fase appunto in cui Leopardi viene a svolgere (sono gli
ultimi anni napoletani) una specie di forte polemica, una sorta
di battaglia in versi, ma sempre veramente di grande
realizzazione poetica, checché se ne dica o se ne sia
detto. Cioè tra la Palinodia, I nuovi credenti e
soprattutto i Paralipomeni della Batracomiomachia, che
sono una delle opere più grandi che Leopardi ha scritto e
una delle opere più fermentanti, veramente ribollenti di
pensiero anche persino prepolitico e fin politico, in cui si
affermano principi di tipo rivoluzionario come lo "stato franco",
cioè le repubbliche popolari democratiche, che sviluppano
modernamente i caratteri precipui delle repubbliche popolari
antiche. Tutti i principi del pensiero della Restaurazione
vengono aggrediti violentemente. Ed è soprattutto una
battaglia che colpisce al fondo la "natura" diventata ormai
chiaramente, come si veniva in lui delineando da tempo, ostile,
nemica dell'uomo, ma insieme soprattutto gli ideologi che
sostenevano le posizioni antropocentriche, geocentriche,
ottimistiche, del progresso puramente tecnologico, che è
aggredito violentemente nella Palinodia: appunto
l'ambiente fiorentino dell'Antologia con il suo ottimismo e falso
progressismo illusorio, aggredito in forza di un pessimismo acre
che giunge proprio quasi a un punto di non ritorno nella
Palinodia con un'aggressione violenta anche al potere
divino o della natura e a quello dell'uomo sull'uomo. Tutto
questo porta a capire come e in quale ambito nasca La
ginestra, questo capolavoro che, ormai non solo per me,
è senz'altro il capolavoro conclusivo del lungo cammino
leopardiano e in particolare di questa fase di poesia che veicola
posizioni di estrema aggressività. E a proposito di questo
capolavoro bisogna mettere bene in chiaro due cose: primo, che
naturalmente questo altissimo riconoscimento non comporta di per
sé l'adesione di chi legge questa grande poesia alle
posizioni che essa veicola, come per Dante, che noi ammiriamo e
sentiamo come il più grande poeta italiano (per me insieme
a Leopardi): ne sentiamo l'enorme spessore, la forza interiore e
il vigore del pensiero, quella forza che ci ricarica potentemente
pur non condividendo naturalmente le posizioni ideologiche che ne
alimentano la poetica. E d'altra parte bisogna capire che per
"leggere" La ginestra è necessario porsi in una
posizione corretta di comprensione degli elementi personali,
ideologici, delle posizioni di pensiero che la poetica
leopardiana dell'ultimo periodo viene vigorosamente potenziando,
commutandoli in direzione artistica con adeguate, geniali, nuove
ardite forme, di cui il grande Leopardi nella Ginestra
è fornitore.
Per capire poi questa poesia basti una delineazione breve, ma pur
necessaria, della posizione a cui Leopardi è arrivato
proprio al termine del suo percorso e al termine anche della sua
vita. Vi è arrivato attraverso un lungo e tormentoso
itinerario in cui alcune posizioni sembrano addirittura a un
certo punto (se non se ne considerino tutte le mediazioni, cosa
che qui non possiamo fare) capovolte: la "natura" era stata per
lungo tempo il centro del sistema appunto "della natura e delle
illusioni", la natura che aveva fornito le generose illusioni,
che dava la vita schietta, i sentimenti autentici e la poesia
stessa e che era nemica della ragione calcolatrice, sterilizzante
così che uccideva le passioni in poesia. Ma poi tale
concetto nello svolgimento e logoramento attraverso le
Operette morali e nel forte pensiero dello
Zibaldone, è prospettato in una posizione
antitetica assoluta: l'inimicizia della natura con il suo
carattere meccanico, indifferente, ostile, in base a una
posizione, a un pensiero che è quello che il Leopardi
chiama qui con precise parole: "il calle insino allora / Dal
risorto pensier segnato innanti', (vv. 54-55), cioè il
pensiero che va soprattutto dalla filosofia
rinascimentale-sperimentale fino al materialismo settecentesco a
cui Leopardi, badate bene, porta arricchimenti e potenziamenti
che non possono essere sottovalutati. Non si tratta di
un'immediata ripresa di ciò che può venire dai
testi dei materialisti come D'Holbach, Helvétius o
Lamettrie, ma è qualcosa di più, a cui io ho sempre
pensato che contribuiscano anche elementi preromantici, romantici
e "controromantici", non più solamente illuministici. E
questo pensiero materialistico ha come sua arma la "ragione", che
ha cambiato segno, che è diventata la forza impugnando la
quale si scopre la verità, si demistificano tutte le
"superbe fole", (come sono chiamate nella Ginestra),
cioè ogni credenza di tipo o religioso o
idealistico-ottimistico. Così si arriva a quella
verità che veramente è diventata ormai la
mèta più profonda del "progresso" per Leopardi, la
verità che permette di conoscere ciò che per
l'uomo, secondo Leopardi, è fondamentale conoscere ("Nulla
al ver detraendo", che è un verso della Ginestra):
conoscere cioè qual è la reale situazione, la reale
condizione dell'uomo e dell'universo e dell'uomo nell'universo:
una condizione certamente di miseria, una condizione di
caducità, una condizione di destinati alla morte e alla
distruzione. Non sono solo le catastrofi naturali (come appunto
quella che qui viene rappresentata), ma anche le ragioni
biologiche della natura umana, la consunzione che le malattie e
il degrado naturale dell'età operano su di noi e per cui
ogni posizione di tipo provvidenzialistico e ottimistico viene
scartata. E certamente questo è per Leopardi l'uomo che
vive una condizione assolutamente infelice, "nato a perir,
nutrito in pene" (v. 100), destinato alla morte e vivente in
mezzo alle pene.
A questo punto però scatta, a mio avviso, del resto
secondo tutta la mia interpretazione (sempre ho battuto su questo
punto essenziale per le sue conseguenze in sede poetica), scatta,
dicevo, l'abbrivo di una parte che potremmo dire "propositiva",
anche se questi termini vanno usati con estrema cautela
perché certi limiti restano invalicabili, invincibili: il
dolore, la morte, la caducità sono invincibili, la natura
è sempre distruttrice e lo sarà sempre,
continuerà sempre a esserlo. Ma certo, ripeto ancora, qui
scatta un motivo che si può ritrovare anche attraverso
certi filoni precedenti specie estraibili dallo Zibaldone
(che adesso qui sarebbe troppo lungo individuare), ma certo
soprattutto il motivo di quello che Leopardi individua come il
"vero amore", cioè quella forza solidaristica, che
così è certamente forza civile e che nasce proprio
dal vincolo fra gli uomini nella loro lotta contro la natura.
La difesa contro la natura diventa un vincolo fra gli uomini e da
questo vincolo sorge in loro quest'esigenza e questo bisogno che
egli chiama il "vero amore".
Sicché su queste basi leggeremo subito un brano della
Ginestra, molto indicativo già per certi suoi
aspetti poetici: su queste basi dico, su queste verità che
sono da una parte tutte negative, tutte pessimistiche, ma certo
per Leopardi profondamente "vere" e a lor modo promotrici di
"vita", non di rinuncia e di resa. Perché su questa
acquisita coscienza che la condizione umana è
assolutamente misera e d'altra parte su questa forte molla del
"vero amore" si potrà creare un'alternativa di
civiltà. E di civiltà si parla nella
Ginestra in termini espliciti quando si dice anche in un
altro passo che "solo" per questo pensiero
illuministico-materialistico, per questo pensiero che per
Leopardi è il cammino del vero progresso (anche se
è un progresso che porta alla costatazione di una
condizione di miseria) "per cui solo / Si cresce in
civiltà, che sola in meglio / Guida i pubblici fati" (vv.
75-77). Badate bene sono parole da meditare, sono parole che
già di per sé rivelano la forza poetica di
Leopardi, con questa ripetizione del "solo" "sola", questo
ribattere, questo asseverare che, dirò così,
asseconda lo snodo del pensiero e gli dà il suo vero
spessore; spessore che non avrebbe senza la forza di queste forme
da lui adoperate così energicamente. Ma, ripeto, Leopardi
pensa a una possibilità di maggiore "civiltà" entro
i limiti ferrei della condizione umana. Sicché vogliamo
leggere (anche come esempio di un tipo di poesia che suscitava
proprio dentro La ginestra le più forti obbiezioni
da parte della critica distinzionistica, fondata cioè
sulla distinzione fra poesia e non poesia), il passo della terza
strofa con il contrasto con l'intellettuale del primo Ottocento,
seguace del pensiero della Restaurazione, che viene aggredito con
sarcasmo e forza di disprezzo supremo, forza che è quella
del pensiero, ma che si traduce in forza aggressiva della poesia
e dei mezzi propri della poesia. E a un certo punto emerge, in
netto contrasto, il profilo dell'uomo "leopardiano", l'uomo
"persuaso" che ha acquisito queste amare verità, che
è portatore di queste verità; in un certo modo
l'intellettuale come Leopardi lo avrebbe voluto e quale egli
stesso si sentiva in prima persona, perché contribuisse
così a una vera civiltà:
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri. (vv. 111-144)
Sentite la forza dello snodo del pensiero così denso e
tenete conto che non è solo "Nobil natura" l'uomo che osa
guardare lucidamente il "comun fato", il fato e la natura, ma
anche l'uomo, la persona che "grande e forte / Mostra se nel
soffrir". C'è una suprema forza di dignità in
questo ultimo Leopardi e La ginestra è una grande
lezione di dignità nel soffrire, nel sopportare "il mal
che ci fu dato in sorte". E l'uomo leopardiano "con franca
lingua" rivela la realtà delle cose senza toglier nulla a
questa "acerba" verità, e non ne accresce stoltamente la
miseria con le lotte fra gli uomini: "né gli odii e l'ire
/ Fraterne [...] accresce / Alle miserie sue'', come egli afferma
in un crescendo impetuoso e appassionato. E voi sentite certo la
forza di un ritmo incalzante, come in un certo senso incalzante
è lo snodo del pensiero, e questo impeto raggiunge persino
toni entusiastici che non sono certamente convenzionali e il cui
significato parafrasato potrebbe apparire anche prosastico e
convenzionale, mentre tutta la sua forza viene data radicalmente
proprio dallo spessore linguistico inerente, dalle forme che
assume la poesia in questo brano e che, ripeto, trova d'altra
parte equivalenti nella forza, in questo caso addirittura
entusiastica, anche nella violenza, di aggressione alle stolte
credenze e alle illusioni ingenue, o, peggio, interessate delle
religioni (e dei detentori del potere).