Autori, opere, momenti della critica binniana

In questo spazio del sito sono presentati, in ordine cronologico, testi che accompagnano e scandiscono il percorso del critico, per restituirne le direzioni di ricerca. I testi, generalmente in forma di brani significativi, in qualche caso nella loro integralità, rinviano naturalmente ad un rapporto diretto con l'opera critica di Walter Binni, limitandosi a suggerire alcune prime chiavi di lettura.
 
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QUASI UN'INTRODUZIONE:

da "Alle origini della nozione di poetica" di Eugenio Garin (1985) segue

da "Binni e Leopardi" di Sebastiano Timpanaro (1985) segue



IL PERCORSO DEL CRITICO

da Linea e momenti della lirica leopardiana (1934) segue

da La poetica del decadentismo italiano, "Poetica e poesia" (1936) segue

da Vita interiore dell'Alfieri (1942) segue

da La nuova poetica leopardiana, "L'ultimo periodo della poesia leopardiana" (1947) segue

da Preromanticismo italiano, "Introduzione" (1947) segue

da Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947) segue

da "Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-1813" (1954) segue

da "Parini e l'illuminismo" (1956) segue

da "Tre liriche del Carducci" (1957) segue

da Poetica, critica e storia letteraria (1963) segue

da Michelangelo scrittore (1965) segue

"Montale nella mia esperienza della poesia" (1966) segue

da "Goldoni", in Il Settecento letterario (1968) segue

da La protesta di Leopardi, "La personalità storico-poetica del Leopardi" (1973) segue

"Il messaggio della Ginestra ai giovani del ventesimo secolo" (1988) segue

Dall'ultima lezione leopardiana, sulla Ginestra (1993) segue


da "Alle origini della nozione di poetica" di Eugenio Garin (1985)

Dello scritto di Eugenio Garin riproduciamo l'inizio e la conclusione, rinviando naturalmente al testo nella sua integralità.

In data 1°marzo 1977, presentando una delle tante edizioni del suo primo, ma ben presto 'classico' libro, La poetica del decadentismo, Binni giustamente tenne a sottolineare due cose: 1. l'avvio, in quello scritto, a una lunga e laboriosa indagine sulla nozione di 'poetica' in contrasto con "la concezione estetico-critica crociana e idealistica"; 2. l'inizio, nel medesimo tempo, sul terreno politico, di una concreta attività contro il regime dominante. "Non casualmente - osservava Binni nel '77 - quella attività critica e metodologica si associava allora all'inizio della mia militanza antifascista." Davvero non casualmente. Il libro, scritto nel '35 e uscito a stampa alla fine del '36, si colloca in un momento molto complesso della vicenda italiana: e non solo vicenda politica. In realtà, a guardar bene, non di cose diverse si trattava, ma di piani ed aspetti distinti di un medesimo processo. Le inquietudini e le 'crisi' non facevano che dar voce, a livello di cultura, alla protesta di nuove generazioni che si ribellavano, a un tempo, al regime fascista e a un'atmosfera intellettuale che non appagava più, anche se, spesso, i rapporti sotterranei, e le parentele nascoste con le ideologie dominanti fuggivano. Come sempre, i legami fra processi politici ed espressioni culturali erano estremamente complessi, e nulla sarebbe più ingannevole di una storiografia che li riducesse in termini di corrispondenza simmetrica e di rispecchiamento immediato. Indiscutibili, invece, il dato di fatto che, in quel finire degli anni Trenta, sembrano addensarsi in Italia, e fuori, insoddisfazioni intellettuali d'ogni sorta, mentre crescono ovunque disagio morale e ribellione politica. Sono gli anni in cui dalla Francia rimbalzano in Italia e il 'giovane Hegel' e 'la coscienza infelice', e il confronto con Kirkegaard, e i libri e i saggi di Wahl e Koyré, e sull'onda del riscoperto Dilthey un diverso e più complesso 'storicismo'. Nel '33 Koyré dà inizio al celebre corso di lezioni hegeliane sulla Fenomenologia, con Marx nello sfondo. Nel '28 Husserl aveva letto alla Sorbona le Cartesianische Meditationen, uscite in francese nel '31. Se i surrealisti, almeno in origine, conoscevano di Hegel , per loro stessa confessione, soprattutto il libro di Benedetto Croce (tradotto in francese nel '10), negli anni Trenta il clima a Parigi era molto cambiato. E cambiava anche in Italia, pur con vicende e sviluppi diversi: in quell'Italia divenuta 'imperiale', ma in cui, fra Abissinia e Spagna, fermentavano scontento e preoccupazione. Proprio Binni, commentando più tardi la pubblicazione (del gennaio del '37) degli Elementi di un'esperienza religiosa di Aldo Capitini, annoterà: "mi ricordo dell'impressione prima curiosa poi avvincente che il libro ebbe fra alcuni miei compagni in una scuola di allievi ufficiali, e l'iniziale incredulità sostituita da pensose discussioni che (...) puntavano su di un'ansia comune che in quegli anni oscuri cresceva e si precisava accresciuta dalle avventure e dai delitti fascisti: Abissinia, Spagna." Dirà lo stesso Capitini nel '47, presentando la seconda edizione del suo libro in un clima ormai del tutto diverso: "Mentre si stampavano i miei Elementi di un'esperienzsa religiosa (sulla fine dell'anno 1936), la situazione in Italia, se si guarda dentro i fatti e non alla superficie, era in un momento critico (...). I giovani migliori cominciarono allora a staccarsi dal fascismo." Quello che è sembrato a taluno il momento del massimo consenso e del maggior successo, proprio "quello era invece il momento critico", mentre "si annunciava un'epoca tragica". Sono questi, ancora, rilievi - esatti - di Capitini. La prima edizione della Poetica del decadentismo menzionava, non accidentalmente, con gratitudine espressa a vario titolo, Attilio Momigliano e Luigi Russo, Giorgio Pasquali e Aldo Capitini: uomini, tutti, che hanno significato non poco per l''intelligenza' italiana e che, solo che vi si rifletta un momento, documentano anche quanto sia inconsistente l'immagine, dura a morire, di una cultura monocolore, tutta 'idealistica' e oscillante fra ortodossia crociana e gentiliana. Ma a parte il fatto che fra il '36 e il '38 Croce stava sottoponendo se stesso a non superficiale discussione nei due volumi La poesia e La storia, a parte la sensibilità penetrante - e irriducibile a facili schemi - di Momigliano, a parte l'impetuosa capacità di continuo rinnovamento di Russo, come non sottolineare la presenza, nel mondo in cui Binni si formò, di Aldo Capitini e di Giorgio Pasquali: la ricca e complessa meditazione dcel primo e la eccezionale 'filologia' del secondo? Uno straordinario modello di vita e di riflessione da un lato, un esemplare rigore nella lettura dei testi dall'altro: tali gli uomini che Binni stesso, a diverso titolo, ricordava con gratitudine nel '36 pubblicando il suo libro. Alle loro vicende, alla loro collocazione nella prospettiva di quegli anni converrebbe rifarsi (compresi i 'maestri' Momigliano e Russo), e non solo per 'storicizzare' con esattezza il lavoro di Binni, ma per cogliere la complessità di una situazione che le consuete etichette di idealismo e fascismo per un verso, e per l'opposto di antiidealismo e antifascismo, appiattiscono senza caratterizzazioni né sfumature. (...) Attraverso la riflessione sulla 'poetica' Binni ricolloca la 'poesia' nella storia, e ve la ricolloca senza annullarne il significato peculiare. "L'arte - dice (in Poetica, critica e storia letteraria del '63) - è parte di storia, e interviene nella storia con una sua forza autentica e non come illustrazione e documento, solo in quanto commuta forze ed esperienze vitali e storiche in tensione artistica e in opere artistiche". E soggiunge: "nello studio di poetica come io l'intendo è implicita e comandata una tale disposizione di storicizzazione completa e non solo letteraria. Ma essa rimanda ad una esigenza storico-critica più profonda e complessa, che presuppone a sua volta una visione della storia riccamente problematica e dialettica anche nei rapporti fra le sue forze ed esperienze effettive". In altri termini Binni è ormai pienamente consapevole che, come la nozione di 'poetica' era venuta emergendo nella crisi di una concezione della realtà, così il suo maturarsi si colloca in una nuova concezione del mondo e dell'uomo, della sua attiività e della storia. "Vinta definitivamente la prospettiva" che stacca "la poesia" dalla "cultura" e dal "pensiero di uno scrittore, e poi dice che la poesia è un'altra cosa, che essa sfugge miracolosamente a quel rapporto", Binni ritrova nella poesia la "prova concreta e profonda del nesso inseparabile fra coscienza, tragica e critica, della storia e della vita, e problemi di linguaggio e di tecnica (in un rapporto irreversibile)". Attraverso la 'poetica' è venuta così maturando una più profonda interpretazione della realtà e della storia. È stata, quella della 'poetica' di Binni, una delle vie del 'lungo viaggio' della cultura italiana - e delle più feconde e significative.



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da "Binni e Leopardi" di Sebastiano Timpanaro (1985)

"Ogni vero critico, per quanto ampio sia l'angolo della suatematica, dei suoi interessi, delle sue possibilità diviva adesione a poeti e a mondi poetici diversi, ha sempre - equanto più la sua critica non sia un semplice eserciziotecnico - le sue predilezioni profonde, i suoi poeti piùcongeniali e corrispondenti più intimamente alle direzionipiù istintive della sua vita interiore, e specialmente aquella zona calda e impetuosa, irrequieta e poetica - lagioventù - in cui maturano, folti di fermenti e diinclinazioni indelebili, i nostri amori più generosi, lenostre scelte più appassionate e disinteressate. Ognicritico ha, per dirla romanticamente con Wiechert, i poeti dellasua vita e se certi incontri più fortuiti ed avventativengono respinti poi fra gli errori della gioventù, altrive ne sono su cui l'animo e l'intelletto ritornano assiduamentequanto più l'esperienza ce ne assicura il valore profondo,e la passione meno controllata si muta in un culto attivo, in unomaggio critico e storico che mira a realizzare, a precisare lavera, personale e storica realtà degli scrittoripiù amati".
Così incomincia (e mi è sembrato necessarioriportare senza tagli il non breve esordio) il saggio di Binni suDe Sanctis e Leopardi, scritto nel 1953 come introduzioneall'edizione commentata del Leopardi desanctisiano, ripubblicatoin nuova redazione nel volume Carducci e altri saggi(Torino, Einaudi, 1960, e ancora con modifiche e una lungapostilla nel 1972, p. 195 ss.). Ma, attraverso le modifiche e irimaneggiamenti, l'esordio è rimasto intatto; e il suocarattere appassionatamente autobiografico è evidente.Binni, certo, prosegue: "Tale fu il Leopardi per Francesco DeSanctis, tale fu l'incontro di quelle due grandipersonalità". Ma se si può dubitare (comeaccenneremo in seguito, e come Binni stesso ha in partericonosciuto nella postilla del '72) che nel grande De Sanctisl'amore per il "poeta della sua giovinezza" sia arrivato asvilupparsi in vera adesione di ideologia e di gusto negli annidella maturità, non c'è dubbio che quell'adesionevi sia stata in Binni, più che verso ogni altro autore dalui amato e studiato. Ancora a distanza di decenni dai suoi primilavori leopardiani, nella premessa alla Protesta diLeopardi (Firenze, Sansoni, 1973, p. VIII), egliribadirà che il Leopardi è "per chi scrive quiforse più che un poeta, il poeta della propria prospettivaumana, morale, civile". E non a caso nel saggio metodologicoPoetica, critica e storia letteraria (Bari 1963, nuova ed.1976), se vi sono richiami a tutta l'esperienza critica di Binni,dall'Ariosto al Metastasio, dal Parini all'Alfieri, da Carducci aMontale, i riferimenti al Leopardi occupano, non solo per la lorofrequenza, ma, direi, per il loro pathos, un postoprivilegiato. Nel brano che abbiamo citato all'inizio l'accentobatte, come abbiamo visto, sul carattere 'giovanile' (nongià nel senso di immaturità, ma di appassionatofervore) della scelta per il Leopardi: una scelta non sololetteraria ma 'totale', formatrice della personalità,legata a un'esperienza etico-politica e umana particolarmenteintensa. L'amore per il Leopardi ha sempre continuato (anchequando si è maturato e approfondito criticamente) acollegarsi per Binni col ricordo (nostalgico senzasentimentalismi) della giovinezza. All'inizio del discorso suLa poesia eroica di Giacomo Leopardi (1960, ora in Laprotesta di Leopardi cit., p. 239) ribadiva che il suocontatto con la personalità leopardiana era "certo ilpiù appassionato e decisivo" della sua esperienza dicritico "e insieme il primo e legato alla zona fervida dellagioventù". Nella premessa alla seconda edizione dellaNuova poetica leopardiana (Firenze, Sansoni, 1962, 3a ed.1971, rist. 1979) ricordava, con maggiori particolari, comel'esigenza di una nuova interpretazione della personalitàdel Leopardi, che puntasse sulla componente "eroica" (fin alloradisconosciuta a scapito della componente "idillica"), fosse sortain lui molto presto, e avesse avuto le sue prime formulazionigià in una tesina discussa nel '34 con Attilio Momiglianoa Pisa (Binni aveva ventun anni), e poi in una tesi normalisticadiscussa con Giovanni Gentile nel '35, e ancora in un brevescritto dello stesso anno, Linea e momenti della liricaleopardiana (in Sviluppi delle celebrazionimarchigiane di vari autori, Macerata, 1935). Il frutto -giovanile anch'esso, ma già ben maturo - di questesuccessive approssimazioni fu la prima edizione della Nuovapoetica leopardiana (1947). E anche a questo suo lavoro ilricordo di Binni, nella già ricordata premessa allaseconda edizione, ritorna con una risonanza affettivaparticolarmente forte: "...mi ritenni davvero fortunato quandonel '47, in mezzo ai lavori pesantissimi dell'AssembleaCostituente [a cui Binni partecipò come deputato delpartito socialista], riuscii a terminare e sistemare e pubblicareun libro sull'Ariosto, uno sul preromanticismo e questo saggioleopardiano: certo fra quelli il più caro a me, ilpiù mio nei suoi centri animatori, quello che in ogni casonon vorrei non avere scritto".
Qui, come si vede, il ricordo di una giovinezza particolarmentefeconda di opere è tutt'uno con la nostalgia di un momentoeccezionale e fugace della vita politica italiana: laCostituente, preceduta dalla lotta antifascista e - cosìallora tanti sperarono - coronamento di quella lotta, rotturadefinitiva non solo con l'Italia fascista ma anche con tutte letare ereditarie del prefascismo, fondazione di un'Italia aperta auno sviluppo in senso socialista. Ben presto venne il disinganno,e non poteva non venire, perché crollato era soltanto ilregime fascista, non le forze economiche e l'apparato statale chegli avevano dato vita, e che gli sopravvivevano sostanzialmenteindenni. Ma quel breve periodo fu pur vissuto come un'atmosferanuova, e dette origine anche a un nuovo fervore culturale; e ilnuovo modo di vedere Leopardi fu indubbiamente connesso per Binnicon la sua esperienza di politico militante, di socialista.
È destino del termine "socialismo" (ma, ormai da tempo,anche del termine "comunismo") di avere di volta in volta, oanche contemporaneamente, indicato posizioni politiche e idealiestremamente eterogenee, talvolta antitetiche. Binni proveniva dal"liberalsocialismo" nato nella scuola Normale di Pisa, periniziativa di Aldo Capitini, di Binni appunto, e di GuidoCalogero, a cui presto altri si aggiunsero. C'era in questoorientamento il pericolo (divenuto poi in alcuni unarealtà) di una contaminazione eclettica di motivi marxistie di motivi crociani; c'era il precedente non incoraggiante, ditanti anni prima, del Socialismo liberale di CarloRosselli. Ma contro questo pericolo furono proprio Capitini eBinni ad avere le idee più chiare: non un po' disocialismo e un po' di libertà, ma, come ricordo bene diaver letto in uno scritto di Capitini che ora non sapreirintracciare, "massima libertà e massimo socialismo".Recentemente, proprio commemorando l'amico scomparso (di cui noncondivideva il pensiero propriamente religioso, pur apprezzandonel'alto valore etico e anticonformista), Binni è tornato achiarire con molta lucidità questo punto: "Per Capitini eper alcuni di noi, diversamente da altri, il liberalsocialismoera non un contemperamento di liberalismo e socialismo, ma lastrutturazione di una società radicalmente socialistaentro cui riemergesse una libertà anch'essa nuova e bendiversa dalla libertà formale e ingannevole dei sistemiliberalcapitalistici. Il nostro liberalsocialismo aveva al centroil problema della 'libertà nel socialismo', e non quellosocialdemocratico del 'socialismo nella libertà'" (AldoCapitini e il suo colloquio corale, 1977, ora in Due studicritici: Ariosto e Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978, p. 126 n.1).
Non credo che quanto ho sommariamente ricordato sia stata unadigressione inutile. Occorreva far vedere come il 'nuovo corso'degli studi leopardiani inaugurato da Binni non fosse nato daesperienze puramente libresche. Occorreva rammentare che quelsocialismo libertario (pur con tutti i suoi mancatiapprofondimenti politici, pur col suo troppo scarso contatto conla tradizione marxista; ma anche con una giustificataostilità verso lo stalinismo che era allora e avrebbecontinuato ad essere, per nostra iattura, la falsificazioneufficiale del marxismo accolta dalla stragrande maggioranza delmovimento comunista italiano e mondiale) aiutò Binni asuperare la visione di un Leopardi esclusivamente idillico, ascoprire la forza agonistica e, nello stesso tempo, il bisogno diuna rinnovata fraternità umana sotto il segno non di dogmie di miti, non di "tenebre" ma di "luce", che caratterizzanol'ultimo Leopardi e danno anche un'impronta nuova al suo stile eal suo linguaggio poetico.



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da Linea e momenti della lirica leopardiana (1934)

In questo saggio pubblicato nel volume miscellaneo AA.VV.,Sviluppi delle celebrazioni marchigiane. Uomini insigni delmaceratese, Affede, Macerata 1936, Binni propone i contenuti diuna tesina universitaria discussa a Pisa con Attilio Momiglianonel 1934; è il nucleo di una nuova interpretazione criticadella poetica e della poesia di Leopardi che troverà undecisivo sviluppo nel volume del 1947 La nuova poeticaleopardiana. Il brano che segue è tratto dalle primepagine del saggio.

(...) Il modo migliore per entrare nella linea di questo sviluppoideale della poesia leopardiana, per sentirlo drammaticamente enon nel movimento naturalistico di un accrescimento organico,è senza dubbio tentare di avvicinarsi al nucleo del poeta,di individuare la sua tendenza spirituale, di fissare il suostrato intimo da cui fiorisce la sua esigenza poetica. Etroveremo che al di là di ogni sovrastruttura culturale,di ogni limite di bruto temperamento, di ogni cristallizzatasintesi di vivente e di vita vissuta, c'è nel Leopardi unnucleo che possiamo dire di sostanziale romanticismo.L'affermazione sembrerà riportare a sorpassate esigenzedella critica precrociana, mentre in effetti costituisce unanuova posizione che si dimostrerà feconda di risultaticoncreti durante lo svolgimento di questo saggio. Per oral'affermazione di un Leopardi romantico è posta su di unterreno psicologico o meglio, dato che la psicologia pare ormaicomprendere piuttosto i moti del temperamento, i torbididominî di una sorta di perispirito, su di un terrenolargamente spirituale, ma poi se ne trarrà partito proprioin sede estetica.
Che il Leopardi sia fondamentalmente romantico (intesoromanticismo non nel suo senso deteriore di squilibrio, ma anziin quel senso di aspirazione all'assoluto incondizionato, allalegge intima, all'affermazione della personalità comenecessaria ed universalizzantesi, che lo fa spiritualmenteimportantissimo) ce lo rivela ogni suo atteggiamento di spiritonon accomodante, disperatamente bisognoso di assoluto, sìda non trovare intorno a sé che relativo, che materiale;atteggiamento di un uomo fondamentalmente inquieto e riportantesempre in un grado più alto e comprensivo la propriapositiva, feconda scontentezza per la quale i fatti esterni nonsono che una riprova dell'insufficienza della realtà: ondela teoria delle dolci illusioni, lo scampo parziale e di ripiegonelle età eroiche ecc. E quindi una infelicità (seproprio si vuole adoperare questa parola che l'uso borghese hafatto triviale e melodrammatica) essenziale, non dipendente dacause esterne, dalle vicende, dai mali in modo deterministico (equesto è bene, per omaggio al Leopardi e allacentralità dello spirito, ripeterlo a chiare note fino adaprire le orecchie di chi lacrima sulla gobba del grande e non neintende l'intima forza formale e la virile affermazione di vita),una infelicità attiva, un pessimismo - come giustamenteosservò il De Sanctis nel suo bellissimo dialogo suLeopardi e Schopenhauer - positivo, carico di idealità.Insomma una posizione quale la possiamo trovare ben altrimentichiarita e sviluppata speculativamente nell'idealismo romantico,al cui contatto ci siamo domandati tante volte come il Leopardiavrebbe reagito.
Dando così al romanticismo un senso positivo e liberandoloda tutte le ipertrofie di sfogo e di squilibrio alla Werner,possiamo affermare che il Nostro fu proprio spiritualmente unromantico e forse il più grande, per la sua compattezza edaderenza espressiva, di tutti i poeti romantici.
Ed è questa sua peculiare qualità che cicondurrà a stabilire la novità della poesia deinuovi canti ed insieme il suo legame con quella idillica.Assisteremo infatti ad un progressivo romanticizzamento sempremeno apparente e sempre più sostanziale, che per noiculmina appunto nel tono evangelico personale, nelle forme ampie,slanciate della Ginestra.
Parallelamente a questo romanticizzarsi che è poi nientealtro che il cammino verso la maturità, verso l'acquistodella propria intera anima, circolano come motivi unificatori, unsuccessivo liberarsi dal temperamento più immediato primae poi dalla cultura, e soprattutto un tentativo romanticissimo diunificare in una sola espressione personale le proprieaspirazioni speculative con il mondo della poesia: bastiricordare come comprova storica e marginale, che anche altripoeti romantici, ad esempio, il Vigny, mirarono a questo tipo diespressione di alti bisogni filosofici e morali.
Sono tutti questi fili che, intesi largamente, non astrattamenteipostatizzandoli, offrono la guida migliore per un esamecomplessivo, non alessandrino né d'altra parte caotico,della poesia leopardiana.



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da La poetica del decadentismo italiano, "Poetica e poesia" (1936)

È il primo paragrafo del primo capitolo del volume, centrato su quella nozione di "poetica" che impegnerà costantemente la riflessione del critico e del teorico della letteratura, trovando un'ampia esposizione nel saggio metodologico del 1963 Poetica, critica e storia letteraria; i due brani successivi sono tratti ancora dall'Introduzione e dal capitolo I, "Origini e formazione del decadentismo italiano".
Per la sua apertura europea all'analisi del fenomeno del decadentismo, il titolo originario del volume si trasformerà nelle ristampe successive in
La poetica del decadentismo.

Poetica e poesia. Con la parola "poetica" si vogliono essenzialmente indicare la consapevolezza critica che il poeta ha della propria natura artistica, il suo ideale estetico, il suo programma, i modi secondo i quali si propone di costruire. Si distinguono di solito una poetica programmatica e una poetica in atto, ma la parola ha il suo vero valore nella fusione dei due significati, come intenzione che si fa modo di costruzione. Ad ogni modo, come non si identifica con la capacità autocritica dell'artista nell'atto creativo la chiarezza teorica circa l'essenza dell'arte, che egli può avere anche fuor di quell'atto, così non si identifica la poetica con la reale poesia.
Si possono dare molti equivalenti della parola "poetica" nel campo dell'esperienza artistica: è la poesia di un poeta vista come ars, lo sfondo culturale animato dalle preferenze personali del poeta, è il meccanismo inerente al fare poetico, è la psicologia del poeta tradotta in termini letterari, è il poeta trasformato in maestro, quella certa maniera storicizzabile e suscettibile di formare scuola, che si trova sublimata nell'attuazione personale dell'artista, è un gusto che ha radice in un'ispirazione naturale e che si complica su se stesso. Poetica è anche scelta e imposizione di contenuto, tanto più violenta quanto più esteriore è la forza nativa del poeta (per esempio, i futuristi).
Approssimazioni che non si eliminano, ma coesistono nella realtà della poetica, approssimazioni di cui ci si deve servire per distinguere l'idea di "poetica" e ritrovare la spinta costruttiva entro il pieno della poesia realizzata.
Poetica si distingue poi agevolmente da estetica in quanto che, mentre questa teorizza, la poetica ha un valore personale di esperienza e di gusto nativo. L'estetica cerca di dare un rigore scientifico al gusto, la poetica invece vuole concretare la vita attiva di una fantasia, la costruzione di un mondo poetico. Perciò, mentre un'estetica del decadentismo porterebbe alla discussione di problemi filosofici, la poetica ci porta in un campo di indagine letteraria, artistica, ad un'esperienza non teorica ma di testi poetici.
Poetica è il programma che ogni artista, in quanto tale, non solo segue, ma sa di seguire, anche se esplicitamente non ce lo dice. Perciò ogni poetica implica un'"arte poetica", ed ogni artista potrebbe, se volesse, redigere un qualcosa di simile all'Art Poétique di Boileau o di Verlaine, una critica cioè della sua arte e un programma di lavoro. Sarebbe anzi possibile per ogni autore ridurre la propria poetica ad una serie di insegnamenti, che d'altronde acquistano vita reale solo nella poetica in atto della sua poesia.
Nel cogliere il divario fra la poetica e la poesia, fra il programma e la realizzazione effettiva, sta il compito essenziale del critico. Studiare quindi la poetica di un poeta, significa afferrare il centro della sua ars e insieme la qualità della sua personale sensibilità.
La poetica può diventare così, da un lato, una precettistica e, dall'altro, spianarsi nel paesaggio sentimentale del poeta. Si intenda perciò l'estensione della parola e la sua efficacia come espediente di lavoro e di storicizzamento dei poeti in un'epoca spirituale.
Infatti l'utilità critica degli studi di poetica non si avverte soltanto all'esame interno della relazione tra poesia e poetica: vale agli effetti di una storia letteraria in quanto indica, entro i limiti della personalità, il gusto di un'epoca, le tendenze di un periodo letterario. Si può dire anzi che non si fa mai storia di poesia, ma di poetica.

Nei periodi di maggior "letteratura" e di maggior raffinatezza culturale, gli studi di poetica si mostrano ancora più opportuni e giovevoli: nelle civiltà cioè in cui predomina l'ars, abbondano i programmi, ed hanno grande sviluppo le scuole e i cenacoli poetici. E soprattutto pare che gli studi di poetica abbiano maggiore valore quando si tratta di fenomeni letterari europei, quale il decadentismo.

Il decadentismo in Italia. Abbiamo rapidamente visto che senso si debba dare in uno studio di questo genere alla parola poetica (intenzioni, modi cari al cuore del poeta, precetti che egli potrebbe staccare da sé in veste di maestro, contributo della sua intellettualità alla immediatezza della sua sensibilità) e come sia utile parlare, in uno studio sul decadentismo, più di poetica che di poesia. Infatti l'esame della nuova poetica isola il decadentismo più profondamente che una pura valutazione estetica delle singole personalità, e lo vede più che nelle "nature", nella mentalità generale, in ciò che forma il suo clima.
Abbiamo determinato così i limiti dell'espressione "decadentismo", svalutando ogni posizione di condanna ed ogni confusione con "decadenza" in genere, e con "decadenza di romanticismo" in particolare, e affermando come essenziale per questo studio una posizione storica che accolga il decadentismo nella stessa maniera con cui viene accolta l'espressione "romanticismo": cioè come periodo storico individuato da certi speciali caratteri. I quali, in sostanza, si riducono ad un contemporaneo approfondimento del mondo e dell'io fino alla scoperta di un regno metempirico e metaspirituale, da cui le cose e le personalità germogliano con un senso nuovo, con un'anima nuova.
Da questa rivelazione di un nuovo senso della vita nasce una poetica che abbiamo articolato nei vari caratteri comuni ai singoli artisti, e che consiste soprattutto nella ricerca della musica come mezzo di conoscenza sopralogica, mistica. Misticismo, rivelazione, suggestione, evocazione sono infatti le parole che il critico è necessitato ad adoperare nel riprodurre le linee, i connotati di questa poetica.
La nuova mentalità si è formata lentamente dal preromanticismo in poi, attraverso certi lati mistici, e il contributo di alcuni particolari romanticismi (quello di Novalis, o Keats, o Pope), fino a manifestarsi chiaramente, nella metà dell'Ottocento con quelli che possiamo chiamare i padri del decadentismo (Wagner, Schopenhauer, Nietzsche, Poe, Baudelaire), e a prendere completa coscienza nella Francia postbaudelairiana di Rimbaud, Verlaine, Mallarmé.
Dalla Francia il decadentismo si riespande con maggiore forza nelle nazioni che, come l'Inghilterra, erano già preparate per conto loro, e in quelle che, come l'Italia, erano scarsamente europee e fortemente tradizionali.
L'Italia si trova in una posizione specialissima rispetto alla Francia, all'Inghilterra, alla Germania, in quanto che manca di un diffuso e sfrenato romanticismo, di tentativi romantici che possano paragonarsi a quelli di un Novalis o di un Coleridge. Manca di uno sfogo romantico, di una tradizione d'avventura e di rivolta, di cui i nuovi poeti potessero valersi. D'altra parte nella letteratura italiana era tenacissima una tradizione secolare, riportabile a quel letterato superiore che fu il Petrarca, che il romanticismo non riuscì ancora a spezzare se la ritroviamo nella sua ultima e più intensa applicazione nella poesia del Leopardi. Questa tradizione aulica, decorosa non era più sentita dal di dentro, e pesava oppressiva, non amata e pur patita, sui poeti del secondo Ottocento. In tutti, più o meno, c'è la volontà di novità e l'insofferenza della tradizione, ma si tratta più che altro, appunto, di velleità, non di consapevoli superamenti. Spiccano, fra tutti, gli incerti ribelli, gli "scapigliati", i quali, per primi, si accostano anche alle nuove correnti straniere, a Baudelaire soprattutto, ed assumono, per primi, atteggiamenti pratici di impronta goffamente decadente. Perché, per mancanza di maturità, tutti i predannunziani si limitano a volere il nuovo, a fiutare, senza capirli, gli stranieri, e, in sostanza, a ribellarsi alla tradizione, equivocando contenutisticamente sul decoroso classico e sulla libertà moderna. E non hanno quindi che negativamente un senso rivoluzionario, sì che ricadono di continuo nei più ingenui romanticismi e negli schemi tradizionali malamente stravolti. In tutti è chiaro il dissidio irrisolto fra i residui del passato e l'aspirazione al nuovo, e in tutti si sente, man mano che ci si avvicina a D'Annunzio, un progressivo accentuarsi di tono decadente, un concretarsi teorico e pratico del bisogno musicale come degli atteggiamenti, delle situazioni più propriamente decadenti. Per quanto anche in altre nazioni si fosse formata già una civiltà poetica decadente, torniamo ad insistere sul carattere europeo del decadentismo e d'altronde sulla centralità della Francia in questo movimento di gusto.

Esistono nella storia di ogni nazione due tradizioni: una tradizione largamente spirituale, formata nel vivo delle varie esperienze di civiltà e perciò divenuta naturale, nucleare, non aristocratica; e una tradizione letteraria che contribuisce a formare la prima e che da essa trae origine, ma più esemplare, più aulica, più distaccata dal flusso continuo della vita nazionale. La prima non è mancata in Italia dopo il romanticismo e vi continua tuttora, viva e chiara in ogni opera di scrittore che approfondisca le proprie qualità naturali, che veda netto nel paesaggio essenziale delle proprie visioni. La seconda è, per suo carattere, meno duratura, non radicata in ogni punto della spiritualità nazionale, ma fortemente influenzante ogni nuova espressione letteraria.
Nessuna nazione ha avuto una tradizione letteraria così lunga, costante, principale come quella italiana, formatasi con il Petrarca, il più grande letterato della nostra poesia, sopra la preparazione del linguaggio convenzionale del dolce stile novo, perpetuatasi nel petrarchismo e nei modi petrarchisti dei nostri poeti fino al Leopardi. Nella poesia del quale la maniera petrarchesca è rilevabile non solo nelle poesie giovanili, ma anche nella poesia degli ultimi grandi canti.
Questo persistere vitale di una tradizione letteraria spiega il carattere particolare del nostro romanticismo, che, malgrado le sue innegabili affinità con gli altri romanticismi, si mantiene il meno europeo e il meno rivoluzionario di tutti. Imperniato sul forte rilievo della personalità, che lo accomuna alla essenza più intima del romanticismo, e nutrito di molti tra gli utili miti romantici (la forte esigenza di originalità religiosa a base dell'arte, l'aspirazione alla felicità, il carattere di storia sacra, la ribellione al moralmente estrinseco), manca, pur nella sua aspirazione all'assoluto, di certi lati più spinti, più nuovi del romanticismo nordico e francese; manca del senso dell'ironia e del giuoco, del forte animismo della natura e soprattutto diquella vena mistica che spiega radicalmente l'intima parentela del romanticismo col decadentismo.
Mancano alla nostra letteratura romantica sensibilità del tipo di quella di un Novalis, di un Keats e magari di uno Chateaubriand. Manca l'acquisizione teorica di un nuovo misticismo (forse se ne potrà vedere qualche accenno nel Tommaseo) e quindi lo sviluppo pratico di nuove ricerche formali, la trasformazione in arte di affinamenti sensuali. Da noi la tradizione letteraria era così compatta da adeguare a se stessa il nuovo spirito romantico e da mantenerlo in quella misura costruttiva di stampo cattolico (la parola va presa in senso naturalmente metaforico) che ci rappresentiamo al solo ricordare l'arte di un Foscolo, di un Leopardi, di un Manzoni. Foscolo, Leopardi, Manzoni, romanticissimi per gli ideali che animano le loro opere e per l'intensità con cui essi li propugnano, non hanno certi abissi intimi di analisi, certe sensibilità esasperate che troviamo negli altri romantici stranieri.



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da La nuova poetica leopardiana, "L'ultimo periodo della poesia leopardiana" (1947)

È il primo capitolo del volume, che segna una vera e propria svolta nell'interpretazione della poetica leopardiana, sia perché infrange definitivamente l'immagine tutta idillica della poesia e della personalità leopardiana che dominava nell'epoca del metodo crociano e della poesia 'pura', sia perché recupera, con saldo uso della nozione di poetica e con una inerente operazione critica analitica, la grande poesia 'eroica' dell'ultimo periodo leopardiano culminante nel formidabile messaggio etico-poetico della Ginestra.

L'esperienza di un lettore ha spesso dovuto costatare di fronte alla storia di un poeta che certi momenti e motivi diversi sono difficilmente riconducibili ad unità e che spesso l'esigenza di riconoscimento della personalità porta a sforzarli in un segno di dubbia autenticità. La tradizione grammaticale formalistica ci invita ad insistere sulle variazioni di temi fondamentali, la eredità romantica ci spinge ad una storia della personalità poetica in senso drammatico. E la critica crociana di stretta osservanza ci chiarisce il bisogno di una formulazione e di una descrizione, di un accertamento del valore totalmente realizzato.
È lo studio di "poetica" nella sua migliore accezione storicistica che può dare alla doppia esigenza di unità e di molteplicità dei motivi poetici entro i limiti di una personalità, la più completa risposta, in quanto è proprio nella poetica che si storicizzano i diversi momenti ispirativi al di là della suggestione psicologica che finirebbe per frantumare una storia in cronaca di sensibilismo descrittivo. Non la romantica eredità della "storia di un'anima", ma storia di poetica che permette di utilizzare ogni dato, ogni indicazione biografica, rettorica, sicuri di vederla scendere al punto essenziale in cui tutto si trasforma da esperienza vitale o letteraria in elemento di disegno artistico, di costruzione poetica.
Si reagisce così all'istintivo bisogno di unità che vive nel tono fondamentale della personalità, ma che può realizzarsi in diversi momenti, in diversi atteggiamenti di poetica: si pensi allo Hölderlin dell'Hyperion, delle grandi Odi ultime, dell'Empedokles, si pensi al Foscolo delle Odi, dei Sepolcri, delle Grazie, si pensi soprattutto al Leopardi degli idilli e al Leopardi degli ultimi canti.

  Dolce e chiara è la notte e senza vento
  e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
  posa la luna e di lontan rivela
  serena ogni montagna... 
  Dolcissimo, possente
  dominator di mia profonda mente; 
  terribile, ma caro
  dono del ciel, consorte
  ai lugubri miei giorni, 
  pensier ch'innanzi a me sì spesso torni... 


Basta avvicinare questi due inizi famosi (l'uno rielaborato fino al '35 sempre nel gusto idillico, il secondo del '31 proprio all'inizio dell'epoca poetica che vogliamo studiare) per sentire la grandissima diversità fra due espressioni intensamente leopardiane, ma ispirate nella linea divergente di due diverse poetiche.
Il primo inizio presuppone una poetica idillica, tesa ad armonizzare, a pausare in distensioni, in serenità conclusiva e quindi in ritmi larghi e senza scosse, fluenti, orizzontali. L'altro è sostenuto da una poetica "eroica" in cui la personalità del poeta batte con energia aggressiva e tende a presentarsi integralmente nella sua affermazione di passione in forme risolute e impetuose, staccate in potenti blocchi di cui sono simbolo i due aggettivi che guidano questo tema musicale senza riposo di verbo, di descrizione, di colore, e in cui le parole sembrano legate per una comune energia esplosiva e l'ultimo verso accentua l'impèto e la solennità assorta con la sua scandita impostazione.
Due poetiche lontanissime anche se nutrite da una comune personalità: la prima di passione placata in dolcezza di paesaggio, in nostalgia di ricordo, la seconda di passione presente come prova di pienezza ed unità personale, come validità poetica. Due poetiche lungamente applicate e che noi dobbiamo tanto più distaccare per reagire alla confusione che ingenera il loro mancato riconoscimento, a quell'atteggiamento critico che eleva un motivo ad unico motivo veramente leopardiano e degrada a momenti di insufficienza tutte quelle poesie che a quel motivo non aderiscono.
Questo infatti è il punto dolente del problema leopardiano: chi giunge ai nuovi canti dopo la lettura dei grandi idilli si trova disorientato di fronte a così grande diversità e questa impressione si cambia facilmente in giudizio comparativo ed in svalutazione delle nuove poesie considerate come deviazione dal motivo trionfante della poesia idillica. E poiché non si approfondisce di solito se non episodicamente e psicologicamente la situazione del nuovo Leopardi e non la si vede in funzione di poetica, è facile assumere la posizione idillica come l'unica posizione veramente leopardiana ed ogni divergenza di tono come infiacchimento e turbamento d'ispirazione.
Impressioni che non derivano tanto da una lettura ingenua, quanto proprio dallo sviluppo stesso del problema critico leopardiano quale è venuto a svolgersi in atmosfera crociana.
Se ripercorriamo rapidamente la storia della critica leopardiana mirando a cogliere il nucleo centrale del nostro problema, vediamo subito che la critica precrociana aveva posseduto, nella sua incertezza conclusiva, un senso vivo, ma generico della complessità leopardiana e la sensazione di una profondità spirituale e personale non legata alla destinazione idillica e capace persino di un pensiero filosofico organico e sistematico.
Già il De Sanctis per la sua formazione e per il suo sincero amore del concreto si dimostrò nel saggio sul Leopardi particolarmente disposto ad affermare, sia pure attraverso condizioni sentimentali, la forza integra della personalità leopardiana non solo contemplativa (il Leopardi spettatore), e anche se manca un suo giudizio sugli ultimi canti per l'interruzione del saggio, non vi è dubbio che egli avrebbe sentito il valore della forma romantica degli ultimi canti. Egli aveva già mostrato di sentire nel dialogo su Leopardi e Schopenhauer e in alcune frasi della Storia, il carattere positivo, eroico di certo pessimismo leopardiano e quando diceva "Questa vita tenace di un mondo interiore, malgrado la caduta di ogni mondo teologico e metafisico, è l'originalità del Leopardi e dà al suo scetticismo un'impronta religiosa", aveva certo soprattutto d'occhio il periodo della maggiore certezza, della maggiore persuasione leopardiana.
E così, in direzione della Ginestra, sentiva che "questa morale eroica, fondata sull'affratellamento di tutti gli uomini contro il destino... è la parte più originale e altamente poetica del pensiero leopardiano". E se questa valutazione non implica una accettazione delle espressioni di quella personalità come poesia, pure è chiaro indizio che un critico unitario come il De Sanctis avrebbe sentito l'ispirazione dei nuovi canti in una specie di integrale unità pensiero-poesia secondo un'aspirazione che tutto il romanticismo ebbe e che il De Sanctis nutrì persino come propria espressione poetica. Era il romanticismo più maturo che prendeva coscienza della poesia più romantica del Leopardi, mentre, anche a causa della mancanza di un esplicito giudizio desanctisiano, nell'epoca positivistica, il valore dato ai nuovi canti, specie alla Ginestra, prese troppo il carattere di crudo contenutismo, di omaggio di liberi pensatori ad una espressione che veniva magnificata e considerata poetica per il suo significato anticattolico e materialistico.
Fu il Carducci ad occuparsi, nel suo saggio generale sul Leopardi, del periodo posteriore al Pensiero dominante distinguendolo in lirica appassionata e lirica filosofica secondo un apprezzamento sentimentale e frettoloso, particolareggiato in giudizi sui singoli canti altrettanto affrettati e sbiaditi. Pure la svalutazione del Consalvo per la sua deficienza di energia indica un certo senso della ispirazione fondamentale di questi canti, ispirazione ritrovata con parole sia pur poco adatte e con la tendenza più a retorica che a critica, mostrando anche nell'ammirazione per la Ginestra una confusa coscienza di quell'arte non decorativa, non didascalica, ma tesa ad espressione unitaria e personale.
Solo con il Croce le posizioni ingenue di lode degli ultimi canti cadono sotto una critica tanto abile ma tanto unilaterale, che andando alla ricerca di poesia e non poesia finì per identificare la prima con gli idilli e la seconda con ogni forma non idillica. Era lo stesso gusto crociano chiuso in un cerchio ben chiaro (Ariosto-Carducci), scarsamente aperto alla poesia romantica ("molto abbracciante, poco stringente" come egli dice di Hölderlin) anche nel suo costruirsi potente e drammatico. Posizione diffidente verso la poesia romantica, che nel caso del Leopardi si complicò con una ripugnanza di temperamento per l'atteggiamento leopardiano se non quando si rasserena in contemplazione e ricordo. Chiarificazione circa le confusioni sulla "filosofia" del Leopardi, ma incomprensione di tutto ciò che non diveniva armonica serenità.
La tesi crociana che nella esclusiva caratterizzazione dell'idillio implicava un'assurda svalutazione di tanta poesia leopardiana, ha trovato recentemente una più decisiva precisazione nel saggio del Figurelli che già nel titolo porta l'estrema conseguenza di questa posizione. Ricercando la radice della poesia idillica nell'unica poeticità di un atteggiamento idillico coerente alla natura psicologica del Leopardi, il libro del Figurelli riduce la complessità leopardiana ad un atteggiamento contemplativo (lo spettatore alla finestra, sia pure del proprio mondo interiore) in cui le affermazioni degli ultimi canti o svaniscono o sono prosa o vengono con sforzo inutile mimetizzate idillicamente sullo spunto di ogni minimo indizio di ritmo più dolce, più colorito. Scarsi ostacoli han contrastato alla tesi crociana il predominio nel campo critico se si esclude un tentativo del Malagoli, qualche accenno nella critica del Fubini e spunti notevoli, ma sfasati esteticamente nel Vossler.
Un tentativo determinato in questo senso fu da me compiuto in un lavoro uscito nel 1935: Linea e momenti della poesia leopardiana, ricavato da un precedente lavoro scolastico del 1933-'34. Quel saggio lontano partiva da un'impressione generica della grandezza degli ultimi canti e della loro sostanziale unità di tono, della differenza dal tono idillico e tendeva ad accertare anche biograficamente uno stacco, un ingrandimento spirituale, un atteggiamento nuovo, più virile, come di chi avesse acquistato meglio il senso della propria personalità e volesse portarlo nella vita, affrontare il presente, non allontanarlo nel ricordo o nell'armonia del paesaggio e del quadro idillico. Un Leopardi fatto più cosciente del proprio mondo interiore fino a sentire il bisogno di presentarlo non in forma di mesta elegia ma come valore e perfino come guida di fronte a un mondo sciocco, a un destino malvagio negati con energia suprema.
Quel Leopardi più energico e combattivo (togliendo a queste qualifiche ogni equivoco di romanticismo facile, byroniano) viene a far urgere nella poesia la sua personalità più profonda attraverso un'adeguata poetica. Donde la costatazione di una funzione nuova del pensiero leopardiano che più direttamente confluisce in sintesi poetica, in elemento di poetica con il tono non analitico, ma unitario e affermativo, di una protesta e di un messaggio radicali al senso della vita e della poesia. La nuova poetica che ha operato con continuità attraverso diversi stati d'animo e sforzando persino certe situazioni sentimentali ben al di là dunque di un adeguamento mimetico ad ogni sfumatura psicologica, mi apparve caratterizzata dalla energia con cui il Leopardi vuole affermare e negare, dall'effetto perentorio che vuole raggiungere non oratoriamente, ma per intensità poetica sia nell'affermarsi identificato con il pensiero d'amore sia nel negare ogni palpito alla realtà, sia nell'affermarsi evangelicamente rivelatore di una verità e di un messaggio vitale.
Poetica della "personalità" nel senso più romantico di tale espressione, nel senso che il più sobriamente possibile avvicina quest'ultimo Leopardi più di qualunque altro romantico italiano ai grandi romantici europei nella loro esigenza di assoluto colto nell'atto poetico, non come armonia idillica a cui pure aspirava un altro atteggiamento romantico.
Solo così mi parve possibile comprendere una parte così cospicua della produzione leopardiana che rimane di solito nel limbo di un giudizio esitante fra svalutazione prosastica ed accettazioni parziali, in base ad un paragone continuo con una poetica che non è più valida per un Leopardi così diversamente impegnato.
E mi parve, come mi sembra ancor più chiaramente in questa ripresa di una intuizione giovanile, che questa precisazione di "poetica" non assicuri solamente la comprensione storica dei canti posteriori al 1830, ma arricchisca tutta la vita della poesia leopardiana allargando il disegno fragile di un ultimo, per quanto altissimo, dominio di Arcadia.
La stessa poesia idillica trova posizione in una offerta di personalità più larga e potente, come la Sesta di Beethoven sarebbe più facilmente limitata dalla mancanza della Settima o della Nona.



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da Preromanticismo italiano, "Introduzione" (1947)

Una vigorosa sistemazione storica della linea di sensibilità nuova e di nuova critica e poesia, che nel denso e complesso secondo Settecento italiano, emerge dal sensismo illuministico in forme preromantiche per intrecciarsi anche con l'affiorare di elementi neoclassici. Mentre così viene portata nuova luce sulla consistenza letteraria di molte personalità maggiori e minori dell'epoca (Parini, Varano, Bettinelli, i fratelli Verri, Baretti, Cesarotti, Bertola, Pindemonte, Alfieri) nel libro si svolge, come in un originale racconto critico, la trama variegata di sentimenti, costumi, prospettive ideologiche e antropologiche, senso della natura e del paesaggio, e culmina nella grande e tragica personalità intellettuale e poetica dell'Alfieri, preparando così la stessa comprensione di Foscolo e di Leopardi.

Uno studio di storia letteraria che abbia l'esperienza della provvisorietà e dell'utilità degli schemi (ma del resto chi potrebbe vantarsi di adeguare la libertà di una concreta vita spirituale?) e che sappia l'importanza di una valutazione non miracolistica della poesia, tende a cogliere nella poetica di un periodo il complesso vitale di intenzioni, di aspirazioni culturali, che lega l'espressione poetica al mondo spirituale senza cui essa non sarebbe nata: e lo lega non casualmente, ma proprio riducendolo tutto in termini di discussione letteraria, in dimensioni inevitabilmente di "poetica", che è sempre il tramite rigoroso fra indiscriminata esperienza e poesia.
Lavoro storico che non ha nulla di esteriormente deterministico perché parte sempre dalle personalità che della storia sono i soggetti, ma che non rimangono monadisticamente rinchiuse e incomunicabili quando, pur nella massima possibilità rivoluzionaria, interpretano e realizzano le esigenze più profonde di un tempo, reagiscono ad una cultura, discutono e risolvono, ponendone nuovi, dei problemi di idee e di sensibilità vedendoli sempre in una Koiné letteraria da cui muovono per il loro particolare senso del valore. Sì che un Rimbaud nella sua apparenza di "caso" non era che il più contemporaneo al tempo dei segreti fermenti di una poetica del subconscio cui già in diversa maniera tendevano Blake e Novalis.
Tali studi di storia della poetica si rivelano tanto più incisivi per quei periodi in cui matura una crisi letteraria, nel passaggio fra due culture letterarie, dove ai vecchi schemi di origine romantica e all'indistinzione cronistica meglio si oppongono linee corrispondenti a precise volontà in campo artistico: il che non vuol dire far la storia dello stile o dei semplici mezzi espressivi.
Uno di questi periodi della nostra storia letteraria è quello del secondo Settecento, pieno di ricca complessità, in cui reazioni diverse si complicano, tendono ad equilibrio e ne escono in una storia di ardimenti a metà, di rivoluzioni facili e frivole e insieme di squarci improvvisi nel tessuto più appariscente, di accomodamenti verso una sistemazione coerente sulla base di una costante tradizionale di buon senso e di moderazione. Il nome di preromanticismo (che in Germania combatte con Frühromantik e in Italia con il crociano protoromanticismo) designa utilmente ai nostri scopi un periodo che ha la sua tipica atmosfera, ma soprattutto vive come avvio ad una civiltà letteraria più organica, come svolgimento e abbandono di una poetica nella sua piena maturità. Periodo in cui provvisorie sintesi si realizzano su residui di una cultura consumata e su spunti di una nuova sensibilità, su fermenti ancora torbidi, ma capaci di incidere sul linguaggio tradizionale, di sommuoverlo entro i suoi chiari limiti aulici. E mentre un più caratteristico tono di sensibilità languida, smorzata, autunnale distingue un momento di costume letterario dal quasi contemporaneo svolgersi del gusto neoclassico, in realtà l'aspirazione alla perfezione del secondo e l'ansia di sensazioni indefinite e infinite del primo si fondono in un deciso distacco dalla sintesi arcadico-illuministica, dalla placida sensibilità di una poetica a base razionalistica: sicché il nome di preromanticismo meglio si addice a tutto il periodo del secondo Settecento (in cui tra l'altro da noi il neoclassicismo non è ancora pienamente sviluppato), a quel fascio nervosissimo di problemi, di esigenze assai confuse in cui elementi spesso contrastanti collaborano (remore reazionarie che si confondono con l'esigenza del concreto, dell'individualizzato, del tradizionale) ad una nuova cultura letteraria. Il primato è indubbiamente della sensibilità e sotto il suo segno si svolgono le nuove intuizioni, ma sarebbe un errore limitare degli studi sul preromanticismo alla auscultazione dell'"anima sensibile" a cui ci ha abituato soprattutto la critica francese dei vari Monglond o Trahard, dimenticando come il sentimentalismo settecentesco specie in Italia si avvia a vigoroso senso del concreto ed a coscienza del dramma della situazione umana, della storia umana, con la presenza più o meno segreta delle grandi intuizioni del Vico.
Certo uno studio più attento di questo periodo nei suoi motivi di sensibilità quali si vengono formando in un linguaggio poetico che ne risente l'urgenza e si sforza di accettarli (anche dai testi stranieri) senza spezzarsi, integra e corregge l'eccessiva attenzione prestata tradizionalmente da noi al più generico e desanctisiano rinnovamento come prerisorgimento soprattutto civile e nazionale, e dà un senso a quelle presenze di scrittori, di traduttori che ogni testo scolastico riporta dalle vecchie indagini, dai paralleli della scuola dello Zumbini o dello Zanella, dai primi tentativi di "letteratura comparata", senza passare a ricercare il loro valore di testimonianza nel campo concreto della lingua poetica, del gusto, della sensibilità, ed unitariamente nella storia della poetica, in un momento in cui, prima della più decisiva crisi del seconto Ottocento, l'aulica tradizione italiana subisce un urto potente sui suoi tipici baluardi di canto metastasiano e di decoro pariniano.
Naturalmente nessuna pretesa di voler "spiegare" la poesia di un Foscolo o di un Leopardi con uno studio del preromanticismo, ma per quello che riguarda la poetica di quei grandi romantici neoclassici è legittimo pienamente chiedersi se tra la poetica di un Parini e la loro (al di là dei legami che a quella li stringe per il côté classicistico) non si possa trovare una trama letteraria in cui si avvertono atteggiamenti, cadenze che colmano quel divario di impostazione generale. Si leggano, ad esempio, i primi versi del Giorno

  (Sorge il mattino in compagnia dell'alba
  dinanzi al sol, che di poi grande appare
  su l'estremo orizzonte a render lieti
  gli animali e le piante e i campi e l'onde. 
  Allora il buon villan sorge dal caro
  letto cui la fedel moglie e i minori
  suoi figlioletti intiepidir la notte; 
  poi sul dorso recando i sacri arnesi
  che prima ritrovò Cerere e Pale, 
  move seguendo i lenti bovi, e scuote
  lungo il picciol sentier da i curvi rami
  fresca rugiada che di gemme al paro
  la nascente del sol luce rifrange.) 


e si avrà come uno spaccato di quella poetica: ecco il suono uguale, confermato dall'incontro di parole precise, conclusive per la loro forza di definizione e di eleganza, dall'aggettivazione sempre operante, collaborante a precisare sensazioni le più oggettive possibili. E nel paesaggio una decorazione meticolosa, lineare, con poco colore, senza notazioni suggestive e sentimentali, concentrata sul particolare prezioso e quasi miniaturistico.
Da questa poetica a quella di un Foscolo, di un Leopardi non c'è solo il divario dell'accento personale, ma anche un divario di tempo poetico, di cultura letteraria, per cui, malgrado l'ammirazione e la presenza del Parini a quei due grandi poeti, il tono della loro poesia è così nuovo e quasi al di là di una avvenuta rivoluzione. Si rompa una pagina dell'Ortis: "Andavo dianzi perdendomi per le campagne, inferraiuolato sino agli occhi, considerando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi, senza erba né fronda che mi attestasse le sue passate dovizie. Né poteano gli occhi miei lungamente lissarsi su le spalle de' monti, il vertice de' quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia che piombava ad accrescere il lutto dell'aere freddo ed ottenebrato. E parevami vedere quelle nevi disciogliersi e precipitare a torrenti che innondavano il piano, strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne e sterminando in un giorno le fatiche di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un raggio di sole, il quale quantunque restasse poi soverchiato dalla caligine, lasciava pur di vedere che sua mercè soltanto il mondo non era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancor le tracce del suo splendore: O Sole! diss'io, tutto cangia quaggiù! E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti, né più l'alba inghirlandata di celesti rose verrà cinta di un tuo raggio su l'oriente ad annunziar che tu sorgi" (18 gennaio). Senza istituire un minuto esame stilistico, quale diversa impostazione nel giovane Foscolo che pur vedeva nel Parini un maestro di vita e di arte! Basti osservare come il paesaggio tempestoso e sconvolto sia adoperato non descrittivisticamente, ma per un urto sentimentale, per la creazione di un tono tetro a cui il movimento di questa prosa si adatta con la sua abbondanza che non è più l'enfasi barocca sopravvissuta nel Settecento per particolari effetti, con il suo procedere a masse preordinate in cui i particolari, tanto amorosamente rilevati dal Parini, hanno importanza di rafforzamento di un'onda colorita a grandi chiazze dai contorni sfumati, senza un disegno secco ed evidente su di un campo di luce uguale e funzionale al disegno stesso.
Nuove parole godute per il loro suono greve e per il cupo pittoresco cumulo di verbi per rendere un movimento numeroso e turgido: mezzi di una poetica che tende all'impeto, al movimento sentimentale, non più alla chiara eleganza settecentesca, a quel disegno minuto e preciso. Più al sublime, che al bello, per adoperare una terminologia dell'epoca.
Quelle invocazioni appassionate e dolenti che accomunano all'ansia dell'uomo nuovi miti di una natura che non è più sfondo decoroso e sensuale, e che ritornano con una forza distintiva che le fa "leopardiane" nell'inizio del Canto del Pastore o in altri Canti:

  Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai
  silenziosa luna? 


Come nell'Ortis l'idillio campestre che si alterna ai motivi dell'orrore cosmico e della disperazione umana è ben lontano dall'edonismo arcadico, tutto teso com'è a un senso di fedeltà insidiata e nostalgica che si traduce in colore leggermente appannato, in luminosità fremente ed ansiosa. E se per il Foscolo si può dire che l'Ortis è poi superato nella poetica dei Sepolcri e delle Grazie (che però da quella esperienza essenziale non potrebbero in alcun modo prescindere), anche l'idillio leopardiano ha dietro di sé una somma di esperienze preromantiche che ammettono la sua intonazione ben diversamente da quanto farebbe una semplice autorizzazione tassesco-arcadica.
Si legga del Cesarotti questa paginetta sul bello morale ("La mescolanza del bello morale col sensibile rende questo più interessante. Un boschetto di alberi ben disposti è bello per sé; ma se questo è di cipressi funebri ci attrae di più per la dolce melanconia che sveglia in noi l'idea della caducità umana. La sensazione divien più viva e profonda, se in mezzo a un circondario di cipressi v'è una tomba o una memoria di un uomo celebrato o caro... Un mare in tempesta presenta l'aspetto d'un nulla terribile ma esso divien patetico se veggiamo da lungi un legno in pericolo di naufragare... Una campagna solitaria con una capanna e una greggia condotta da un pastorello inteso a suonar la zampogna, divien deliziosa, perché sveglia l'idea della pace e della innocenza") e i "temi" del preromanticismo si presentano nella loro autonoma vitalità e nel loro pretesto e suggerimento a ben altri idilli e a ben altre meditazioni poetiche. Si legga qualche periodo delle Prose campestri del Pindemonte ("Ah sì, viene un tempo nel quale più che il sentir nuovi affetti, giova contentarsi della rimembranza di quelli che abbiam sentito. Ragionamenti, letture, espansioni di cuore, rimproveri dolci, innocenti scherzi, piaceri dell'anima, momenti felici e rapidi, no, io non v'ho interamente perduto") - e si metta vicino magari a qualche pagina del Viaggio sul Reno del Bertola - e si sente il piano letterario, di esperienza di poetica su cui si muove certa prosa ottocentesca. Si legga una declamazione sull'orrido del Gargallo

  (Un lungo ululo d'upupa e di gufi, 
  e belve urlar, che il raggio odian diurno, 
  e Borea, che scrosciar fa la boscaglia, 
  e un volger di fiumi taciturno), 


e non appare sconnessa e letterariamente casuale la presenza più moderata dei testi romantici del primo Ottocento. Come le dichiarazioni in sede di poetica (perché è questo che a noi interessa) di un Bettinelli, di un A. Verri, di un Baretti storicizzano ampiamente la continuità e la novità, attraverso il nuovo bagno di europeismo, di un Berchet, alla stessa maniera che la potente rivoluzione poetica dell'Alfieri è presente alla sintesi dei grandi romantici neoclassici a cui portò essenziali suggestioni di linguaggio e di cadenza la versione cesarottiana dell'Ossian:

  Ma dimmi, o bella luce, ove t'ascondi, 
  lasciando il corso tuo, quando svanisce
  la tua candida faccia? Hai tu, com'io
  l'ampie tue sale? O ad abitar ten vai
  nell'ombra del dolor? Cadder dal cielo
  le tue sorelle? O più non son coloro
  che nella notte s'allegraron teco? 
  Sì, sì, luce leggiadra, essi son spenti
  e tu spesso per piangerli t'ascondi. 
  Ma verrà notte ancor che tu, tu stessa
  cadrai per sempre, e lascerai nel cielo
  il tuo azzurro sentier... 


Così più di una ricerca su lontani precursori (le ricerche del Quigley e del Robertson sui precedenti italiani del Bodmer) di teorie estetiche romantiche, mi è sembrato importante richiamare l'attenzione sulla viva esperienza di letterati e poeti legati in una comunanza di problemi e di tempo in quegli anni ricchissimi di curiosità europeistica, in cui stimoli esterni di diversa direzione (per intendersi, Pope e Rousseau) coincidono con il caratteristico raccorciamento dello sviluppo italiano nel quale elementi illuministici maturano accanto a potenti fermenti preromantici elidendosi e complicandosi in un impasto storico di grande interesse e tale da spiegare la particolare natura dello stesso romanticismo italiano nelle sue direzioni fondamentali di neoclassicismo romantico (Foscolo-Leopardi) e di romanticismo 1816.
E fuori del chiuso ambito (naturalmente chiuso, ma concreto) della nostra storia letteraria, uno studio che si propone di saggiare la poetica romantica in formazione, i vari tentativi di compromesso e di rivoluzione, di sintesi e di rottura entro la nostra tradizione, contribuisce ad arricchire quella larga e multiforme indagine europea "entre classicisme et romantisme", aiutando ad una precisazione del problema preromantico fuori del vago sensibilismo o del contenutistico studio di costume letterario alla Van Tieghem e alla Baldensperger, nella sua natura spirituale, ma insieme rigorosamente di poetica, una volta che ci si sia intesi su di una storia letteraria in cui non i poeti divengano documenti di un'epoca, ma i vari aspetti dell'epoca, le sue aspirazioni etiche, religiose vengano portati coerentemente nel commutatore della poetica. Se si vuole, ripeto, fare storia letteraria e non panorama di civiltà.
Così a voler intendere la sintesi di un Pindemonte, l'urto estremistico di un Viale, la fortunata audacia del Cesarotti, gioverà viceversa aver presente il più largo significato del preromanticismo e la sua complessità europea, la sua natura di novità che determina le reazioni e gli entusiasmi dei letterati italiani di fronte ai nuovi testi e alle loro traduzioni.
E proprio a questo scopo è essenziale indicare come nella destinazione singolarmente poetica dei motivi preromantici (bello morale, sublime, ma culminante in espressione d'arte) la forza rivoluzionaria sia costituita da un primo impulso non letterario, da un motivo vitale, da un malessere, da un'ansia teoricamente ingiustificata nel pieno della civiltà settecentesca animata da un sostanziale senso di benessere (anche dove prevalgono le accuse di Candide, anche dove, secondo il bellissimo brano di Goethe nella Dichtung und Wahrheit, l'ottimismo illuministico sembrava trovare una amara e inattesa sconfessione nel terremoto di Lisbona), di virtù attiva e compensata edonisticamente.
L'insoddisfazione dei metodi minuziosi della ragione avviava un'elegia (il termine più adatto all'intonazione preromantica) sensibile e dolente che solo più tardi il romanticismo organizzava come Streben verso l'assoluto e teorizzava nel grande idealismo tedesco, ma che in quell'aria di tramonto e di alba si svolgeva in una religiosità vaga, ora volta allo sfogo dell'orrido e del macabro ora rifugiata in un idillio elegiaco il cui termine di colloquio è la natura. Una natura diventata qualcosa di più che sfondo e decorazione, non più considerata a piccole sezioni miniaturistiche, ma nel suo ritmo più libero, mitizzata come prima originale espressione della vita; intima, solenne e paurosa nel suo persistere primitivo fuori di ogni possibile progresso, nel suo ripetere una parola misteriosa e solenne che elude la nostra capacità speculativa e suscita in noi l'unica misura con cui possiamo adeguarci a quel ritmo: il sentimento. Termini tradizionali della più facile riduzione Saint-Pierre Chateaubriand, ma vivi nel loro vigore più poetico e segreto già prima della formazione dei grandi miti romantici della protesta contro un potere "arcano" e neroniano (il Caino byroniano, il Gesù nell'orto di Vigny, la Ginestra leopardiana) fin dal Prometeo goethiano (1744) e prima ancora nella meditazione lirica dei preromantici inglesi e tedeschi.
In Inghilterra, in periodo illuministico, l'empirismo aveva in se stesso i germi del proprio superamento sentimentale e insieme la possibilità di una sistemazione Addison-Pope (buon senso-buon gusto), di una poetica di decoroso ragionamento in versi che portava come bersaglio polemico la vistosa eredità di Boileau:

(quelque sujet qu'on traite, ou plaisant ou sublime, que toujours le bon sens s'accorde avec la rime)

e che poteva essere ripudiata come "poesia" da Keats nella stessa misura che Leopardi adoperò per Parini.
Ma sulle grazie geometriche dell'Omero imparruccato e dei poemetti del progresso scientifico, il sensismo inglese dava dignità ai sensi interni, al sentimento e questa autorizzazione si complicava singolarmente con quella specie di sensismo spiritualistico e mistico cui, al di là del moralismo sentimentale dei romanzi di Richardson, collaboravano le insorgenti esigenze pietistiche il cui esempio più decisivo, nella sua monotona ed ossessiva tensione, le Notti di E. Young, implicava (e lo Young aveva teorizzato una violenta protesta contro la tirannia delle regole e delle tradizioni letterarie) una rottura senza riserve del cerchio ottimismo-decorazione per un ricorso integrale alla esaltazione, alla allucinazione come via ad un lirismo più che letterario, ad una espressione incurante di ordine e di chiarezza. Quella prosa di morbosa appassionatezza, quel procedere per ritorni ossessivi, per suggestione di immagini accumulate ed insistenti nella direzione notte e morte a cui il paesaggio allude continuamente con l'aiuto più tradizionale del sublime biblico miltoniano, è al centro di quella preoccupazione di eloquenza poetica che trova il testo più realizzato nella Elegia del Gray e la grandiosa figurazione poematica nello pseudo-Ossian macphersoniano, che accogliendo la nuova curiosità delle emozioni (il romanzo nero è in questo senso indice di un turbamento più profondo di una moda piacevole) costituiva il tentativo più consapevole, e quindi efficace, di concretare l'angoscia del suo tempo in una rappresentazione quasi tradizionale: personaggi, costume, paesaggio, tutti mezzi per suggerire quell'esaltazione tetra, quell'orrore senza spiegazione che provocava, nella patina di falso antico, violenze linguistiche e soluzioni letterarie, capaci di una maniera e di un gusto. Anche nella letteratura tedesca una grande poesia barocca ricca di fermenti religiosi che superano in esaltazione poetica i limiti di qualsiasi preziosismo o marinismo (Gerhardt, Spee, Hoffmanswaldau), aveva lasciato nel pieno trionfo fridericiano, della Stilisierung razionalistica, un impeto che non manca nel limpido problemismo di Lessing e la ricerca del popolare passava facilmente, come in Claudius, dalla chiarezza razionale alla intuitività del sentimento. Per cui si può tradizionalmente parlare di Gegenoffensive des Gefühls come del superamento di una parentesi eterogenea allo spirito poetico tedesco. E accanto alle fondamentali intuizioni di Hamann, Herder, sulla direttiva dello storicismo idealistico, la rivolta dello Sturm und Drang, il wertherismo, spezzando il prezioso impasto francese-tedesco del rococò, la misura decorativa verso il grandioso indefinito del genio e dell'anima melanconica, si univano all'idillio di Gessner e alla meditazione lirico-religiosa di Haller e Klopstock, le cui poesie bardite venivano poi a rinforzare l'influenza ossianesca in Europa.
Sì che fra le due letterature nordiche si operava una specie di fraterna collaborazione nella rottura della poetica illuministica e nella formazione di un animo poetico nuovo, superiore, anche se appoggiato, alle semplici discussioni teoriche, realizzato in esemplari poetici, in testi che letterature come quella francese ed italiana dovevano risentire con un di più di fascino, di meraviglia e di repulsione anche se non mancavano di precedenti in senso preromantico, specie nelle querelles sulle regole o sugli antichi e i moderni.
In Francia il reagente più notevole per una evoluzione preromantica del sensismo che là sembrava trovare la sua sistemazione più razionalistica e materialistica, priva di ogni fermento religioso di qualsiasi source (si può ricordare che il Vallery-Radot nel compilare la sua Anthologie de la poésie catholique en France, Paris 1933, non ha trovato autori per il secolo XVIII), fu l'indagine romanzesca sulle passioni che arrivò a Sade e Rétif e Choderlos de Laclos, ma che già in Manon Lescaut, prima di una chiara influenza del Richardson, portava punte nervose e tenere che resistettero al modulo di prosa rapida, eccitata intellettualmente dei romanzi illuministici di Voltaire, e si ammorbidirono e si svolsero in linea coerente fino a Saint-Pierre e a Rousseau: "le maître des âmes sensibles", lo scandalo dei Lasserre e dei Reynaud nel loro rifiuto del romanticismo come fenomeno anglogermanico, antifrancese, introdotto abusivamente da transfughi della luminosa tradizione classicista. Uno di questi contrabbandieri sarebbe quel magnifico traduttore della seconda metà del secolo che le storie letterarie francesi calcolano troppo poco e che nella sua opera di mediazione intelligente e raflinata tradusse Young, Macpherson (e Shakespeare) e dotato di una facilità sorvegliata e delle possibilità estreme della poetica sensista, creò una prosa vivace e languida insieme che rimase esempio decisivo di prosa preromantica francese, di ritmo preromantico anche per molti letterati italiani.
Tourneur operò una mediazione più facile in quanto egli non tentò neppure di accordare i nuovi testi poetici con una tradizione di alta poesia che in quel tempo era decaduta in un classicismo arido ed in un estenuato giuoco rococò, e tradusse prosa poetica (Macpherson e Young) in una prosa poetica già svegliata nei romanzieri da una sottile indagine della sensibilità, dei sentimenti: "Partout où mes vers rediront ta mort, tu recevras les soupirs des coeurs sensibles: le jeune homme dans la fogue de l'âge et des plaisirs suspendra la joie pour s'attendrir sur ton sort: il ira mélancolique et pensif, rêver à toi au milieu des tombeaux... ". In un certo smorzamento più elegante dell'originale, Tourneur mira a tendere la capacità poetica della prosa romanzesca francese al suo massimo, senza rivoluzionarla e senza ricorrere alla lirica in versi.
Con Rousseau e Diderot (le cui intuizioni potenti circa la natura istintiva della poesia, la sua condizione inevitabilmente geniale e la sua qualità di "enorme et barbare et sauvage" trovano una maturità contemporanea che da noi mancò ai preannunci di Vico) l'opera di Tourneur stimola gli sparsi elementi di discussione e di sensibilità "larmoyante" ad una poetica che sempre meglio è nutrita di una cultura letteraria veramente europea e non regolistica come era in generale rimasta quella illuministica eccessivamente appoggiata sul classicismo boileauiano.
La tradizione italiana non aveva nel primo Settecento - a parte il Vico - valide autorizzazioni in senso preromantico e la sintesi poetica pariniana aveva una forza prepotente di esclusiva che non trovava aperte ragioni di protesta, realizzando un'opera che rispondeva anche all'incipiente tendenza neoclassica, come inverava e superava la tenerezza arcadica in sensistica sfumatura.
È perciò da quella poetica tipicamente settecentesca che il preromanticismo italiano si distingue e si distacca con un delicato intreccio di dichiarazioni critiche, di attuazioni poetiche a cui resta essenziale la presenza del preromanticismo europeo nella mediazione complessa o contraddittoria delle traduzioni. Mentre una discussione ideale e trattenuta da esplosioni tardive di illuminismo, da ritorni di posizioni più antiquate si avvia fra i letterati più aperti ed europei in una crisi di cultura letteraria in cui è difficile distinguere nettamente, se non nella sua collaborazione alla più generale poetica, la linea nuova; le traduzioni dei testi preromantici inglesi e tedeschi, spesso nella mediazione francese, vengono a sollecitare e a suscitare l'evoluzione del sensismo, la lotta antiregolistica, l'amore del concreto, la personalizzazione del sublime nel genio, le nuove posizioni insomma da cui ha origine il romanticismo, confermando qualche isolata espressione indigena (Varano), permettendo esempi di una nuova maniera poetica. Donde una più larga e feconda crisi entro il linguaggio poetico inadatto ad accogliere quelle immagini, quella lirica cresciuta su di una oratoria tetra e desolata, quei moti dolenti di un languore non procedente da intenerita sensualità, ma da torbidi sviluppi sentimentali. Senza una libertà di prosa come quella del romanzo francese, le traduzioni o rimanevano letterali e sconcertanti o richiedevano accomodamenti e riduzioni: ma pur in questa opera contrastata di accettazioni timide e di riduzioni, di equivoci entusiasmi, i letterati italiani 1770 risentivano la poetica dei preromantici inglesi e tedeschi e nella imitazione (che prendeva carattere di moda coesistente con altre mode e maniere) di "notti", "tombe", "canti barditi", "idilli malinconici", una nuova aura poetica si diffondeva, nuovi canoni e nuovi modelli si precisavano all'attenzione generale: fra i quali l'ammiratissimo Ossian nella mediazione del Cesarotti. E questa, che è la massima esperienza preromantica prima dell'Alfieri, supera ogni altro tentativo di mediazione e rappresenta da sola, con la sua efficacia di formato poema, con la coscienza critica e linguistica del Cesarotti, il più concreto testo preromantico e il più ricco spunto sia come mondo di suggestioni fantastiche, sia proprio come realizzazione di immagini in versi, alla poetica di tanti romantici.
Dopo la versione cesarottiana e l'era delle traduzioni, la diffusa moda preromantica diventa periferico esercizio o fortunato equilibrio, come soprattutto nel Pindemonte (che riprospetta in un impasto neoclassico - preromantico la laboriosa sintesi di motivi storicamente diversi), mentre una sorta di estremismo preromantico sembra voler spezzare risolutamente la decorosa forma tradizionale e resta come una mano tesa verso il romanticismo dei Tedaldi Fores e dei Guerrazzi.
Con il romanticismo 1816, dopo la decisiva irruzione del titanismo alfieriano, e la definitiva consumazione di ogni Arcadia preromantica, e con il grande romanticismo neoclassico di Foscolo e Leopardi, nuove esperienze coerenti, e chiarite anche nei loro contatti europei, sostituiscono gli esili tentativi del secondo Settecento; ma non c'è poetica ottocentesca che nel suo distacco dal limite pariniano non abbia fatto i suoi conti con i testi della crisi preromantica.
I capitoli che seguono tendono perciò a dare un contributo per una storia del romanticismo italiano e a costituire insieme un approfondimento storico di un'epoca di crisi della nostra letteratura nelle sue linee di gusto, nella sua concreta attività poetica.



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da Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947)

Alcune pagine dal capitolo VI, "Introduzione alla poetica ariostesca". "Con quel volume - scriverà Binni nella premessa all'edizione 1994 di tutti i suoi scritti ariosteschi - contribuivo più compiutamente a una 'svolta' nel problema critico ariostesco in forza della salda impostazione di uno studio di poetica (era l'anno anche della più nota 'svolta' nel problema critico leopardiano, che per quanto mi riguarda, io promuovevo con il mio libro La nuova poetica leopardiana) e con un'articolazione di tutta l'opera ariostesca appoggiata a una presentazione della personalità ariostesca (...) e con un articolato raccordo fra opere 'minori' e Furioso, specie nelle Satire attraverso un ritratto interiore dell'Ariosto che appariva finalmente uomo-poeta, dotato di un senso delle 'cose' attivo e penetrante, base virtuale del suo slancio poetico a un sopramondo meglio precisato come rinascimentale (anche se un Rinascimento troppo burchkardtiano) non solo nelle misure artistiche, ma anche nelle forme letterarie."

Ma intanto se ci si domandasse di ricostruire subito la poetica ariostesca nel suo agire, diremmo anzitutto che essa si realizza essenzialmente nel Furioso e che nelle Liriche, Commedie, Satire fa delle prove idealmente se non sempre cronologicamente precedenti e funzionali, e perciò interessantissime, ma non definitive, verso la creazione di un tono madrigalesco-platonico nelle liriche italiane, verso un puro esercizio di costruzione in quelle latine, verso un tono realistico nelle Commedie, e realistico-discorsivo ben più interessante nelle Satire. Toni, che nel Furioso sussisteranno e si fonderanno su di un piano più alto, su di un piano totalmente fantastico, quasi in una diversa dimensione spirituale. Piena del senso bizzarro e 'romantico' della poesia cavalleresca, avvivata da ricerche particolari e non da una facile e generica bonarietà luminosa, ma tendente ad un sopramondo senza fratture, la poetica del Furioso mira a riprendere le molteplici esperienze letterarie e ad impostarle intorno ad una essenziale esperienza: quella del ritmo vitale nella sua varietà, nella sua avventurosità, nei suoi contrasti, nelle sue esplosioni e nei suoi abbandoni, filo che l'intelligenza individua in una concretezza amata e vissuta e che la fantasia solleva e redime in motivo poetico conservandogli nella massima purezza poetica il calore (che solo a volte diventa eloquente) dell'esperienza concreta, umana e definendolo continuamente in proporzioni musicali e pittoriche, insomma non contenutistiche, con quei tagli non striduli, ma sicuri che hanno tanto fatto parlare di ironia ariostesca. Donde la volontà di creare un tono fantastico e insieme naturale che tutta la critica migliore ha più o meno esattamente accertato, la volontà di creare (sogno massimo del '500!) un mondo che apparisse naturale, fuso, scorrevole in proporzioni perfette e tutte irreali, un mondo diremmo in cui la deformazione tanto cara ai quattrocentisti per superare la bruta realtà, conducesse ad un risultato così coerente ed organico, così limpido e umano da poter essere scambiato per una sublime continuazione di quel motivo di serenità vitale che il secolo sentiva come sine qua non di poesia. Una perfezione dunque che non nasce da un divino dipanare da cantastorie, ma da una mente poetica che agì su precise intuizioni di poetica, su direzioni non casuali, ma in cui ispirazione e decisione si fusero come avviene nella grande poesia che non è né costruzione intellettuale né immediatezza zingaresca.
Una profonda intelligenza poetica (che pure non esclude la spontaneità e vuole anzi provocare condizioni di azzardo suggestivo) è impiegata dall'Ariosto nel costruire le linee del suo poema, nell'incanalare la sua sensibilità musicale in un ordine che già di per sé può apparire quasi il simbolo della più alta civiltà cinquecentesca, il suo inveramento ideale, tanto è insieme perfetto ed intimo, tanto è multiforme, vario e pure armonico, impeccabile, ben lontano da un classicismo trissinesco, dal virgilianesimo di un Sannazaro, e insieme dal puro procedimento narrativo dei cantari anche se ripreso dal gusto di un Pulci o dalla serietà di un Boiardo.
La precisazione della poetica ariostesca nel suo capolavoro serve anche a liberare il Furioso da inutili problemi moralistici (patriottismo, satira della cavalleria, ecc.) che rimangono, sì, quelli storici, punti di contatto con i trattatisti del suo tempo, ma che sono superati in una ricerca meno parziale, superati e svolti secondo esigenze estetiche, dato che lo scopo della poetica ariostesca era la costruzione di un mondo che non fosse solo la semplice idealizzazione del mondo reale nella sua bruta evidenza e tanto meno la rappresentazione di una tesi o di un programma, ma un mondo assoluto, basato sul ritmo, sulla coerenza stilistica, sul puro fluire di una visione che dell'esperienza umana prendeva il più intimo calore, non il sussidio di fotografiche conferme.
Mirava l'Ariosto, con una tendenza che mai abbandonò nel lavoro lunghissimo del poema, a un sopramondo rinascimentale, quasi ad un al di là del suo naturalismo umanistico, quasi una Divina Commedia del '500, quasi l'unico paradiso che quell'epoca poteva sognare, paradiso di perfetta agevolezza, in cui le favole, le avventure, i viaggi, le belle donne sono come un'allegoria non medievale (ma ogni poesia è allegoria, ha un senso più profondo e più vero - proprio poeticamente - di quello che i comuni lettori credono di afferrare e di tradurre in prosa comune!) di quella aspirazione alla serenità, alla concordia nella varietà di quella visione naturalistica e platonica, totalmente umana che il Rinascimento possedeva ormai, oltre le polemiche umanistiche, oltre ed entro le ricerche archeologiche di un passato affascinante.
Questo sopramondo è costruito coerentemente alle sue premesse di superiore armonia con un metodo poetico che consiste nell'assumere il ritmo più profondo della vita nella sua molteplicità (qui il ritmo di una vita errabonda e avventurosa in concrete esperienze umane) come spunto della fantasia che vi costruisce una realtà non astratta gelida, ma di dimensioni nuove, irreali e pur non assurde e sbindite come nelle fantasie di certo romantiasmo scadente. Dimensioni nuove che si possono capire se ci si riferisce ai pittori dell'epoca e se si riflette in quale spazio si estrinsechi il viaggio della fantasia ariostesca. Spazio illusorio e pure concreto, fatto di misure gigantesche e di lontananze rapidamente accorciate, cui collabora un tempo ora fugace, ora rallentato, intimo alla libertà della memoria e pure chiaro come la divisione delle giornate reali.
Donde quella geografia strana e pur non astratta, a volte preciso paradiso naturalistico come il giardino di Alcina, a volte favolosa nostalgia di un'Europa medievale che l'Ariosto risentiva dalle epopee cavalleresche: le brume settentrionali, i deserti aridi della Spagna, la dolce terra di Francia. Donde un paesaggio concreto e soprareale, chiaro e suggestivo, perché il poeta vuole evocarlo con estrema semplicità, ma su misure irreali e mai pretende di farne, come un po' avveniva nei quattrocentisti, il protagonista della sua poesia, pronto a disfarlo in quel ritmo musicale che unisce, simbolo di una vita superiore, tutte le avventure, tutte le fiabe incastonate nel poema come meravigliosi scorci romanzeschi, tutti i personaggi che, si noti bene, la poetica ariostesca non cura in senso drammatico, come entità organiche inconfondibili e in sviluppo (come se fossero persone), ma che piuttosto vivono in funzione di tutta una scena, di tutto il ritmo fondamentale. Così ad esempio non è tanto un carattere che il poeta cerca in Angelica, quanto in quegli spunti di paura femminile, di astuzia, di egoismo, di vanità coesistenti con la sua grazia e la sua bellezza l'inizio di svolgimenti fantastici, di avventure poetiche diverse secondo il tema principale che in quel momento si svolge. Come d'altronde, la poetica ariostesca non cerca forme statuarie ed immobili, drammaticità psicologica e commovente, ma svolgimento di temi, rappresentazioni mosse in cui la sua passione e gentilezza sentimentale (Zerbino, Isabella, Fiordiligi) vive tutta come accrescimento di musica, di tono più caldo e concreto, che non rimane mai solo, antologico, ma sempre confluente nella sinfonia generale del poema.
Perciò mentre il suo metodo tende a creare una realtà tutta fantastica in cui le cose della vita umana si ripresentino in una nuova naturalezza tutta alleggerita e pure vaporosa di concretezza, in cui un'altissima deformazione (quella che opera scopertamente nella Primavera del Botticelli) viene a rinnovare dall'interno oggetti e paesaggi che appaiono non un'astrazione a freddo, ma con l'agevolezza, la semplicità di cose appena ritratte senza profonda trasformazione, è naturale anche che l'attenzione dell'Ariosto non si restringesse alla parola o al verso, ma si rivolgesse alla linea in cui parole e versi soggiacciono ad una fluida unità che non cerca accenti isolati in isolate espressioni, ma una continuità musicale, non estremi risultati lirici in un'immagine isolata, quanto la sua funzione per una trama più vasta. Così che l'Orlando è ben poco antologico e la lettura intera è solo capace di dar la misura completa di ogni singolo episodio, di ogni singolo tema. Ed anche in ciò l'Ariosto inverava nella maniera più alta quella tendenza all'opus, al poema, all'unità che i minori e gli intellettualistici pedanti andavano a cercare in nuove assurde Eneidi, e più tardi in conclusione di regole.
Una poetica, quella dell'Ariosto, che dà alla floridezza cinquecentesca una tensione spesso soffocata per troppo splendore, e alle ricerche troppo tecniche del Quattrocento una meta di perfezione serena.



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da "Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13" (1954)

Il saggio, pubblicato sulla "Rassegna della Letteratura Italiana" e successivamente raccolto nel volume Ugo Foscolo. Storia e poesia (1982), affronta il problema dei rapporti fra biografia storico-personale e poesia di un poeta, sottolineando - scriverà retrospettivamente Binni nella premessa al volume - "la genesi complessa ed inquieta delle Grazie, il loro fondamentale legame con gli avvenimenti della campagna di Russia e delle sue conseguenze, rompendo l'immagine troppo beata, pura e musicale di quella poesia, recuperandone le aspre ferite e i traumi storico-personali, la stessa sua esposizione a nuove esperienze deludenti e a nuovi impeti drammatici e pessimistici. Mentre quel saggio si legava a un mio tema ben peculiare (come ben vide Claudio Varese nel suo articolo Vita e poesia, in "Criterio", 1957) già evidenziato nella mia prospettiva metodologica Poetica, critica e storia letteraria, stesa nel 1960 (nella "Rassegna della Letteratura Italiana") e poi ripresa e sviluppata nel volume omonimo del 1963 per l'editore Laterza e in cui mi servivo della poesia foscoliana anche nel periodol giovanile (fino ai grandi sonetti) per evidenziare la natura della poetica esplicita e implicita e in movimento, e l'iter del suo realizzarsi poetico dentro la storia dello scrittore e della sua epoca."

E nello stesso inverno '12-13, in cui sostanzialmente concludeva il lavoro sterniano e la Ricciarda, il Foscolo, mentre rafforzava, dopo lo sfogo della tragedia e l'esercizio e il ritratto didimeo, la propria aspirazione ad un'armonia più sicura e luminosa, poteva aprire di nuovo e più chiaramente il suo animo all'eco delle passioni lontane e vive, alle notizie da Milano delle sventure, della scomparsa di giovani amici e di vecchi compagni d'arme nella campagna di Russia, dei pericoli dell'Italia minacciata dalla guerra. E quegli echi di una realtà dolorosa e a cui non poteva essere indifferente e che gli ricordavano i suoi amori, le sue amicizie, i suoi impegni e i suoi ideali politici, i suoi rapporti di uomo vivo nella storia del proprio tempo, vengono a rifluire in lui sollecitanti, ma non turbatori, proprio quando egli riprende con nuova forza l'elaborazione delle Grazie in quell'inizio di primavera del '13 in cui era salito a vivere a Bellosguardo in una pace serena ed armonica sottraendo il suo lavoro ad ogni pur minimo disturbo, regolando a suo piacere le essenziali occasioni socievoli, i rari affetti (la Quirina, il salotto del Lungarno) che lo riscaldano in un presente privo di ansie e di crucci immediati.
Condizioni biografiche ed esigenze intime della poesia si aiutano in un momento di suprema energia creativa, passioni e serenità si equilibrano in un rapporto singolarmente propizio. In quell'aprile indimenticabile per lui ("né il vago rito | obblieremo di Firenze ai poggi | quando ritorni April" dirà nel finale delle Grazie) e poi sino al luglio, in quella zona di serenità e di vitalità pura e profonda, in cui il respiro della poesia si confonde con il respiro della vita del poeta e del paesaggio ("nella convalle fra gli aerei poggi", fra le "quete ombre di mille | giovinetti cipressi"), in quella disposizione dell'armonia che vive in ogni ora della sua giornata, in quel cerchio purificatore sensibile e resistente come il velo stesso delle Grazie, tornano da lontano e lo tendono senza spezzarlo, le passioni e gli echi della dolorosa realtà. E le voci del "passionato" contemporaneo penetrano nella perfezione del "mirabile" mitico e tutto l'animo foscoliano esprime le sue note più profonde e universali. Più armonia e più tensione, più purezza e più complessità, più altezza di distacco poetico e più impegno nella interpretazione della vita umana. Chè in quell'accordo supremo di tensione e di serenità, riaffiora, privo di ogni polemica eloquente, di ogni enfasi violenta, tutto il dramma degli uomini e della storia, e una potente elegia dolente e luminosa, senza la minima traccia di languore, forma un essenziale chiaroscuro così foscoliano con l'aspirazione all'armonia, con il sentimento di un'umanità superiore libera e fraterna, con l'Iperuranio, in cui sono "senza brina | i fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno | sempre, e stellate e limpide le notti" ma che pure idealmente è un'esperienza dell'animo che poi con rinnovata forza torna ad immergersi nella vita minacciata dalle impure passioni, dagli atavici istinti ferini e fratricidi.
Al di là dell'Ajace, in cui alla preghiera di Tecmessa di far crescere il figlio non "disumano", libero di eredità di odio e di colpe, l'eroe della tragedia rispondeva ancora con la soluzione suicida dell'Ortis ("o uomini infelici | nati ad amarvi e a trucidarvi, addio!"), il Foscolo delle Grazie raggiunge un punto più alto e conclusivo per il suo animo, e così importante nella storia di quel tragico momento della civiltà (fra crollo napoleonico, ritorno della reazione e religione incipiente della libertà e della patria: egli poeta ora di tutte le patrie offese ed invase e non solo dell'Italia "afflitta di regali ire straniere"). Non con la morte sdegnosa ma con l'esercizio intimo di una vita più pura e superiore egli risponde all'orrore della "fraterna strage" e lo stesso compianto dei "giovinetti per la patria estinti", dei "principi" quando sventura di alloro li "corona", dei condottieri in lotta per la difesa e non per l'offesa (in contrasto con la ferma, alta condanna per "l'avido re" che "ad innocenti popoli appresta ceppi e lutto ai suoi" o dei violenti che "alla divina libertà dànno impuri ostie di sangue"), è come l'alba malinconica e lieta di un'umanità ingentilita dalle grazie, viva di affetti intensi e disacerbati come quelli dipinti nel velo tessuto nell'Iperuranio.
Ugualmente l'elegia degli uomini "dopo brevi dì sacri alla morte", mentre è componente essenziale di un inno all'armonia, tanto più alta perché consapevole del suo difficile possesso e della sua delicata fragilità, è a sua volta superiormente rasserenata non da orgogliose o ultraterrene speranze, ma proprio dall'esercizio attivo dei sentimenti della compassione, della ospitalità, del casto amore, della fruizione della poesia, delle arti, dell'armonia che vive nell'universo come la stessa coscienza dolorosa dei suoi possibili limiti e per la quale gli uomini son resi "men tremanti al grido che li promette a morte"; e "dalla fonte del duol sorge il conforto", dal seno stesso del dolore nasce la gioia. Una gioia profonda e malinconica, fiduciosa e consapevole, che il Foscolo nutrì nel suo animo in quei mesi supremi della sua vita poetica ed espresse in altissimi miti perfetti e vibranti, luminosi ed intensi, nitidi e mobili e segreti come l'armonia e la musica, alle cui condizioni l'ispirazione delle Grazie meglio corrisponde superando, nei suoi momenti più veri, ogni possibile paragone con un colorismo sensuale, con una fermezza di bassorilievo, e raggiungendo il segno di quella arcana armoniosa melodia pittrice, viva davvero nella musica della vergine romita o nel misterioso alitare della fiamma di Vesta.
In quei mesi di eccezionale fervore creativo e di equilibrio fra tensione e serenità, mentre l'inno iniziale si articolava in un carme in tre inni e il disegno se ne allargava continuamente, il Foscolo operava un approfondimento del suo iniziale fantasma poetico. E se sarebbe assurdo precisare in termini assoluti un vero e proprio contrasto fra le Grazie iniziate nel 1812 e il lavoro del 1813 che sulla via delle prime si svolge e ne accetta le prime stesure e ne utilizza schemi e intenzioni, a me sembra fondamentale quella constatazione, che implica una correzione intima - anche se non sempre felicemente attuata e complicata rischiosamente dalla volontà di una completezza particolareggiata degli elementi più esternamente didascalici del carme neoclassico - dei pericoli insiti in una inclinazione più facile ed elegante, in un significato più immediato del rifugio e dell'evasione dal "mare furente" di cui parlava nella lettera citata all'Araldi, in un vagheggiamento più compiaciuto del vago, dell'amabile, del grazioso, di quell'armonia che nel successivo e più intenso lavoro della primavera venne meglio assicurata nei suoi valori arcani, nella sua luce profonda. Approfondimento e ricerca di toni sempre più musicali ed intimi che (pur nella presenza di episodi e frammenti meno intensi e più letterari e didascalici, specie nel II inno) io penso si potranno sostanzialmente precisare nello svolgimento dei cicli elaborativi del carme, fissati, fra l'inizio della primavera e il luglio, dall'introduzione che Francesco Pagliai ha premesso al suo anticipo del testo critico delle Grazie che, ad ogni modo, confermerà risolutamente la quasi totale fiorentinità delle Grazie e l'eccezionale fervore creativo di quella primavera di Bellosguardo.
Si potrà anche dire che all'arricchimento e approfondimento corrispose una maggiore difficoltà di concludere il poema, che le nuove occasioni poetiche, mentre sollecitavano il poeta ad ampliare il suo carme e a dargli un valore tanto più universale e superiore a quello dell'inno del rito delle tre sacerdotesse delle arti e dell'omaggio a Canova, lo inducevano ad un lavoro tormentoso di accomodamenti e di spostamenti per adattare i nuovi nuclei lirici e le nuove elaborazioni di quelli precedenti ad uno schema sempre più complesso. Ma è chiaro comunque che la poesia foscoliana in quel periodo raggiunse le sue punte più intense e più profonde proprio perché i motivi più segreti, le voci più vere della sua anima trovarono in quei mesi un felice accordo - e al culmine di un lavoro artistico che unifica tutto il periodo fiorentino - fra tensione e serenità, agevolato dalla singolare condizione del Foscolo, nella calma di un presente confortato di suggestioni e di affetti tranquilli e nella tensione eccitante, ma non agitante di passioni e di echi della realtà contemporanea mediati e illimpiditi in quel cerchio perfetto e catartico.



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da "Parini e l'illuminismo" (1956)

Curatore di un precoce commento alle Odi del Parini nel 1938, Binni dedicherà un assiduo impegno critico alla complessa poetica pariniana nei suoi nuclei fondamentali: "il classicismo del letterato, il sensismo del realista, l'illuminismo del riformatore", di cui tenterà una prima sintesi dinamica in uno dei capitoli di Preromanticismo italiano (1947): "sintesi mirabile di Arcadia, illuminismo, sensismo, su base classicistica". Gli studi di Binni, che trovano un momento significativo in questo saggio del 1956, approderanno a una grande sintesi nel capitolo pariniano del volume Il Settecento (1968) della Storia della letteratura italiana Garzanti diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, riproposto con note aggiunte nel volume Settecento maggiore (1978). Il brano che segue è l'inizio del saggio del 1956.

Nel quadro della cultura illuministica italiana la poesia del Parini rappresenta la sintesi più alta e originale di motivi ideali e di esigenze artistiche proprie di quella cultura: sintesi che supera con una coscienza letteraria e poetica più sicura e personale le forme più divulgative e seccamente razionalistiche di un semplice didascalismo insaporito da una più esterna eleganza oraziana (la posizione dell'"util poeta e tosco Orazio" attribuita dal Bettinelli all'Algarotti) e supera insieme l'edonismo classicistico-rococò di un Savioli con un deciso impegno morale e con la forza persuasa di un alto messaggio umano e civile che originalmente traduce la fede fondamentale di una civiltà lucida e fervida, attiva e innovatrice.
Tutta l'opera del Parini si può sostanzialmente inscrivere nelle generali esigenze della civiltà illuministica anche se di queste essa offre una versione particolare, caratterizzata da una personale misura morale e poetica che, come rifiuta le posizioni estreme dell'ideologia sistematica e le forme più immediate di una concezione letteraria puramente didascalica e contenutistica, così nettamente reagisce poi alle tentazioni della sensibilità e del gusto preromantico, condannati dal poeta in nome della sua fedeltà alla tradizione italo-greca e alla luce di un preciso ideale di vita ispirato ai binomi inseparabili di Natura-Ragione e Piacere-Virtù.
Ideali che ben rappresentano compendiosamente l'incontro fondamentale nel Parini di ispirazioni illuministiche e umanistiche e sorreggono al centro lo svolgimento della sua opera, anche se le "costanti" pariniane del classicismo e dell'illuminismo si precisano in dosature di diversa intensità, attraverso una storia di fasi non opposte e rigidamente schematiche, ma duttilmente identificabili in un processo che dagli inizi arcadici e da posizioni più combattive sale ad una più alta fase finale, in cui il classicismo si fa più chiaramente "neoclassicismo" nobile e virilmente sereno e la fede illuministica si depura in un ideale di saggezza umana più personale e luminosamente poetico.
Si può discutere la precisa linea di tale storia, ma certo con l'attenzione ad essa pare anche più facile proporre una immagine complessa e storica di fronte alle eventuali immagini contrastanti e forzate di un Parini come puro letterato arcadico-umanistico, a cui i contenuti civili e ideali potrebbero essere semplice pretesto di alta esperienza stilistica, e di un Parini poeta civile illuministicamente prerivoluzionario o addirittura presocialista.
E a proposito di questa seconda interpretazione occorrerà comunque subito precisare che, mentre la posizione illuministica del Parini ha una sua evoluzione quanto ad intensità polemica, essa è, in generale, contraddistinta da un forte senso di misura, di cautela, di concretezza, diffidente di ogni avventura e di ogni affrettata rottura dell'ordine presente. Come, già nel periodo più combattivo, chiaramente ci attesta la significativa contrapposizione, nella "Cicalata in versi" I Ciarlatani, del '62, tra il riformatore prudente che compie sicuri passi di progresso, iniziato con una autoriforma morale, e il rivoluzionario dottrinario e fanaticamente sistematico:

  Un filosofo viene
  tutto modesto, e dice:  
  - Bisogna a poco a poco,  
  pian pian, di loco in loco  
  levar gli errori dal mondo morale:  
  dunque ciascuno emendi  
  prima sé stesso e poi degli altri il male. -  
  Ecco un altro che grida:  
  - Tutto il mondo è corrotto;  
  bisogna metter sotto  
  quello che sta di sopra, e rovesciare 
  le leggi, il governare;   
  non è che il mio sistema  
  che il possa render sano. - 
  Credete al primo; l'altro è un ciarlatano.  


Prudenza riformatrice ben in accordo, del resto, con il concreto moto riformatore, a cui, nella Lombardia austriaca, il Parini attivamente collaborò, e che, d'altra parte sarebbe ugualmente errato ridurre a timidezza e a gusto di compromesso ritardatore di un più forte movimento storico, perché a quella prudenza non manca mai il genuino accento di una decisa persuasione, di una fede in un sicuro progresso umano, morale, civile che supera in profonda partecipazione personale quello che poteva essere un semplice accompagnamento dell'azione riformatrice ufficiale da parte di un poeta cortigiano.



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da "Tre liriche del Carducci" (1957)

Alternando il momento della sintesi con quello dell'analisi, l'esplorazione della lirica Nevicata propone una nuova interpretazione della poetica carducciana, entrando in quelle "zone d'ombra" già segnalate da Luigi Russo, in un nuovo intreccio energico di analisi tematica e stilistica. Il saggio del 1957 sarà poi raccolto nel volume Carducci e altri saggi (1960).

  I. 
  NEVICATA
  Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi, 
  suoni di vita più non salgon da la città, 
  non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro, 
  non d'amor la canzon ilare e di gioventù. 
  Da la torre di piazza roche per l'aëre le ore
  gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí. 
  Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
  spiriti reduci son, guardano e chiamano a me. 
  In breve, o cari, in breve - tu càlmati indomito cuore -
  giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò. 


Dirò subito che questa "barbara" è per me uno dei risultati più interi ed intensi della poesia del Carducci, una sintesi equilibrata ed energica delle sue tendenze più personali, una prova notevole delle sue possibilità di concentrazione lirica e di sicura realizzazione espressiva, della sua matura ricchezza di vibrazione e di suggestione sentimentale e fantastica tutta dominata in un'articolazione scandita e continua, in un quadro compatto, senza incrinature e cadute di tono.
Proprio in tal senso è una risposta positiva ai nostri dubbi, alla nostra insoddisfazione di fronte ai pericoli di diluizione dei nuclei lirici, di cadute e sbalzi di tono così frequenti nel Carducci anche in poesie ispirate che tante volte chiedono se non tagli antologici certo sorvoli rapidi su parti improvvisamente scadenti ed approssimative, in cui la tensione poetica autentica vien surrogata dai sobbalzi del declamato o da confidenze troppo discorsive o da compiacimenti illustrativi agevolati dalla tentazione della varietà e da certi conati di una poetica spesso poco sicura fra tecnicismo aristocratico e prezioso, facilità parlante e i più pesanti "doveri" e la pericolosa vocazione costituzionale del vaticinio civile e patriottico.
Qui invece (e del resto la brevità è propizia in generale al Carducci, malgrado la sua tendenza all'affresco e all'opera complessa in cui più raramente la sua forza regge all'impegno) la concentrazione è massima, la intuizione centrale si è svolta intera, ha riempito tutto il quadro sino ai suoi margini estremi, senza dispersioni, senza sbavature sentimentali, senza pose di outrance sentimentale e verbale, pur essendo ricca di una dolente sensibilità, di un impeto che tende, entro una costruzione squadrata e netta, ogni parola, ogni movimento di ritmo, ogni immagme con la pienezza e la sicurezza di una poesia che trova un consolidamento espressivo coerente ed unitario.
Certo, sia ben chiaro, sempre nei limiti di profondità di un poeta che mi pare rischioso ed errato mettere a paragone con quei maggiori poeti lontani o vicini (e sian questi Foscolo o Leopardi), da cui lo distacca (ed egli ne fu a suo modo cosciente se parlando della sua "religione per i grandi poeti", per "i grandi astri che ridono eterni", se ne dichiarava dolorosamente lontano quanto a propria forza creativa), una minore pienezza lirica centrale, una diversa profondità della parola che sale da zone interiori più circoscritte e meno complesse, realizzandosi in una minore assolutezza espressiva, in uno stile che mantiene spesso qualcosa di più greve e pesante, di meno limpido e puro, mentre la sua stessa serietà artistica e tecnica non può vincere spesso centrali incertezze, oscillazioni fra l'approssimativo e il prezioso. Ma, affermati francamente questi limiti costituzionali, mi pare che in questo componimento si possa cogliere uno dei momenti più intensi e realizzati delle vere possibilità poetiche carducciane.
In questa poesia, in questo eccezionale momento di riepilogo interiore da parte di un poeta che ha il pieno possesso di tutti i suoi mezzi e motivi lirici senza più distinzione fra ispirazione e tecnica, il Carducci rivedeva liricamente entro di sé, in un'attiva memoria dolente e vigorosa, lo svolgimento più profondo e l'approdo virile funereo della sua tormentata esperienza vitale, tesa fra orgogliosi impeti di affermazione, di possesso della realtà, di ideali umanistico-naturalistici, di intero contatto con gli uomini, condotti fino all'espansione euforica del Canto dell'amore, e il sentimento della difficoltà e fragilità di quel possesso, della resistenza di una realtà umana opaca e deludente. Sentimento quest'ultimo che lo aveva portato, proprio nel pieno della passione per Lidia, a immergersi cupamente nel tedio (parola e sentimento ben suo, al di là di certe forzature di posa romantica, corrispondente ad un polo del suo fondamentale contrasto di temperamento e di intuizione lirica della vita), a rifugiarsi fra i morti che non deludono e che non tradiscono, a contemplare la tomba non solo con l'orrore affascinato della sua condizione di totale esclusione, ma proprio nel suo fascino di rifugio, di suprema e dolorosa sicurezza, di risposta sdegnosa ed eroica alla mediocrità e alla viltà, agli inganni del presente e degli uomini impari all'altezza del sogno di una umanità intera e poetica, di quella schiatta "alta, gentile e pura" cui il Carducci aspirava ardentemente già all'aprirsi della sua maturità umana e poetica.
Di questa tensione alla morte, e al rifugio tra i morti si era fatto espressione concitata e sintetica il grido "il mio cuore è coi morti" che, nel '74, aveva dominato il ritornello doloroso di Brindisi funebre ("beviam, beviamo ai morti - con essi sta il mio cuor"), e aveva risuonato in tante lettere di anni successivi con la sicurezza di un leitmotiv profondamente consolidato in una precisa sentenza personale e poetica. E questa aveva trovato la sua precisa formulazione fra stimolo di esperienze dolorose e il contatto propizio con un testo di Hölderlin letto e tradotto parzialmente nell'agosto-settembre 1874: quella poesia Griechenland sul cui finale il Carducci tornò ancora nel 1903 variandone leggermente la traduzione con la mano mal certa in una delle ultime patetiche sue prove di scrittura a lapis, tanto quei versi gli erano cari, tanto egli aveva sentito la loro importanza nella chiarificazione di un suo sentimento che chiedeva e non trovava ancor bene espressione.
Quel finale di Griechenland infatti lo aveva aiutato, fra lettura e traduzione, a definire questo suo ardente e cupo desiderio della morte come rifugio dolente e consolatore e a precisarne le direzioni essenziali di una impetuosa discesa alla casa dei morti con quel "giù" così carico di tensione e di brama complicata dal sentimento fisico della tomba e dell'Ade che il Carducci sentiva soprattutto come sotterraneo, non celeste, indissolubilmente legato alla sua sensibilità tutta terrena ed umana:

  Là dove il mirto e un miglior sol corona
  Anacreonte e Alceo là giù vo' gir! 
  Con i santi là giù di Maratona
  ne l'esil casa d'Hade io vo' dormir! 
  La mia lacrima estrema, Ellade bella, 
  scorra e risuoni il canto ultimo a te! 
  Alza le forci omai, fatal sorella, 
  perché tutto co' morti il mio cuor è. 


Poi, proprio nel 1880, la lettura e traduzione di un altro brano di Hölderlin (poeta-guida di questo motivo nella propizia consonanza di una posizione neoclassicoromantica di amore della Grecia e di nostalgia di un passato eroico e luminoso) venne a rinforzare, in un periodo di meditazione cimiteriale così intenso (aperto nel '79 dall'elegia Fuori alla Certosa di Bologna), la suggestione, il fascino della discesa fra i morti sempre più intensificato da un sentimento di precoce vecchiaia, di crescente solitudine e distacco, fra la scomparsa e la perdita di vecchi e giovani amici e la fine dell'amore per Lidia, prima ancora della sua morte.
Quando il 29 gennaio 1881, sullo sfondo sollecitante della cupa giornata invernale e nevosa (già l'anno precedente l'elegia Ave. In morte di G. P. si era aperta sullo sfondo di una giornata di neve: "Or che le nevi premono, | lenzuol funereo, le terre e gli animi, e de la vita il fremito | fioco per l'aura vernal disperdesi"), il Carducci scrisse la prima stesura di Nevicata, tutti quegli spunti e avvii del motivo che fermentava da tempo nel suo animo e nella sua fantasia, quelle parole e immagini già provate e incubate nelle lettere, nelle traduzioni da Hölderlin, nelle poesie precedenti (e con quelle altre parole e ritmi più suoi ed echi di altri poeti sentiti come congeniali alla situazione o ad elementi del suo svolgimento) vennero a raccogliersi entro una centrale intuizione, così diversa dalle forme di uno sfogo immediato e diaristico. E si composero, presero spazio poetico in un quadro in cui la situazione immediata e precisa (l'interno dello studio del poeta, la finestra dai vetri appannati, lo sguardo al cielo nevoso, l'attenzione al silenzio che nega e recupera i suoni consueti, stimolata dal tocco isolato delle ore della torre di piazza) si liricizza in rapporto all'espressione del motivo a lungo meditato e si dispone a prepararlo, a creargli suggestione e realtà di scena.
Una scena, che nella energica simmetria del componimento, occupa con la sua più diretta espressione tutta la prima metà della poesia sino al trapasso ad una scena più interiore, precisato nel verso 6 in cui il suono delle ore svolge la sua allusione più segreta, il suo intimo riferimento al misterioso sospiro di un mondo perduto e lontano dalla vita consueta, alla voce prima dei morti.
E in questa prima scena che crea l'atmosfera realistico-suggestiva e conduce dall'esterno all'interno, sulla guida di una sensibilissima disposizione progressiva pur nell'apparente giustapporsi staccato e pausato di impressioni a sé stanti, e sul filo unitario di un continuo riferimento all'attenzione centrale del poeta (prima lo sguardo al cielo cinereo e alla neve che lenta fiocca, poi la sensazione del silenzio che abolisce, ricordandoli e trasferendoli in una zona di nostalgia implicita e sommessa, i suoni del giorno consueto, poi l'attutito vibrare dell'unico suono che resiste e che nella sua unicità suggerisce l'avvio più deciso allo sviluppo della interpretazione più personale e poetica di tutte queste sensazioni e di questa dimensione insolita fra realtà e sogno interiore), la realizzazione di un così eccezionale e perfetto equilibrio in tensione raccoglie, come già dicevo, parole, immagini, ritmi più veramente carducciani nella loro funzione più matura e originale.
Si pensi per le parole-colore e suono al tematico "cinereo" (uno dei colori più tipici delle gamme carducciane nella loro bipartita tensione e nei loro impasti a contrasto), al "roco", che nell'eccellente incontro ritmico del verso 5 ("roche per l'aere le ore") riprende la prova di Mors più pesantemente onomatopeica ("e solo il rivo roco s'ode gemere"). O si pensi all'immagine del silenzio della giornata nevosa (Ave e alcune aperture di lettere), o, nella singolare e non più ripresa adozione di un particolare distico elegiaco, all'impasto di ritmo solenne e rapido, scandito e vibrante, di predominante lentezza energica e pensosa con esiti di squillo attutito e di suono cupo nei finali dei distici mediante un ardito impiego (non divertimento prezioso, ma funzione di poesia) delle cinque vocali accentate in fine di verso: quasi con una utilizzazione superiore delle tendenze di ritmo e di suono di Rime nuove e di Odi barbare sulla trama dominante delle seconde.
Poi, dopo il primo distico in cui più forte domina il silenzio e lo squallore della giornata invernale, un movimento più animato cresce nel secondo distico fino al chiaro recupero nostalgico, pur nella negazione, di freschi elementi vitali con il rilievo lieto di quell'"ilare" (vibrante incontro di immagine e suono) e lo squillo rapido del finale "e di gioventù". Mentre il ritmo più lento, monotono, scuro del terzo distico trova un esito più complesso nella direzione di uno sviluppo di distanza suggestiva, di suono che apre il passaggio ad una zona misteriosa, spirituale, approfondita dalla sua stessa misteriosa lontananza.
Proprio sull'avvio del verso 6 (dove la componente del singolare spiritualismo carducciano non prevarica in vaporosità, come troppo spesso succede nello sviluppo senile, lievito e pericolo di Rime e ritmi, fra gli esiti alti dell'Elegia del Monte Spluga e l'inconcludente misticismo della Chiesa di Polenta), la poesia si svolge nella sua parte più intensa, più lirica: quella a cui il Carducci da tempo soprattutto pensava, ma che aveva bisogno, per superare il grido autobiografico, la notazione epistolare-diaristica, appunto di tutta la mitizzazione scenica, del quadro realistico-fantastico entro cui l'appello ai morti, l'impeto della discesa fra loro trova la forza di trasfigurarsi fantasticamente, anche se nei modi energicamente compendiosi e concentrati che son propri del migliore Carducci.
Con un potente passaggio, la mitizzazione dei morti negli "uccelli raminghi" che picchiano ai vetri appannati, rivela il suo significato aperto e la forza dell'immagine iniziale, la sua ferma violenza tempestosa che imprime una eccezionale pienezza alle singole parole, e si ripercuote intera nel finale del distico traducendosi nell'energico riferimento personale in cui la posizione del dativo "a me" dopo "chiamano" per superare la semplice assimilazione al reggimento del primo verbo in un violento salire dell'onda poetica fino all'intensissima forma di dativo personale: "guardano e chiamano a me", che unifica tutto ormai nel rapporto diretto fra il poeta e i morti.
Al loro appello e al loro sguardo affascinante e inquieto risponde l'ultimo distico, in cui il motivo, maturato a contatto di Hölderlin, si svolge e si arricchisce nella risposta ai morti e nel brusco, patetico invito al cuore a placarsi. Un invito che in quella risposta si inserisce audacissimo a movimentare drammaticamente questo dialogo concitato e dolente, ricco di risonanze elegiache e affettuose, accelerato dalla urgenza che proveniva dall'appello dei morti e che si ripercuote nella replica del rassicurante "in breve", per concludersi nel denso, scuro sviluppo di suoni, di direzioni, di parole-immagini funerarie ("giù al silenzio verrò, ne l'ombra riposerò"), tese da un'estrema energia volitiva, perentoria e tutta vibrante fra un sospirato desiderio di rifugio e di riposo da tutto ciò che la vita rappresenta di vile, di deludente, di mediocre, di malvagio e un dolente rimpianto e una prefigurazione di abbandono degli aspetti consolatori della vitalità. Aspetti negati assolutamente dai termini estremi del loro contrasto ("giù", "silenzio", "ombra") e che, d'altra parte, anche in questa poesia il Carducci aveva trovato modo di ricordare e vagheggiar sobriamente pur negandoli ("non d'amor la canzon ilare e di gioventú") nel quadro della giornata invernale e del suo simbolo cimiteriale secondo un modulo di contrasto essenziale alla sua visione poetica.
A questo risultato così deciso e pieno il Carducci giunse attraverso una elaborazione che, pur sulla base di un primo abbozzo sostanzialmente ben delineante i termini essenziali della poesia, indica molto significativamente per noi il procedere della sua espressione, e soprattutto isola bene i punti più significativi della poesia, il passaggio sempre più sicuro a quella totale immagine sintetica così sua e matura nello scarto dei pericoli di approssimazione, di letterarietà, o di vaporosità o pesantezza.
L'elaborazione di Nevicata si dispone in quattro momenti: due vicinissimi, il 29 e il 30 gennaio, uno più lontano, 11-18-19-20-21-24 marzo, l'ultimo, quello della stampa, avvenuta il 3 aprile quando la poesia venne pubblicata nella "Rassegna Settimanale" col titolo di Nevata.
Nel passaggio dall'abbozzo (che presenta un complesso insieme di varianti) del 29 gennaio alla stesura completa del giorno seguente, la poesia venne consolidandosi con una intensificazione del motivo centrale e con la sostituzione di forme più schiettamente carducciane ad altre più deboli, più esterne, più letterarie o approssimative.
Al verso 1 "ciel di cenere" diviene "ciel cinereo", addensando la forma precedente più pesante e distaccata nell'aggettivo ricco di vibrazioni foniche e allusive.
Al verso 3 la sistemazione è definitiva e assimila più personalmente i chiari echi leopardiani della Quiete dopo la tempesta. Come avviene anche al verso 5 ormai fissato nella sua forza di precisione e allusione musicale immaginativa, tolto l'ingombro della qualifica dell'aer "freddo" che distraeva dalla sensazione del suono delle ore che ora riempie grave e suggestivo tutto il verso.
Mentre al verso 6, ancora così insufficiente, il Carducci trovava almeno l'esito squillante ("manda" dell'abbozzo diviene "spedì"), che risponde all'esito accentato dei versi 2 e 4: passaggio dall'eco lieta e struggente di suoni vitali a quello misterioso di un primo appello alla visione interiore, anche se in forme d'immagine troppo aperta e direttamente funerea ("le ore | passano messagger che la morte spedì").
Al verso 7, eliminata la tentazione dell'eccesso realistico ("beccano") e cambiato l'approssimativo "annebbiati" in "appannati" così coerente visivamente alla sensazione attutita già realizzata in quella del suono roco delle ore, il verso si completa metricamente con l'acquisto di un minor distacco tra l'immagine simbolica e il suo spiegato contenuto prima troppo chiuso nel verso successivo. E nei versi 7-8 compare l'enjambement che dà sviluppo più concreto al passaggio dall'immagine al suo significato simbolico.
Il verso 8 trova il suo finale energico e doloroso, completando il percorso già seguito nelle varianti dell'abbuzzo ("m'aspettan là giù" variato in "chiaman là giù", e quindi, successivamente, in "invitano reduci", "chiaman reduci a me") e rimandando all'ultimo distico l'intera forza dell'indicazione del luogo cui il poeta è chiamato. E lo sguardo e l'appello dei morti vien meglio scandito, il riferimento personale diventa più intenso, per non dir poi, nell'ultimo distico, di come la forza perentoria del finale "riposerò" si opponga definitivamente al moto più blando (anche se forse più logicamente coerente all'idea della compagnia dei morti) del quasi pacificato "riposeremo là giù".
Molti punti però rimanevano ancora incerti e inadeguati e solo a distanza di mesi un nuovo ripensamento riesce ad avviare la soluzione dell'essenziale passaggio del verso 6 (accanto alla vecchia lezione "passano, messagger che la morte spedì" compare la lezione definitiva, ma con incertezze e cancellature, eliminate solo sulle bozze di stampa) mentre al verso 9 ugualmente si abbinano due lezioni di cui nelle bozze appar compiuta la scelta definitiva: "in breve, o cari, in breve - tu calmati indomito cuore" e (veramente assurda e spia di tentazioni contro cui il Carducci anche in questa poesia ispirata dové lottare) "spengiti, o mente altera, tu calmati indomito cuore" come varianti della prima parte del verso.
Fra le bozze e la stampa gli ultimi ritocchi, e fra questi la felice trasformazione del verso 4 che ne uscì tutto più mosso e illuminato da quel centrale "ilare", la modificazione del verso 2 che passa ad una forma più unitaria, ma ancora mancante del "più" essenziale al ritmo e alla precisazione della scena invernale silenziosa in contrasto con il fervore consueto delle giornate (modificazione quest'ultima apportata nella edizione delle Poesie del 1900) e l'estremo reinserimento del "giù" al verso 10 che il poeta aveva tentato nella terza stesura con una trasposizione sbagliata dei due termini del moto a luogo ("giù all'ombra") e che ora trova la sua collocazione e il suo accordo perfetto.
Così la poesia raggiungeva il suo equilibrio in tensione, la sua luce, il suo chiaroscuro, la sua musica interiore, la sua squadrata nettezza tutta vibrante di violenza appassionata, la sua virile fermezza.



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da Poetica, critica e storia letteraria (1963)

Non una nuova estetica, ma un nuovo modo di leggere. Untentativo di sintesi teorica di un personalissimo metodo criticoche, fondato sulla nozione di "poetica" intesa come momento incui i fermenti ideologici e culturali si risolvono in tensioneartistica, emerge da un retroterra ricco di confronti erisultati. "Dovremo tener conto, in tutta la nostra ricostruzione- scrive Binni - del vivo ricambio di poetica e poesia, dellaloro radicale collaborazione, in quanto la poetica non èsolo quella programmatica ed esplicita di dichiarazioni eriflessioni dell'artista, ma è la coscienza attiva dellasua personalità poetica, è sempre in atto nel farsidella sua poesia." Alla sua pubblicazione nel 1963, il saggiosvolge un ruolo importante nel dibattito sui metodi e i compitidella critica letteraria, un dibattito che coinvolge leeredità crociane e gramsciane in un momento di fertileconfronto con altre esperienze europee.

L'inizio della mia carriera di critico ha coinciso con il mioavvicinamento allo studio della poetica, quando studiai nel '34,con un maestro, il Momigliano, meno sensibile a tale tipo diricerca, ma ben aperto ad ogni ricerca viva ed autentica, gliultimi canti del Leopardi, individuando in essi una particolarepoetica, non idillica e facendo così una prima esperienzadella fecondità di quel punto di vista allargato poi, nelcontatto col Russo, nel ricordato libro del '36 sul decadentismoitaliano verso una decisa forma di ricostruzione della storialetteraria. Tale seconda esigenza ed esperienza venneaccordandosi con quella insita nel precedente lavoro e siconfigurò in una prospettiva fondamentale che sidiscostava, per una ricerca di continuità non sololirico-simbolica, dalle posizioni del Russo, mentre di frontealla posizione di Anceschi, che discussi in una recensione delsuo volume Autonomia ed eteronomia dell'arte, la miaprospettiva si individuava per una diversa volontà diintegrale ricostruzione e delle personalità artistiche edella storia letteraria: con ciò reagivo, pur accettandodal Croce la squalifica del determinismo e di nessi puramentecontenutistici o puramente stilistici, al monografismomonadistico di tipo crociano e all'isolamento di nuclei poeticisenza svolgimento interno e senza un complesso ed effettivodialogo con il tempo storico e con la tradizione nelle lorodimensioni artistiche e culturali.
Movimento, dialogo e assunzione di problemi e condizioniartistiche e storiche, che viene tanto più messo inevidenza nella poetica dei singoli e delle epoche artistiche: echè viene fatto valere concretamente nell'operazione diricostruzione storico-critica e in un giudizio sullarealtà poetica che parta appunto dalla comprensione dellecondizioni e degli orientamenti genetici di questa, delleparticolari forme con cui la tensione alla poesia si manifesta indeterminati momenti della storia umana e in determinatesituazioni personali.
Poi sempre meglio la poetica mi si è chiarita (fraripensamento ed esercizio operativo) non come elementointellettualistico introdotto dall'esterno a infrangere la forzadella poesia, non come una stampella per fantasie difettive, macome attiva coscienza che il poeta ha, e conquista, della suaforza poetica (essa stessa in continuo fieri) e del suo impiegocostruttivo nella prefigurazione e nell'attuazione delle operecui tende, come atto di coscienza attiva e operativa dell'agirepoetico, della sua peculiarità e delle sue generaliimplicazioni, come momento concreto di confluenza, nel poeta, frala presa di coscienza dei propri problemi vitali e della propriaesperienza totale, come disposizione a tradurli in direzioneartistica, come Kunstwollen precisato e individuato, comerigore dell'elaborazione inseparabile dalla mèta della suadestinazione.
Potrà a volte trattarsi di un'intenzione irrealizzata, nelsenso delle buone intenzioni di cui è lastricata la viedell'inferno e della cattiva poesia, ma il vero poeta ha sempreuna forte coscienza e volontà poetica, essa stessa tantopiù ricca e articolata e in sviluppo come la sua forzapoetica mai generica, ma concreta e legata a momenti e fasi delsuo sviluppo personale-storico.
E proprio la possibilità di sviluppo di poetica e dipoesia è dei veri e grandi poeti, laddove certe formepiù istintive di temperamento poetico, certe forme dipoesia primitiva (primitiva in ogni tempo a livello di angustia epovertà culturale, di succhi e di esperienza storica)rimangono al loro primo sboccio, non hanno possibilità dimaturazione, rimangono ad uno stadio elementare di poetica e dipoesia.
Né il vero poeta è mai assimilabile all'apprentisorcier che scatena forze non sue e da lui non dominabili eusufruibili per una costruzione sua. Ché il poeta nonè un medium né un fanciullo nél'"uccellino nel bosco", ma un uomo intero e storico, dotato diforza poetica e di coscienza e volontà operativa, munitodi una costruzione intellettuale, culturale, morale la cuiampiezza e profondità è riprova della forza dellasua energia di commutazione poetica.
E la nozione di poetica, mentre ovviamente presuppone unatensione poetica senza di cui la poetica non avrebbe modo dimanifestarsi neppure nelle sue forme più rozze evelleitarie, implica (sulla base di una visione della vita edella storia più coerente a un vivo rapportostoria-persone-opere che non a quello di una storia dello spiritorealizzata direttamente nelle opere) una nozione dell'arte viva evera nei suoi nessi con tutta la storia e con tutta la vitastoricamente e personalmente concretata, non trascendente estellare e "pura" di ogni "contaminazione", senza genesi e senzasviluppo.
Una nozione che rifiuta l'equivoco iperuranio immobile di unapoesia chiusa in se stessa, platonica, astorica rifiuta (siasubito chiaro) l'annegamento della poesia in una storia generalesociale, culturale, politica cui la presenza dell'arte siaun'aggiunta inessenziale o un ornamento puramente illustrativo odecorativo nel senso più corrente della parola. Népezzo di cielo caduto sulla terra, né puro rispecchiamentodella realtà già esistente e semplice "nuovaedizione di valori già correnti in altri campi diesperienza" per dirla con il Dewey.
Né fuori della storia, né dopo la storia, ma viva evalida dentro la storia di cui concretamente fa parte proprio inquanto, connessa radicalmente con veri problemi concreti estoricamente vivi, ha una sua coscienza autentica, una suaautentica spinta, verso una propria peculiare consistenza. Ed hasue tecniche, sue tradizioni, suoi problemi specifici di cui, peraltro, lo studio di poetica meglio mostra la continua osmosi conle dimensioni e le esperienze culturali, etiche, sociali,politiche: e con la meditazione estetica e l'esercizio critico,nei quali sarà sempre possibile - in una rappresentazionedi tendenze e di esigenze peculiari e generali - ritrovare unimplicito aspetto di poetica (ogni critico, ogni pensatoreestetico ha pure una sua implicita poetica) e il nesso conposizioni e problemi generali e particolari di ideologia, dicultura, di socialità, di politica entro il preciso ambitodi esperienza della personalità storica.
È in questa prospettiva che si apre anzitutto unapossibilità importante: quella di uno studiostorico-critico che parta da una profonda conoscenza ecomprensione dei documenti di poetica di un artista o diun'epoca, dal rilievo delle direzioni di poetica vive in unosvolgimento personale o nella tensione espressiva di un'epoca edi una corrente letteraria, e così avvii la ricostruzioneintera, la interpretazione e il giudizio dellepersonalità, delle epoche, delle opere, attraverso lacomprensione delle particolari direzioni in cui queste sono stateimpostate e promosse. Questo momento di comprensione èessenziale e chi lo sfugge o non lo attua convenientemente, nonpuò non ricadere nell'impressionismo, nel giudiziotendenzioso e antistorico, nella misurazione esterna, nelsemplice adeguamento dell'arte a documento senza valoreartistico. Perché il conveniente rilievo della poetica,come ripeto a sazietà, porta a cogliere insieme lastoricità, la connessione interna e storica fra poesia eproblemi letterari e non letterari, la tendenza della lorocommutazione in direzione artistica entro una situazioneparticolare e irripetibile.



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da Michelangelo scrittore (1965)

Binni dedica tre studi ad esponenti significativi della lirica cinquecentesca: nel 1950, due saggi su Gaspara Stampa e su Giovanni Della Casa, poi raccolti nel volume Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento (1951), e una monografia, Michelangelo scrittore (1965) che riprende e sviluppa una più breve relazione tenuta al Congresso michelangiolesco del giugno 1964. Dal petrarchismo bembistico alla poesia tragica di Michelangelo, ancora una volta l'applicazione della nozione di "poetica" come strumento di analisi di specifici percorsi e sintesi complessiva delle direzioni fondamentali di un periodo storico. Questo studio - scrive Binni nell'introduzione al volume - "ben corrisponde a una mia antica fortissima attrazione per Michelangelo (non solo scrittore) e a una generale mia fondamentale preferenza per la forza, l'energia, la tensione, di cui Michelangelo, anche come scrittore, è altissimo esempio, caso quasi sconcertante della nostra storia letteraria rispetto alla tradizione di tipo petrarchesco-catartico ("perché cantando il duol si disacerba"). Sicché questo saggio si inscrive nella linea più congeniale della mia personale 'poetica', tanto che non saprei citare molti versi che mi muovano così nel profondo del mio essere quanto quelli della terzina isolata che qui ripresento quasi ad emblema altissimo della grande personalità eroico-lacerata di Michelangelo, e di ciò che essa dice ad un lettore capace di intenderne, al di là di ogni riferimento religioso, l'appello profondo ad una prospettiva tanto sofferta e consapevole delle 'offese' del 'mondo', quanto, perciò, virile e strenuamente immedesimata con gli alti valori che la giustificano e la impegnano nella dura storia degli uomini: 'Come fiamma più cresce più contesa / dal vento, ogni virtù che 'l cielo esalta / tanto più splende quant'è più offesa.' "La produzione poetica di Michelangelo viene pienamente recuperata alla storia della cultura cinquecentesca, superando i pregiudizi di una lettura tradizionalmente ispirata a criteri classicistici". Il brano che segue è l'Introduzione al volume.

Il primo compito di chi voglia affrontare il problema tutt'altro che facile di Michelangelo scrittore e poeta consiste, a mio avviso, nell'intendere le sue prospettive operanti, in rapporto alla sua posizione storico-personale, superando preliminarmente sia la disposizione agiografica e di un automatico passaggio dalla grandezza dell'artista figurativo a quella dello scrittore e del poeta (con molte riserve circa l'assoluta similarità delle forme espressive dell'artista e del poeta in nome di una centrale e unitaria tendenza plastica), sia la dura preclusione in nome di una mancanza di esperienza e possesso di mezzi espressivi in poesia, di un dilettantismo o di un diarismo senza vera necessità espressiva, sia la semplice presentazione viceversa di uno sperimentatore di stile su di una tematica sostanzialmente fissa, statica e astorica.
Mentre si è cercato di storicizzare l'esperienza poetica michelangiolesca attraverso il più deciso rilievo di alcune componenti spirituali e letterarie (un particolare platonismo fuori della via bembesca, un forte dantismo, una linea bernesca), un altro punto positivo della recente critica mi pare appunto anzitutto costituito dalla più decisa, aperta smontatura del dilettantismo michelangiolesco, dall'osservazione dell'impegno stilistico e tecnico di Michelangelo recuperato in una prospettiva di sviluppo e di maturazione e identificato soprattutto nella zona centrale delle rime.
Solo che questa giusta esigenza di storicizzazione e di comprensione delle particolari esigenze di poetica di Michelangelo poeta (cui andrà energicamente accompagnato il rilievo del piano espressivo dello scrittore delle lettere) deve essere portata avanti, precisata in un più minuto e avvicinante esame dello svolgimento dell'esperienza poetica, più energicamente ricollegata a quei nuclei interni del mondo michelangiolesco, della sua Weltanschauung, della sua sofferenza drammatica della propria situazione storico-personale, del suo rapporto con le tendenze spirituali e letterarie dell'ultimo Quattrocento in cui egli si è formato, per poter davvero cercare di cogliere non l'ineffabile segreto e la miracolosa condizione della sua poesia e del suo stile, ma le necessità concrete e le forme concrete della sua lunga esperienza poetica e la stessa forma della sua presenza nella storia della nostra letteratura.
Tutto ciò non si risolverà in una rappresentazione senza giudizio di valore, ma permetterà di giungere ad esso per una via più concreta e meno pregiudiziale, evitando insieme uno scandaglio sulla qualità della poesia di Michelangelo solo per assaggi di campioni indifferenziati nella storia della sua esperienza poetica.
Prospettiva di un recupero di tutti gli elementi atti a chiarirci la realtà della sua esperienza di scrittore, sì che non si temerà di affrontare il rischio del biografismo e dello psicologismo ben sapendo come proprio una spregiudicata valorizzazione dei nessi vita-poesia e il richiamo di necessità espressiva e di poetica ha pur permesso in tanti casi di rendersi conto della natura di una poesia al di là del puro esame di poesia e non poesia e della semplice verifica stilistica.
Né si temerà di ricadere in forme di critica romantica se si cercherà di intendere le ragioni stesse dell'operazione poetica nel loro rapporto con la posizione storico-personale dello scrittore, sapendo fra l'altro che così si contribuirà pure indirettamente ad un migliore chiarimento della stessa origine interna delle più alte manifestazioni dell'artista figurativo.
Ed anzi si vorrà proprio, non per pura deduzione metodologica, ma per sollecitazione del caso concreto, mettere in primo piano una precisazione di tale posizione (che si servirà poi più precisamente dell'ausilio formidabile delle lettere come documento non esterno, ma vivo nella forza e nella validità dello scrittore) pur sapendo come sia inevitabile ripetere cose anche scontate, ma non perciò meno giuste e utilizzabili in rapporto ad una ricerca di tensione espressiva da cui risalire a volta a volta agli esiti concreti.
Apparirà anzitutto essenziale ribadire che Michelangelo rappresenta nettamente una forma estrema di coscienza drammatica del tempo in cui visse e che la sua esperienza poetica non può intendersi e seguirsi senza inserirla nel ritmo tormentato della sua esperienza vitale e storica, senza rilevarne la qualità di necessaria espressione di una fondamentale intuizione drammatica (fino a forme metafisiche ed emblematiche del suo contrasto interno che a questa nel suo concreto atteggiarsi van continuamente riportate per sentirne il valore tensivo e concreto) in cui le spinte di superamento, di spiritualizzazione e sublimazione attraverso lo stesso energico e inquieto platonismo e concettismo metaforico trovano scatto in quanto rispondono, fra polemica ed aspirazione positiva, ad un più profondo sentimento di scacco e di malinconia, di delusione e frustrazione. Sentimento che è certo in rapporto con un sentimento più generale che va allargandosi entro la civiltà cinquecentesca, dopo l'umanesimo civile e letterario e dopo la cresta non molto ampia del Rinascimento (quando la caducità è compensata dall'idillio e dalla voluttà intensa dell'attimo felice interamente goduto e, poi, da un sentimento di pienezza creativa e realisticamente operante e da una aspirazione a forme di pur diversa "armonia" in tutti i suoi aspetti fino a forme di edonismo che dallo spirito passano ai caratteri del linguaggio), nella sensazione crescente di una instabilità dei valori, di una erroneità delle forze umane, di una casualità e ostilità della fortuna, appoggiate alla coscienza più o meno chiara delle drammatiche vicende storiche italiane (caduta delle libertà cittadine e regionali, guerre e sterminii, scacco della esigenza di riforma spirituale e religiosa).
Michelangelo è al centro e al culmine di questa linea di tensione drammatica confermata dalle sue stesse vicende personali ingigantite dal raccordo a questo motivo interno e generale (le vicende della difficile lotta di affermazione artistica, economica e sociale anche a causa dell'ostilità degli altri artisti, la delusione del cittadino fiorentino nella caduta della Firenze repubblicana, la delusione del savonaroliano e dell'uomo della fallita riforma cattolica di fronte al concreto agire del potere ecclesiastico e dell'affermazione della Controriforma) da cui egli risale pur drammaticamente attraverso l'attività creativa e la spinta platonica e religiosa senza mai effettivamente trovare una vera pacificazione, un vero placamento: ché la stessa spinta platonica e religiosa si colora drammaticamente della lotta con la sua sensualità e con il sentimento del peccato, sì che la stessa prospettiva verso il divino e l'eterno non giunge mai alla sicurezza del possesso e del porto raggiunto.
Grande personalità tragica (e le lettere ne sono rivelazione più immediata e fulminea), Michelangelo poeta trae la sua forza da questo dramma storico-personale che si apre ad un dramma esistenziale e che incoraggia la sua tendenza ad una espressione tormentata, sofferta, la più lontana possibile (nei suoi centri più intensi) dalle vie facili e dall'edonismo e dall'idillio, e inasprita da un forte attrito con la realtà fino al deformato e al grottesco.
Donde anche l'irrequietezza della esperienza poetica, la sua insistenza spesso più sui centri e gli avvii che non sulla compiutezza, l'incapacità spesso (e spesso la non volontà) di giungere ad una fusione intera e superiore delle sue tensioni. Donde (nella consonanza con aspetti preminenti della sua formazione letteraria, fra l'altro senza "latini", senza Virgilio, Orazio, Cicerone) il rifiuto dell'armonia e, più, della melodia, e la ricerca di forme in tensione e in contrasto dinamico. Poesia senza esplicito "canto" e senza appoggio di paesaggio, la cui volontà di essenzialità conduce anche al rischio di un'eccessiva fiducia nella forza del concetto da cui a volte Michelangelo cade nel virtuosismo, difficilmente però privo di implicazioni poetiche.
Donde anche il carattere risentito e deformante, fino al grottesco più drammatico, della sua linea di esperienza più realistica, che è forma di per sé espressiva (e mal assimilabile al semplice bernismo) e riserva di inasprita realtà per le linee più centrali della sua poesia. Donde lo stesso predominio delle antitesi la cui forza vera va però cercata nelle ragioni interne che, di volta in volta, nelle varie fasi la giustificano.
È soprattutto da questa posizione drammatica che deriva il carattere della sua poesia e spesso la sua stessa difficoltà di organizzazione più intera e "perfetta", anche se, come vedremo, non manca una fase di organizzazione più sicura e a suo modo equilibrata, ma con il rischio forte del prevalere del concettismo e del virtuosismo.
È soprattutto dall'estremo risentimento di questa posizione che deriva il carattere di singolarità (rafforzato dalle sue coerenti scelte letterarie iniziali) della sua esperienza poetica che può isolarsi letterariamente, in una via più sua, dalle linee rinascimentali (anche se il quadro del Cinquecento è più vasto del petrarchismo e dell'antipetrarchismo) toccando anticipi e aperture di manierismo e di prebarocco, ma richiamando, al centro, a una posizione profondamente storica e svolgendosi in una propria storia densa e complessa la cui ricostruzione spiega meglio anche i margini più deboli, le inadempienze e i risultati della sua poesia meglio che in uno scandaglio globale e in un semplice esame antologico che perderebbe di vista l'eccezionale corrente poetica che circola entro tutta la sua opera di scrittore e, attraverso questa, arricchisce la sua stessa attività figurativa. E si potrà pur sempre avvertire al livello dei più conclusivi fatti estetici della sua arte figurativa e al livello della grande poesia cui egli comunque ci avvicina e ci stimola, un limite di totale resa artistica delle sue poesie, quasi un limite di mancanza per eccesso e per drammatica urgenza e confluenza e intrico di tensioni, ma non si potrà facilmente ritornare al puro dissenso classicistico di base, al rifiuto di una qualità e necessità poetica e di una serietà e di un impegno artistico, mentre sarà ben difficile negare il segno del grande scrittore alle sue lettere, alla sua prosa così lontana dai più comuni moduli rinascimentali, ma così vigorosa e potente ed estremamente significativa per tutta la sua personalità.



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"Montale nella mia esperienza della poesia" (1966)

È una breve ma densa testimonianza del legame profondo di Binni con la ricerca poetica di Eugenio Montale; un legame iniziato negli anni '30. Il testo, pubblicato sul n. 2-3, maggio-dicembre 1966, della rivista "Letteratura", sarà poi raccolto nel volume Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, La Nuova Italia, Firenze 1969 (3a edizione).

Questa mia breve testimonianza vuol essere il più possibile strettamente personale prefigurandosi come "una" di quelle simili e diverse dichiarazioni di uomini della mia età che potrebbero, proprio se strettamente personali, costituire una storia diretta (ricreata dal ricordo e dal recupero spregiudicato del passato lontano e recente) dei debiti verso Montale di tutta una generazione di scrittori e di critici. Potrà risultare anche parziale e insufficiente o sproporzionata, presupponendo, più che evidenziando, la rete complessa di esperienze e vicende entro cui l'esperienza montaliana ha inciso profondamente sulla mia vita di critico (nella tensione a quell'indissolubile nesso delle due parole che proprio Montale recentemente sanciva dicendo di uno storico letterario russo: "fu vero critico perché vero uomo"), ma non sarà meno vera nella sua sostanza: che è quella appunto di una decisiva importanza della esperienza montaliana per me, dal passaggio fra adolescenza e gioventù, fino alla maturità e alla senectus, dagli anni fra '30 e '35 ad oggi.
Fu soprattutto nella difficile situazione della mia prima gioventù - presa fra i postumi dannunziani, certa euforia idealistica-attivistica, gli inganni psendo-sociali e pseudo-nazionali della dittatura, le sollocitazioni insufficienti e fuorvianti della poesia "pura" e della "prosa d'arte" - che la lettura di Ossi di seppia prese spicco decisivo, accese, dall'interno di una vera e moderna esperienza poetica, il senso di tante altre esperienze letterarie e non letterarie che variamente e confusamente convergevano (come dipanare e dar peso a tutte le componenti di quella crisi salutare?) in una spinta di liberazione e di maturazione etica, fondamentale per tutta la mia vita.
Da quella lettura risultava per me l'adesione essenziale ad una concreta poesia: sin da allora la più alta dell'epoca e la più ricca di futuro, la più corrispondente ad una coscienza critica e tragica di quel tempo, coerentemente espressa attraverso una poetica ardua ed aggressiva, in un linguaggio rivoluzionario nella sua scabra porosità e nella sua aggrumata densità, nel suo attrito acre e antidillico, nel suo ritmo anticonvenzionale, nella sua nuova misura che sconvolgeva ogni pregiudizio di canto, di purezza, di perfezione classicistica ed ogni opposizione astratta di contenutismo e formalismo (i termini di tante contese di quegli anni), e così si riverberava violentemente anche sui modi di comprensione della tradizione e del passato.
E ne risultava insieme una sollecitazione trascinante verso un "no" alla vita frivola e vana, alle false positività, agli ottimismi di ogni genere, alla letteratura calligrafica e di evasione, alla stessa femminea e vanitosa "virilità" dei miti della dittatura e dei suoi uomini ed esaltatori letterari. Che poi Montale vivesse interamente le ragioni della sua poesia nel suo stesso vivere quotidiano, fosse volontariamente assente dai lauti festini e dagli "allori" cortigiani e accademici del tempo della dittatura, interpretasse l'antiretorica fin nella sua pratica socievole di cordialità scontrosa e riservata, nella sua amara ironia difensiva e aggressiva (come io lo conobbi nelle mie visite fiorentine al Vieusseux e alle Giubbe Rosse), non era certo fatto trascurabile per chi tanto intensamente cercava l'integralità dell'uomo e del poeta e la trovava poi, nella conversazione e nella attività critica di Montale, genialmente nutrita di una cultura e di una chiarezza ed acutezza di giudizio ben discordante dall'immagine di poeti solo istintivi e tutti chiusi nella loro dubbia purezza e voracemente riduttori della poesia passata o presente a semplice annuncio della propria trionfale epifania. Mentre, proprio sul piano della cultura letteraria e non solo letteraria, le scoperte decisive del critico nella nostra stessa letteratura novecentesca (si pensi almeno a Svevo) e la sua profonda apertura ad un Occidente più vasto della semplice linea impressionismo-simbolismo francese, contribuivano fortemente alla nostra ulteriore sprovincializzazione e rifluivano nella sua poesia e nella sua prosa saggistica, esemplare per densità e lucidità di scrittore europeo.
Per tutto ciò e in forza soprattutto della sua intera risoluzione poetica, Montale divenne per me, - come per tanti altri, allora giovani - il lievito più attivo, il reagente più intenso di tante mie crescenti esigenze, di tante mie scelte più autentiche e decisive, che pur si giovavano delle lezioni di tanti maestri della critica (da De Sanctis, a Croce, a Momigliano, a Russo) e di tante esperienze del passato e del presente letterario ed etico-politico.
Non a caso (per stare più direttamente alla mia vocazione e attività critica) fra la lettura di Ossi di seppia e quella di Occasioni si situano, non solo cronologicamente, le mie esperienze di critico: la Poetica del decadentismo e soprattutto la mia prima interpretazione del Leopardi che, sin dalla sua impostazione in un saggio del '35, si avvalse certo della adiuvante esperienza montaliana (più tardi esplicitamente ricordata nel volume del '47) a rompere l'immagine leopardiana del Croce, del rondismo e della "poesia pura", attraverso la valutazione positiva dell'ultimo Leopardi e soprattutto della Ginestra, con la implicazione di una linea di possibile tradizione leopardiana assai diversa da quella fatta culminare nel canto e nel mito rasserenatore del dolore, di tipo ungarettiano.
Né (evidentemente isolando il riferimento da una rete complessa di esperienze e sollecitazioni accresciute con gli anni e nel ricambio fra una poetica personale e il più assillante senso della storia) potrei celare ad un lettore attento l'eco della sollecitazione della poesia montaliana, nel suo intero arco di sviluppo, entro tante reazioni critiche a testi ed autori diversi. Mentre potevo sottolineare nel presente un montalismo del Saba di Ultime cose, e in un articolo del 1947 su "Italia socialista", disperse le speranze ardenti del '45 e declinando la forza migliore del neorealismo, potevo appoggiare su precise citazioni montaliane un sentimento della musa dell'angoscia e del dramma come resistente alla programmatica ricerca degli eroi e dei momenti "positivi", in un tempo oscuro fra zdanovismo, clericalismo, crescente incubo atomico, che esigeva (ed esige) forti, supreme lezioni di consapevolezza tragica e di dignità virile, senza baldanza e senza viltà, in ogni dimensione della vita, della cultura, della letteratura.
Volutamente perciò - e non per una semplice difesa, non richiesta, del valore poetico e storico dell'ultimo volume montaliano - riporto in questa testimonianza una pagina della mia Poetica, critica e storia letteraria, del 1960 (anche se poi pubblicata in volume da Laterza nel 1963) a cui annetto particolare importanza, sia in rapporto a quanto dicevo del significato della poesia montaliana per me anche negli anni di tante delusioni e della confusa lotta fra "impegno" fazioso e "disimpegno" evasivo, astorico e formalistico, sia in rapporto alla viva presenza di Montale negli esempi ed appoggi vivi del mio discorso metodologico.
"Si potrà infine concludere questa esemplificazione di casi - dicevo in polemica con posizioni critiche o astoriche o viceversa duramente colleganti arco di sviluppo politico-ideologico con arco di sviluppo poetico - con quello del nostro maggiore poeta contemporaneo, Eugenio Montale, e del suo ultimo, per ora, sviluppo in poesie come L'anguilla, Il Gallo cedrone, Piccolo testamento, Il sogno di un prigioniero. Questo ultimo sviluppo è stato configurato a volte nel segno di una invouzione politica e poetica: ma come accettare questa prospettiva quando si misura la forza autentica, direi l'alto e singolare leopardismo di queste poesie e quando si risale ad esse dal tormento di una sofferenza personale-storica? Che noi possiamo, come militanti politici (e sino ad un certo punto quando si guardi a un socialismo interamente rivoluzionario che rafforza la dignità dell'uomo e significa una liberazione non solo sociale, ma, insieme e perciò, interiore dell'uomo, una trasformazione delle strutture non solo economico-sociali), considerare una diminuzione dell'attualità storica di Montale rispetto al significato della sua solitudine e della sua antiretorica di fronte al fascismo, ma che, più profondamente come storici-critici dobbiamo pur sentire nella sua genuina necessità entro le condizioni dello svolgimento della poetica montaliana, del suo pessimismo vitale, dell'affiorare di un più esplicito sentimento di fraternità e di dignità virile (e la stessa maggiore chiarezza non è un abbandono del suo linguaggio, più nuovo, ma corrispettivo di approfondimento della sua visione e della destinazione di essa privata e pubblica). Mentre, anche come uomini politici, vivi con proprie diverse mète ed ideali concreti nel mondo attuale, non possiamo disconoscere l'arricchimento che queste poesie portano alla coscienza del mondo attuale, nella stessa direzione di un "progressismo" rivoluzionario, ma più profondo di ogni semplice strutturazione sociale-economica di tipo chiuso e autoritario".
Ora aggiungerei che le cose dette in quella pagina possono apparire del tutto sfocate quanto ad obbiettivo polemico, nel clima attuale, in cui si sconfessano tutti gli "impegni" e le posizioni storico-ideologiche senza distinguere i livelli e i significati diversi di simili parole e si scivola avventurosamente in nuovi formalismi, in esaltazioni sconsiderate delle "parole prima delle idee", delle tecniche senza le loro ragioni profonde, e in una critica senza doveri di comunicazione e di civiltà: tutte cose assai diverse dal giusto senso della forza autentica della poesia e della sua natura di profonda libertà e promozione di libertà.
Ebbene, per me (e - spero - per altri), la poesia di Montale è ancora prova concreta e profonda del nesso inseparabile fra coscienza, tragica e critica, della storia e della vita, e problemi di linguaggio e di tecnica (in un rapporto irreversibile). Come è prova profonda del fatto che la coscienza tragica e critica non implica né il disgustoso compiacimento della crisi inarrestabile, né il rifiuto di una dignità virile e civile, ne l'abbandono della disperata forza fraterna degli uomini e della loro coraggiosa antimitica e rivoluzionaria ragione.



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da "Goldoni", in Il Settecento letterario (1968)

Il capitolo dedicato a Goldoni, da cui sono tratte le pagineche seguono, fa parte del grande disegno del secolo delineato daBinni per la Storia della letteratura italiana diretta daEmilio Cecchi e Natalino Sapegno, Milano, Garzanti 1968. Ilcapitolo sarà successivamente raccolto nel volumeSettecento maggiore. Analisi della poetica e della poesia diGoldoni, Parini e Alfieri, ivi 1978.

Qual'è la posizione storica del Goldoni? Quale larealtà e la natura del suo intervento, mediante la poesiacomica, nella storia ideologico-sociale del suo tempo?
Formatosi - con una cultura prevalentemente teatrale, anche senon unicamente tale - all'epoca di maggiore sviluppo dellaciviltà arcadico-razionalistica, specie nelle condizionidell'Italia settentrionale (fra Venezia e i centri veneti edemiliani dominati dalla presenza del Maffei e del Muratori) e poisuccessivamente venuto a contatto (fra l'importante esperienzatoscana e i nuovi soggiorni veneziani) con le più generalitendenze dello sviluppo da preilluminismo a vero e proprioilluminismo, il Goldoni visse le condizioni, le aspirazioni, leidealità di tale complesso sviluppo in una misurapersonale sincera, ma culturalmente e ideologicamente pocoapprofondita, senza giungere (ché semmai nel periodofrancese, fuori ormai della linea più attiva della suaopera poetica, egli poté meglio adeguarsi a unamentalità di pieno illuminismo) ad una posizioneilluministica decisa e pienamente consapevole, quale fu quella diun Parini, uomo di una generazione successiva e giàsviluppatasi, prima del Giorno, in una cultura eciviltà nettamente riformatrice e sempre piùilluministica sin nelle direttive del governo riformatoreaustriaco e nella vicinanza di collaborazione e discussione con igiovani illuminati della "Società dei pugni" e del"Caffè".
Al Goldoni mancò lo stimolo di una situazione concreta diquel tipo ed egli operò piuttosto nelle condizionipolitico-culturali tanto meno favorevoli della societàveneta in genere e di Venezia in particolare, non prive certo diaperture alle nuove idee, ma infrenate dalla posizione di difesaconservatrice del regime oligarchico e mancanti di veri saldigruppi di pensatori e letterati attivi nella filosofia dei lumi enella riforma illuministica. Sicché, mentre si deveparlare giustamente per lui di consonanze illuministiche, oaddirittura di illuminismo popolare e medio, e di quel "candidoliberalismo" che fu definito così acutamente in lui da uncelebre saggio di Nino Valeri (e tutta la nostra precedenteindagine sulla misura umana del Goldoni si riferisce chiaramentea tale posizione storico-personale), non si può, senzagravi forzature, costruire un'immagine del Goldoni comeilluminista persuaso e deciso, come rappresentante di una precisariforma sociale (e tanto meno politica), di un chiaro precursoredi idealità democratiche, egualitarie e miranti adinstaurare un vero ordine nuovo.
Certo gli uomini del periodo rivoluzionario poterono avvertirenella sua opera (così piena di spunti egualitari,così ricca di un senso schietto della dignitàumana, così aperta a cogliere e seguire aperture dilibertà di rapporti e a sottolineare con viva simpatia ifrutti della laboriosità borghese e popolare, ilsignificato letificante dell'onesto esercizio di una vita attivae razional-naturale) la voce poetica di "temps voisins de laliberté". Ma andare al di là di questo non èlecito, ché altrimenti si rischia una patentefalsificazione della reale figura goldoniana.
E così ugualmente non si può scambiare con unpreciso programma di riforma sociale e di "poetica sociale", lasua acutissima sensibilità per le condizioni degli uomini,per il legame fra "carattere" individuale e i suoi connotati diclasse, per i mutamenti di generazioni e di condizioni socialipur nel ristretto ambito della difficile e viscosa situazioneveneziana.
Così più che puntare sulla mediocre commedia Ilfeudatario in cui lo scatto di ribellione di qualchecontadino (oltretutto tanto più di maniera di quanto nonsiano i vivacissimi personaggi popolari scaturiti dalla suaprofonda esperienza veneziana) si risolve in un facile lieto finedi pacificazione dovuto al rinsavirsi di un giovane aristocraticoscapestrato e prepotente (solo dall'esterno - quantodall'esterno! - si può pensare alla situazione delMariage de Figaro del Beaumarchais), si dovràrilevare la più generale e crescente simpatia goldonianaper una ideale situazione di equilibrio, di saggezza umana, diconsapevolezza dei limiti della propria condizione sociale cheben si iscrive in una lata tendenza storica e in unamentalità latamente illuministica dominata da valori dirispetto della dignità umana, di riconoscimento dellasostanziale comune natura degli uomini pur nella varietàdella loro condizione sociale, di simpatia per quanti in quellasappian vivere relazioni di reciproca benevolenza e sappianoopporsi alle tentazioni della sopraffazione, della prepotenza,dell'avido egoismo.
Solo in tale direzione non eversiva e non arditamente eprogrammaticamente riformatrice è dato di valorizzare,con pieno rapporto di stimolo alla forza poetica che nescaturisce, il forte, schietto amore del Goldoni per gli uomini,per la loro vita di civile ed umano rapporto, per le loro gioie,per il loro impegno laborioso, per la loro onestà, per iloro diritti alla vita e alla dignità personale.
Solo in tale direzione è dato anche sottolinearefortemente la novità goldoniana di caratterizzazionepersonale-sociale, il risultato di nuovo schietto realismo (nonnaturalismo mimetico e fotografico) scaturito nella mossa,simpatetica rappresentazione teatrale di situazioni concrete, nongeneriche e standardizzate, nella profonda simpatia per la vitaautentica e nella critica di tutto ciò che ad essa sioppone e che si configura (nell'acuta sensibilitàgoldoniana alle condizioni sociali) nel rilievo comico(più che isolatamente satirico) della chiusura e grettezzadella vara boria dei nobili decaduti e squattrinati (i barnabottidella nobiltà veneziana) con le loro sciocche pretese diprivilegi senza nessun corrispettivo di forza e di funzioneeffettiva, della prepotenza egoistica e dissoluta diaristocratici oziosi e viziosi, ma anche della stoltezza diborghesi arricchiti e pretenziosi, aspiranti ai privilegipiù esterni e colpevoli della classe nobiliare e persinodi popolani che reagiscono ai limiti della loro condizione noncon la dignità e la laboriosità, ma con lafurfanteria e l'abbandono a basse passioni.
In tale prospettiva, e nei limiti di una posizione storica senzadiretto sfocio (e vera volontà di sfocio) nelladistruzione dell'ordine sociale esistente, si può e sideve calcolare la forza di acutezza psicologico-sociale e disimpatia del Goldoni per i nobili di "buon gusto", capaci di farvalere la loro situazione privilegiata in favore di una maggioresaggezza e di una più libera attività civile ebenefica, per i borghesi e i mercanti onesti, gelosi della loroonesta reputazione, laboriosi e generosi, per i popolani schiettie autentici anche nelle loro passeggere risse e baruffe: igondolieri gelosi della dignità del loro mestiere e dellaloro qualità di cittadini della repubblica, le fanciulle,le mogli, le "massere" oneste e attente alla loro virtù, ipescatori chiozzotti di cui il poeta nella prefazione alleBaruffe disse di voler rappresentare "i loro costumi e iloro difetti e, mi sia permesso di dirlo, le loro virtù".
Il fatto che le commedie popolari si accrescano nell'ultimoperiodo veneziano vorrà confermare, più che ilculmine di un preciso programma legato ad un'altrettanto precisadiagnosi della situazione veneziana (che avrebbe portato ilGoldoni a perder fiducia nel ceto dei mercanti e dei borghesi e asentire il popolo come vera risorsa e riserva di energie dellasua città in declino), una crescente apertura della suasimpatia umana e poetica (già viva del resto per igondolieri e le "putte oneste" in commedie giovanili), a stratiche la convenzione teatrale e una concezione reazionaria ritenevabassi e indegni di rappresentazione teatrale (con l'incentivodella polemica con il conservatore Gozzi) e che egli sentivainvece parte viva, essenziale di un vasto tessuto sociale, parteviva, essenziale della vita, anche se il "coregidore"autobiografico non mancherà di rilevare con affettuosacuriosità i limiti della loro stessa incantevoleistintività. E allora, più che alla luce di unpreciso programma eversivo e combattivo, si potrà bencapire - alla luce della crescente forza e apertura di simpatiaumana e poetica del Goldoni - il valore implicito di una taleacquisizione del mondo popolare alla dignità del teatro edella rappresentazione poetica, si potrà capirel'estensione e l'importanza del "candido liberalismo" del Goldonie del suo illuminismo medio e poco ideologicamente approfondito,ma concretamente vivo e capace di farsi sostegno di vera poesia.



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da La protesta di Leopardi (1973)

Sviluppo dell'introduzione all'edizione 1969 di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, il volume - con i suoi ampliamenti nelle edizioni successive - ben rappresenta il dinamico laboratorio binniano, proponendo un'originale e appassionata interpretazione "in atto" della poetica e della poesia di Leopardi, il poeta centrale nel percorso critico di Walter Binni che nella premessa all'edizione 1988 scriverà: "La ripubblicazione attuale della Protesta di Leopardi intende essere non tanto una semplice riaffermazione della mia interpretazione leopardiana in tempi così cambiati da quelli in cui essa si propose e venne strutturandosi nella sua maggiore consistenza, quanto un ulteriore modo di collaborazione alla discussione critica sempre in atto sul nostro massimo poeta-pensatore degli ultimi secoli. L'attualità del grandissimo creatore della Ginestra, capolavoro intero e supremo verso cui si svolge, entro una complessità eccezionale di linee, il filo più profondo della personalità e dell'esperienza esistenziale, filosofica e artistica di Leopardi, è testimoniata da un sintomatico preannuncio dello Zibaldone, là dove, nel 1827, il poeta, proponendo 'congetture sopra una futura civilizzazione' anche degli animali, 'e massime di qualche specie' (...) 'da operarsi dagli uomini a lungo andare', scriveva: 'Insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove massime in quanto all'estensione, e finché vi siano creature civilizzabili e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo'.
La lettera non venne mai stesa, ma ad essa certo il Leopardi seguitò a pensare come a un messaggio rivolto a un 'giovane' del lontano futuro, da cui sperava di poter essere compreso, diversamente da quanto era in grado di fare il suo tempo. Quel messaggio, per lui doveroso, proprio nella consapevolezza della fragilissima condizione umana e sempre più sentito come suprema sfida consegnata alla forza della sua poesia, ci è stato lasciato in quella sorta di testamento filosofico, morale e insieme inseparabilmente poetico che è la Ginestra. Nulla di consolatorio e di catartico in questo canto che invece trasmette ai suoi lettori una profonda consapevolezza della reale e supremamente tragica condizione dell'uomo nell'universo, e insieme la doverosità di una resistenza 'eroica' (nel senso più veramente leopardiano), scaturita dal crollo di ogni illusione, di ogni mito spiritualisticoe umanistico-prometeico, compe via ardua, senza alcuna garanzia di successo, di una prassi personale e interpersonale, nella direzione di una vera 'società' umana. E certo molti dei migliori 'giovani' di questo ultimo scorcio del 'ventesimo secolo' potranno ben sentire l'urgenza dell'appello leopardiano proprio in questo tempo, tra la minaccia nucleare, i crescenti disastri ecologici, e il prevalente rifugio nel 'privato', di fronte alla diminuiita tensione alla costruzione del 'bene comune' e di una società libera, egualitaria e solo così veramente giusta e fraterna."
Il brano che segue è il primo capitolo del volume, "La personalità storico-poetica del Leopardi"
.

La grande poesia del Leopardi ha provocato un enorme lavoro di interpretazioni e di ricerche critiche volte a cercare definizioni centrali, formule esaurienti, chiarimenti particolari di una così eccezionale personalità e della sua altissima espressione artistica.
E tuttavia solo in tempi relativamente recenti si è profilata una svolta decisiva (anche se ovviamente tutt'altro che priva di stimoli e spunti essenziali nel precedente corso del problema critico leopardiano) che attualmente appare non facilmente reversibile e tale da sorreggere tutto un ulteriore lavoro critico assai diversamente indirizzato rispetto al filone e all'impostazione centrale della critica anteriore a quella svolta e al nuovo corso della interpretazione leopardiana. Pure nei limiti di una inevitabile schematizzazione ed estremizzazione, l'impostazione centrale che ha dominato a lungo - sulla base della grande interpretazione desanctisiana, ma con irrigidimenti di questa nella critica di tipo idealistico-crociano e in quella della "poesia pura" - può consolidarsi nella prospettiva della natura "idillica" della poesia leopardiana, frutto di una centrale disposizione della personalità del poeta alla contemplazione, all'introspezione tutta solitaria e distaccata dall'attrito della storia, alla morale di "uno spettatore alla finestra", di un uomo incapace di partecipare alla vita, e vivo solo nella liberazione catartica della poesia, ripugnante, nella sua direzione più vera, ad ogni ibridazione con le forze del pensiero e dell'intervento storico, pena la sua caduta nell'oratoria e nella discorsività raziocinante e sterilmente impoetica. Sicché, al margine estremo di tale impostazione si potè giungere a parlare del Leopardi come "ultimo divino pastorello d'Arcadia" o di personaggio umanamente non molto diverso dal Metastasio, ritrovando magari nel suo pessimismo qualche consonanza reazionaria con le posizioni sanfedistiche del padre Monaldo e sostenendo l'idea che la vera morale leopardiana era quella di un escluso dalla vita e perciò incline alla morale stoica dell'astensione e del disimpegno.
Ora la nuova svolta e il nuovo corso critico si sono caratterizzati proprio per una diversa valutazione della personalità leopardiana (e quindi della sua poesia), ricca di potenzialità complesse e difficilmente livellabili, ma fondata su di una radice di forza energica, di volontà di intervento a livello di problemi storici, culturali, letterari, esistenziali, di morale eroica variamente affermata e variamente operante, nel lungo arco dell'esperienza leopardiana (e soprattutto matura e sicura nell'ultimo periodo di questa), ma sostanzialmente vibrante, almeno come aspirazione, anche quando essa sembra cedere al peso degli scacchi e delle delusioni. Come può risultare da quell'importantissimo preambolo alla traduzione del Manuale di Epitteto del '25 che predicando l'utilità dell'astensione in "spiriti deboli per natura o debilitati dall'uso dei mali", precisa autenticamente come a quella pratica provvisoria il Leopardi si fosse ridotto "quasi mal suo grado" e insieme esalta appassionatamente la morale eroica come propria degli spiriti grandi e forti "che non potendo procacciarsi" "la beatitudine né schivare una continua infelicità", si ostinano "nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente e contrastano" "almeno dentro se medesimi alla necessità" e fanno "guerra feroce e mortale al destino come i Sette a Tebe di Eschilo e come gli altri magnanimi degli antichi tempi".
Sicché quella pratica di utile "noncuranza delle cose di fuori" ("quantunque niente abbia di generoso") appare chiaramente come una via secondaria e accessoria e non promuove (come appunto non avviene in quella fase più veramente depressa) quel complesso moto del fascio intero di forze morali, intellettuali, sentimentali, da cui ha origine, con varie gradazioni e varie direzioni di poetica, la poesia leopardiana. E soprattutto questo va decisamente affermato di contro alla tesi della natura idillica e puramente idillica della poesia leopardiana. La poesia leopardiana più intensa ed alta (nella stessa fase più qualificabile come "idillica" nel senso leopardiano di quella parola: "idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo") non nasce da una separazione "depurante" della forza fantastica da quella dell'intelletto e della prospettiva morale ma proprio invece dalla collaborazione e dal ricambio ed attrito dell'intero fascio di forze della personalità leopardiana, della sua fortissima coscienza morale, della sua tensione intellettuale e pragmatica, tanto diversamente profilate nella loro direzione fondamentale e nel loro rapporto con la storia e con la ricerca di una verità non astratta, ma destinata alla prassi del comportamento umano, da rendere tutt'altro che assurda - almeno nei suoi termini più generali - la delineazione del Luporini di un Leopardi "progressivo" nello sviluppo del suo pensiero e nella tenace lotta con le ideologie della Restaurazione. Né quella collaborazione naturalmente va intesa come un "dopo" della poesia che mitizza un materiale separatamente elaborato e formato dal pensiero, ma ripeto, da un ricambio e da una convergenza in cui la poesia si alimenta del pensiero e, insieme ad esso collabora, con la sua forza di intuizione tanto diversa da una semplice catarsi e da un rasserenamento idillico dei suoi contenuti sentimentali e conoscitivi.
Nella svolta critica di questi ultimi decenni si son venute ponendo le basi di una comprensione più storico-critica del Leopardi nella sua possente personalità, nella ricchezza delle sue forze (perfino la filologia leopardiana è stata riconosciuta non come peso erudito, come semplice materia e pretesto di nostalgie idilliche raffinate delle "favole antiche", ma come autentica vocazione e forza del suo ingegno e solo su tale base, sostegno di acutissima forza critica e stilistica) e nella loro integrazione e ricambio, nella sua prospettiva di poeta portatore - con la voce autentica e la novità originalissima della poesia - di una persuasione eroica, di una intransigenza morale, di un coraggio della verità, di un pessimismo energico, inseparabili da un'assidua battaglia nella storia del suo tempo e da una esperienza (sofferta fino al "martirio") della condizione umana, avvalorata dalla testimonianza concreta delle sue stesse malattie fisiche, delle sue pratiche sconfitte, mai interamente accettate in forma inerte e passiva, e progressivamente commutate in una sempre più densa protesta storica ed esistenziale di altissimo valore nella storia dell'epoca romantica e della sua crisi. La sua stessa poesia, culmine ed espressione profonda della sua esperienza totale appare così tutt'altro che una consolazione e un idillio "senza passione" e e anche quando, nelle fasi meno scopertamente combattive ed eroiche, essa raggiunge i suoi toni più pacati ed equilibrati, mai manca - al fondo - di una tensione profonda, di un raccordo con la sua pressione intellettuale e la sua drammatica esperienza e problematica. Sicché par di dover accettare (anche se estratti da una zona precisa della sua poetica prima delle Operette morali), per la comprensione della sua poesia, gli esiti della sua convinzione estetica secondo cui l'effetto della vera poesia è quello di cagionare "nell'animo de' lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni" e la poesia "ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l'animo nostro in riposo e in calma".
La "radice" dunque della personalità e della poesia leopardiana non è idillica, ma tensiva, energica ed "eroica" (nel vario senso che tale parola prende negli atteggiamenti intellettuali, morali e poetici del Leopardi: coraggio della verità, opposizione e protesta personale e storica, lotta contro la scomparsa degli ideali e contro la mediocrità e stoltezza, contro gli inganni della ragione sterile o, poi della natura matrigna), anche se, ripeto, questa è la radice degli atteggiamenti leopardiani e non la sua monotona e indiscriminata forma di poetica, così come sarebbe grave prospettare un Leopardi sempre e ugualmente inarcato e apertamente "eroico" decurtando tutta l'immensa ricchezza di componenti del suo pensiero, della sua poesia, della sua esperienza.
E del resto la posizione estetica del '23, a ben vedere, è riassorbita - non annullata - nei pensieri sulla "lirica" corrispondenti alla genesi e allo sviluppo dei canti pisano-recanatesi del '28-'30 e che, nella loro fertilità di anticipazioni sulla via delle meditazioni estetiche moderne (la "doppia vista" del poeta, la natura antimimetica della poesia, la sua genesi in una esperienza assolutamente autentica, sofferta, è presente nella composizione), non conducono però senz'altro verso certe nozioni novecentesche della "poesia pura" e del "puro frammento" poetico, se essi possono ammettere come "lirica lunga" lo stesso poema dantesco, con tutta la sua complessa costruzione intellettuale e profetica, perché "vi è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti", e se essi puntano sempre sugli effetti vitali della "vera" poesia "contemporanea" (ché "essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire, e ci accresce la vitalità") e così pur sempre diversificano la concezione leopardiana della poesia (còlta soprattutto nei suoi rapporti mai dimenticati col lettore e quindi in una dimensione mai tutta privata e senza destinazione di comunicazione) da quelle di una pura catarsi o gioia personale fine a se stessa, separata dalla vita e dalla stessa "società civile" in cui la poesia costituisce una forza essenziale ed autentica, senza con ciò divenire un dubbio unicum di compenso mistico alla inferiorità e vanità di ogni altra espressione della vita e della storia. La poesia è una tensione che si nutre di altre tensioni e che a queste contribuisce in un circolo denso e inscindibile.
Così, se a misurare la discriminante diversità della interpretazione idillica da quella più recente sopraindicata, basterà riferirsi alla diversissima valutazione della mèta terminale e suprema del lungo itinerario leopardiano, la Ginestra, per me capolavoro sconvolgente e unitario e prima considerata invece, per lo più, come predicazione oratoria illuminata da rari squarci idillici (o idillico-cosmici), occorrerà ben capire come a quello stesso capolavoro il Leopardi sia giunto non casualmente e miracolosamente, ma attraverso esperienze complesse, attraverso un lungo svolgimento di posizioni e di espressioni portate strenuamente sino in fondo e così dinamicamente collegato entro un'esperienza storico-personale e uno sgorgo di poesia di suprema organicità e ricchezza.
Ciò che caratterizza la personalità leopardiana è un impegno appassionato, "eroico" per il suo strenuo bisogno e coraggio di intransigenza intellettuale e morale, che porterà il Leopardi ad impostare ed esaurire fino in fondo - con l'ausilio di una mente vigorosa e implacabile - successive posizioni ed esperienze che riprendono la grande eredità del pensiero settecentesco rinnovandola energicamente alla luce della problematica primo-ottocentesca sia che il Leopardi attacchi lo "snaturamento", l'alienazione dell'uomo dalla natura, sia che poi viceversa aggredisca, con più matura persuasione, gli inganni ed i miti ottimistici e provvidenzialistici che mistificano la reale condizione dell'uomo e il vero volto della natura e dell'ipotetico suo creatore. Al centro vi è una inesausta passione per l'uomo (anche quando appaiono elementi misantropici, di un amore deluso, "par trop aimer les hommes" per dirla con Stendhal in Lucien Leuwen), per la sua integralità, sia che essa venga ritrovata nella sua adesione alla natura e alle illusioni generose da quella generate; sia che essa venga poi confermata nella sua virile capacità di riconoscere la sua sorte misera e tragica, senza accettarla m maniera passiva e rassegnata. Al centro vi è una protesta e una contestazione attiva contro tutto ciò che depaupera e avvilisce le forze vere dell'uomo, sì che questo presunto "sombre amant de la mort" (Musset) o "religioso amante del nulla" (Vossler) ricava sempre dalla sua sofferta e coraggiosa indagine sulla natura e sull'uomo un supremo interesse per l'oggetto centrale della sua passione intellettuale, morale poetica: l'uomo, spietatamente analizzato e magari assalito nelle sue stolte ideologie e nelle sue tentazioni di cedimenti e di rinuncia, come di boria e di orgoglio prometeico o platonico, ma sostanzialmente e disperatamente amato nella sua schiettezza e nella sua virile energia, nella sua desolazione consapevole e nel suo stesso destino di caducità che tanto fa risaltare il fascino, nel suo effimero passare, delle sue qualità autentiche di nobiltà e di gentilezza, nella sua capacità di essere uomo fra gli altri uomini.
Sicché la stessa vicenda concreta del Leopardi, fra vita e poesia, si prospetta non come la semplice "storia di un'anima", ma come un'esperienza drammatica dentro la storia e dentro la problematica dell'uomo di cui lo scrittore sonda ed esplicita le diverse possibilità fino a toccare i margini del nichilismo e dell'individualismo più disperato, ma sempre riprendendo una linea attiva, che culminerà nella prospettiva di solidarietà combattiva della Ginestra, mai pacificata con i vari "oppressori" dell'uomo, siano essi la ragione sterile e mortificante, egoistica e calcolatrice, siano essi la natura malvagia e una divinità neroniana, combattuta sino all'estremo della bestemmia più ardita e ribelle.
Leopardi può toccare e rivelare, sull'onda della sua delusione storica d esistenziale, i più profondi motivi del nulla, della noia-angoscia, della vita come morte, ma mai manca di dare a questi stessi motivi, pur così potentemente individuati ed espressi, un valore di stimolo all'energia virile dell'uomo, alla nobiltà del suo coraggio di verità e di resistenza ribelle. E i suoi veri avversari non sono gli uomini, ma le loro immagini degradate dalla viltà, dalle menzogne interessate o sciocche, dalle ideologie spiritualistiche, religiose, reazionarie, e, dietro quelle, l'ordine naturale della realtà sbagliata e corruttrice.
Supremo contestatore dei sistemi storici della Restaurazione reazionaria o del moderatismo liberale-spiritualistico, Leopardi è insieme supremo contestatore del sistema stesso della realtà e del suo ordine ferreo e scellerato, di cui lo stesso appassionato sostegno al sistema benefico della natura (così diverso comunque da quello di un sistema religioso basato su di una doppia realtà terrena e ultraterrena) serve a rivelarne - proprio sostenendolo inizialmente e indagando poi sino in fondo - la più vera realtà di ordine crudele e oppressivo per l'uomo.
Impossibile ricavare da questo percorso di esperienza una vera nota di religiosità magari "negativa" (si nega ciò che profondamente si ama, si cerca), ché Leopardi può sì bestemmiare la virtù e l'uomo per troppo amore, ma la sua protesta atea o antiteistica è senza possibilità di risalite da una specie di amore frustrato ad un'altra "fede", e la via stretta delle sue definitive conclusioni è solo quella dell'uomo e della sua prassi di etica di solidarietà in un mondo deserto da ogni ombra divina e trascendente, liberato anzi appassionatamente da ogni ricaduta in quello che è l'oggetto polemico più profondo del Leopardi: il misticismo, la religione, la speranza in un compenso ultraterreno.
Voltaire poteva ancora riequilibrare la disperata diagnosi dei mali dell'uomo, nel Désastre de Lisconne, con la speranza in un mondo migliore e provvidenziale se non per i singoli sulla terra, per il loro insieme in un mondo ulteriore. Leopardi nega ogni provvidenza per i singoli come per tutti, e proprio nel messaggio finale e conseguente della Ginestra ritrova una via di difficile e singolare "progresso" per l'uomo, proprio in quanto tutti gli uomini si raccolgono insieme nella lotta contro la natura e contro ogni provvidenza divina. Anzi per gli uomini è possibile questa via stretta della loro difficile civiltà solo se essi hanno scartato per sempre ogni ricorso a quelle speranze e a quei poteri e hanno riconosciuto nella loro crudele potenza il primo loro nemico e il primo fondamento polemico della loro unità nella lotta e nella protesta.
Perciò nella formazione dell'uomo moderno Leopardi ha un posto a suo modo decisivo e una forza dirompente ed eversiva che non possiamo riconoscere ad altre personalità della crisi romantica, e la sua prospettiva interamente laica ed umana appare come la più formidabile voce ammonitrice di fronte ad ogni riaffiorare di soluzioni trascendenti e fideistiche. E il suo stesso profondo sentimento democratico di sentimento della sorte comune e del comune dovere di solidarietà e di lotta per la civiltà umana) appare tanto più profondo quanto meno riconosce qualsiasi "sen regale" non solo in terra, ma anche in cielo, qualsiasi radice trascendente di autorità: l'uomo è solo con i suoi simili e solo con loro può e deve tentare la costruzione ardua della propria civiltà. Così la prassi tutta umana sostituisce ogni ricorso metafisico e l'uomo sulla terra, cupamente fisonante dell'eco ossessiva della caducità, si stringe con i suoi "incolpevoli" fratelli, "confederati" contro la natura e stretti dal vincolo severo e preclusivo della consapevolezza coraggiosa della loro vera sorte limitata e tragica e del loro dovere di solidarietà unicamente umana e sociale.
E se nella storia successiva appare incontestabile l'apporto possente della dialettica hegeliana e i suoi sviluppi soprattutto nel materialismo stofico e dialettico, la non conoscenza, da parte del Leopardi di tale nuova prospettiva non può portarci né a svalutare né ad esaltare indiscriminatamente, alla luce dei nostri problemi attuali, la sua diversa posizione, ma certo a riconoscerla estremamente importante, come essa storicamente si configurò, acuendo così la sua forza di diagnosi della tragica condizione umana, valida comunque come momento essenziale nella rottura delle concezioni ottimistiche, provvidenzialistiche, religiose, nella percezione profonda di una realtà sbagliata e di un ordine ingiusto che nessuna infatuazione dialettica può interamente sopire e sanare, come avvertimento contro troppo facili entusiasmi di nuovi paradisi in terra e come base di una lotta strenua doverosa, pratica, sociale, sempre consapevole di limiti umani materiali e biologici e non perciò respinta a nuovi richiami di compensi trascendenti ed evasivi.
Perciò anche sarà da dire che la filosofia sensistica materialistica di origine illuministica su cui si fondò nel suo sviluppo il Leopardi non può essere storicamente qualificabile come un "carcere" da cui Leopardi si libererebbe con la sua "poesia", ché essa per lui e per quella fu viceversa storicamente forza essenziale nella sua resistenza ai compromessi delle ideologie della Restaurazione e alle tentazioni di un romanticismo spiritualistico e neocattolico, medievalizzante e mistico, nel cui stesso attrito Leopardi potè, d'altra parte, dare altro vigore al suo stesso slancio al sogno, alla fantasia, al sentimento, di quanto sarebbe avvenuto (lo insegna anzitutto, come vedremo, L'infinito) se egli si fosse abbandonato alla rêverie romanzesca e al patetico languido ed evasivo di tanta letteratura romantica.
Ché nella stessa componente "idillica" (così essa stessa singolare e lontana nel suo centro da un idillismo descrittivistico e misticheggiante) vive un profondo rilancio di un severo edonismo sensistico coerente ad una storia di esperienza concreta di se stesso e dell'uomo, mentre essa non appare mai priva interamente di raccordi con gradazioni di sentimenti e motivi di poesia-conoscenza e di poesia come modo di recupero (il caso dei cosiddetti "grandi idilli" del '28-'30) del passato e di persone scomparse o di verifica di persuasioni intellettuali nel denso della vitalità più schietta ed autentica e dunque sempre in un'impossibile accezione di semplice sogno e mito evasivo di rinnovata Arcadia o di privatistica degustazione descrittivistica di uno "spettatore" senza passione e senza interna pressione di fondamentali problemi esistenziali e storici.
Sicché la stessa ammissione di momenti di poetica idillica (e a volte di margini più slittanti nella direzione di un compiacimento idillico fine a se stesso) richiederà, a suo luogo, attenta pracisazione e qualifica assai diversa da quella della tradizione critica di tipo crociano o derobertisiano e persino da quella tanto più complessa e originariamente fertile della tesi idillica desanctisiana, spesso viceversa insidiata pur fortemente dalla paura dell'allegorismo e dall'attrazione per una troppo realistica felicità di "quadretti alla fiamminga".
Infine per quanto riguarda la posizione classicistica del Leopardi dovrà ancora notarsi come essa costituisca un'ulteriore forza della personalità e della poesia leopardiana a difesa dalle attrazioni romantiche più sentimentalistiche e spiritualistiche (con tutto ciò che il classicismo comportava sulla forza di elaborazione stilistica e di riferimento ai valori classici eroici, razional-naturali), ma che sarebbe erroneo chiudere il Leopardi in una schematica e chiusa definizione del classicismo (ribaltata a generale equazione classicismo-progressismo di fronte a romanticismo-reazione) senza tener conto dell'enorme acquisizione nella formazione leopardiana delle inquietudini preromantiche e dello stesso attrito non solo polemico con il romanticismo, se la stessa finale prospettiva della Ginestra supera di gran lunga ogni pura equivalenza di classicismo e vive di un'accensione e tensione male immaginabili senza un contatto profondo con l'esaltazione romantica delle forti passioni e della poesia-messaggio, così come l'illuminismo vi si colora di una ben romantica tensione spirituale e sentimentale-naturale mal riconducibile alle possibilità della poesia della "saggezza" illuministica.



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Il messaggio della Ginestra ai giovani del ventesimo secolo (1988)

Articolo pubblicato nel numero di maggio-giugno 1988 della rivista "Cinema Nuovo" diretta da Guido Aristarco. Una forte attualizzazione etico-politica dell'estremo messaggio leopardiano. Il testo sarà poi raccolto nel volume Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia (1993) .

La Ginestra, scritta nel 1836 quasi alle soglie della morte, desiderata e presentita è, nell'economia interna della vicenda vitale e intellettuale-poetica del Leopardi, il suo supremo messaggio etico-filosofico espresso interamente in una suprema forma poetica, mentre nella storia letteraria - su piano non solo italiano - è insieme, non solo il più vigoroso ed alto dei "messaggi" dei grandi poeti dell'epoca romantica (Friedensfeier di Hölderlin, il Prometheus unbound di Shelley, la Bouteille à la mer di Vigny), ma addirittura, a mio avviso, la poesia più grande degli ultimi due secoli, la più significativa per la problematica nascente del mondo moderno, la più aperta su di un lungo futuro che tuttora ci coinvolge e ci supera.
Questa altissima valutazione della Ginestra (al culmine di una interpretazione dell'ultimo periodo della poesia leopardiana, da me impostata ventenne sin dal 1934-'35 con una tesina universitaria alla Normale di Pisa e con un articolo ricavatone, strutturata più saldamente nel mio libro del 1947 La nuova poetica leopardiana, poi sviluppata in una ricostruzione dinamica di tutto Leopardi nell'introduzione alla mia edizione di Tutte le opere di Leopardi del 1969 e nel mio volume La protesta di Leopardi del '73 e su su fino ad oggi) venne a rompere decisamente una lunga tradizione di grave fraintendimento e di mistificazione in chiave "idillica" di tutto Leopardi (pensatore e poeta troppo scomodo ed inquietante nella sua vera realtà per una società bisognosa di "melodie" rassicuranti), e quindi di svalutazione della Ginestra perché giudicata non "idillica", ritenuta un ragionamento in versi o un frammentario assortimento di brani oratorii, discorsivi e di qualche raro squarcio poetico definito appunto di ritorno di "idillio" o di "idillio cosmico". Mentre la Ginestra trovò accoglienza sin entusiastica da parte cattolica (il caso di Ungaretti) ma perché erroneamente, quando non tendenziosamente, letta come un puro e semplice messaggio di "amore cristiano". Proprio in risposta a quest'ultimo grave fraintendimento, per comprendere la vera natura e grandezza della Ginestra occorre anzitutto intendere la direzione delle posizioni ideologiche e morali leopardiane (veicolate dalla sua grande e nuova forza creativa) che sono qui condotte alla loro conclusione estrema, al culmine di una battaglia polemica, in forme originalmente poetiche, contro tutte le ideologie reazionarie o liberalmoderate eticopolitiche e filosofiche dell'età della Restaurazione, fra la Palinodia, I nuovi credenti e l'autentico capolavoro aspramente satirico e polemico dei Paralipomeni della Batracomiomachia, capolavoro e non opera minore come fu valutata fino a quello che in tempi recenti Liana Cellerino ha chiamato "il colpo di scena della folgorante rivalutazione di Binni nel '47".
La direzione per me (e per altri miei compagni di lavoro) indiscutibile del pensiero leopardiano specie nella sua fase matura ed ultima, è quella di un materialismo razionalistico, complesso ed articolato: dopo la giovanile lunga fase del "sistema" della natura benefica e delle generose, vitali illusioni contrapposte alla raison sterile e sterilizzatrice di ogni spontaneità e grandezza, la ragione è divenuta sempre più per Leopardi una ragione concreta che demistifica la realtà, la libera dalle "superbe fole" cristiane e spiritualistiche rivelando la vera natura dell'universo e della stessa specie umana. Tutta materia che, nel caso dell'uomo, è "materia che sente e pensa", quella materia pensante che comporta la vacuità dello "spirito" che per Leopardi non è più che flatus vocis. Donde un antiteismo ribelle e alla fine un deciso ateismo, in opposizione ad ogni pretesa teocentrica, geocentrica, antropocentrica, ad ogni visione provvidenzialistica sia religiosa che "prometeica".
La ragione sempre più è persuasa delle sue fondamentali verità e insieme sempre più è capace di autocriticarsi e di porsi nuovi problemi (si pensi alla dolorosa, sublime problematica delle due canzoni sepolcrali con il susseguirsi di interrogazioni, di affermazioni e ancora interrogazioni sul tema bruciante della morte senza al di là e della separazione per sempre fra le persone strette da un profondo vincolo di amore, supremo scelus della natura matrigna) di moltiplicarli con le stesse proprie forze e con quelle inerenti della immaginazione e del sentimento (forze tutte di origine materiale, diremmo adesso, di origine biochimica).
Così quella che Leopardi chiamava "la sua filosofia disperata ma vera" combatte a tutto campo la credenza in una vita ultraterrena come quella di una natura dell'uomo creato per la felicità e per la sua perfettibilità. Filosofia, quella leopardiana, fondata sul coraggio della verità (il "nulla al ver detraendo" della Ginestra è il vero blasone araldico di Leopardi) e affermante la fondamentale infelicità, caducità, limitatezza della sorte dell'uomo e della terra ("l'oscuro granel di sabbia - il qual di terra ha nome") di cui proprio nella Ginestra gli uomini del suo "secol superbo e sciocco" sono, in maniera impellente, invitati a prendere chiara coscienza. E tale consapevolezza è necessaria e preliminare a quella via ardua e stretta che il Leopardi (vero intellettuale ed eroe del "vero", opposto all'orgoglioso intellettuale spiritualista ed ottimista, rappresentante della sua epoca e, si badi bene, "astuto o folle" e dunque spesso anche collaboratore consapevole delle forze e classi dominanti propone come unica possibilità di attiva unione fra gli uomini, come unica alternativa alla falsa società fondata sulla forza del potere arbitrario e sul sostegno a questo delle credenze spiritualistiche e religiose.
E tale unica alternativa è la risposta "eroica" di non rassegnazione, di non autocompianto, ma viceversa di resistenza, di difesa contro la natura nemica, che coinvolge necessariamente tutti gli uomini: eroismo è amor proprio rivolto agli altri, al "bene comune", ai "pubblici fati", e così si spiega il nesso fra il protagonista della Ginestra, Leopardi, e il simbolo della "odorata ginestra" ("i danni altrui commiserando"). E in tal senso non si tratta davvero di un simbolo di "femminilità", di passività e di rassegnazione come alcuni studiosi vorrebbero, e il "vero amore" leopardiano è amore con rigore, e non esclude, anzi richiede severità energica nella lotta per la verità contro gli stolti o interessati intellettuali che fanno regredire il pensiero e celano la verità materialistica ed atea, pessimistica-eroica al popolo cui essa è interamente dovuta. Vero amore fra tutti gli uomini della terra, verità pessimistica, coraggiosamente impugnata contro ogni ritorno e riflusso di spiritualismo e di sciocco ottimismo e che si realizzano in lotta contro la natura ostile e contro quella parte di natura che è radice della malvagità degli stessi uomini ("dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili contro i generosi" afferma Leopardi nel 1° dei Pensieri). Questa lotta, fondata sulla diffusione della verità che può e deve educare il popolo, vale per una prassi sociale interamente alternativa rispetto a quella tradizionale basata sull'"egoismo" (che particolarmente si esaltava già allora nella emergente società borghese) mentre sarà invece democratica, giusta e fraterna la nuova polis comunitaria sorta dall'alleanza di tutti gli uomini contro il "nemico comune".
E questa lotta è tanto più doverosa quanto più ardua e difficile, senza nessuna garanzia divina o umana di successo, esposta continuamente alla distruzione anche totale della vita sulla terra, per opera della natura o dello stesso stolto pensare ed agire degli uomini. La massa ingente di pensieri e di proposte etico-civili che gremisce questo testo fondamentale per la civiltà umana (proprio noi ne sentiamo la profonda attualità nel nostro tempo per tante ragioni minaccioso ed oscuro, sotto l'incombere del pericolo nucleare e dei disastri ecologici, fra tanto riflusso di evasione nel privato e del risorgere in nuove forme sofisticate di uno sfrenato irrazionalismo e misticismo e nuovi travestimenti ideologici di sfruttamento dell'uomo sull'uomo) non è un nobile altissimo appello privo di adeguata e coerente forza poetica. Anzi ciò che gli conferisce l'intero suo spessore ideale è proprio la coerente, integrale collaborazione e sin fusione costante fra pensiero e poesia, la sua formidabile, necessaria espressione poetica, originalissima ed eversiva, pessimistica ed "eroica" come la tematica e problematica del suo nerbo etico-filosofico, promossa com'è dalla spinta di una esperienza poetica precedente così complessa, e soprattutto dalla nuova "poetica" energica, eroica dell'ultimo periodo leopardiano dopo il '30 e così strutturata in una estrema novità di forme lirico-sinfoniche, di cui qui è impossibile render conto adeguato, ma di cui almeno indicheremo la inaudita pressione del ritmo incalzante come in questa perentoria affermazione della sua personale distinzione da quegli intellettuali in mala fede che adulano il "secol superbo e sciocco" ("non io - con tal vergogna - scenderò sotterra; - ma il disprezzo piuttosto che si serra - di te nel petto mio - mostrato avrò quanto si possa aperto"), della costruzione a strofe lunghissime, tentacolari, avvolgenti, con l'uso spregiudicato e nuovissimo di rime, rime interne, assonanze, ossessive ripetizioni di parole, spesso ignote al linguaggio aulico e tradizionale della lirica ("fetido orgoglio", "vigliaccamente rivolgesti il dosso" significativamente riprese dal linguaggio aspramente creativo dell'Alfieri delle Satire), sprezzante di ogni décor classicistico. E soprattutto la adozione non casuale - ma promossa dai temi e problemi del pensiero e del comportamento morale - di un linguaggio"materialistico", estremamente fisicizzato, sì che anche i paesaggi desertici e lividi appaiono come un'arida, nuda, scabra, scagliosa crosta terrestre violentemente lacerata dalla stessa forza aggressiva che promuove la direzione aggressiva del pensiero. Mentre le rare immagini di esseri viventi, animali selvatici e repellenti (ad eccezione dell'unica figura umana del "villanello" laborioso che segnala la forza autentica dell'attrazione di Leopardi per le "persone" delle classi subalterne "la cui vita - come scrive in una grande lettera da Roma del 1823 - si fonda sul vero e non sul falso", cioè che vivono "di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno" come la maggior parte della parassitaria popolazione romana del tempo) sono investite da una violenta deformazione e colte nello spasimo vitalmente degradato del loro movimento sotto la luce ossessiva e funerea del deserto vesuviano o delle rovine scheletrite e allucinanti di Pompei: "dove s'annida e si contorce al sole - la serpe e dove al noto - cavernoso covil torna il coniglio", "e nell'orror della secreta notte - per li vacui teatri, - per li templi deformi e per le rotte - case, ove i parti il pipistrello asconde".
Contro ogni vecchia e nuova operazione distinzionistica esercitata sulla Ginestra, si oppone l'enorme forza vitale, l'eccezionale ampiezza di respiro ideale, morale e poetico, la forza del ritmo incessante (che è della poesia e del pensiero inseparabilmente) che non permette se non a "tecnici" senza senso di pensiero e di poesia, di operare distinzioni entro quell'unitaria e dinamica specie di colata lavica che di per sé comanda uno spregiudicato e adeguato modo di lettura critica certo agevolato, per uomini del nostro secolo, da alti esempi di poesia e arte disarmonica ed aspra (si pensi al Montale di Ossi di seppia, alla musica del Wozzek di Alban Berg, alla Guernica di Picasso , all'Alexander Nevskji, Ottobre di Ejzenstejn, per stare ad esempi fin troppo ovvii). Basti portare almeno un esempio di tale forza trascinante unitaria: la citazione della strofe quinta, in cui la sequenza formidabile della colata della lava del Vesuvio e dei suoi effetti distruttivi è appoggiata al paragone con il formicaio distrutto dalla caduta di "un picciol pomo" (si ripensa alla finale meditazione di Julien Sorel in attesa della ghigliottina, con il paragone della casualità della sorte umana e quella del formicaio investito e distrutto dallo scarpone ferrato del cacciatore in corsa dietro la sua preda nel quasi contemporaneo Le rouge et le noir di Stendhal) ed è tanto altamente e intensamente poetica quanto valida a certificare la verità della miseria e debolezza degli uomini assimilati alle formiche nell'eguale esposizione alle casuali catastrofi naturali.

  Come d'arbor cadendo un picciol pomo, 
  Cui là nel tardo autunno
  Maturità senz'altra forza atterra, 
  D'un popol di formiche i dolci alberghi, 
  Cavati in molle gleba
  Con gran lavoro, e l'opre
  E le ricchezze che adunate a prova
  Con lungo affaticar l'assidua gente
  Avea provvidamente al tempo estivo, 
  Schiaccia, diserta e copre
  In un punto; così d'alto piombando, 
  Dall'utero tonante
  Scagliata al ciel profondo, 
  Di ceneri e di pomici e di sassi
  Notte e ruina, infusa
  Di bollenti ruscelli, 
  O pel montano fianco
  Furiosa tra l'erba
  Di liquefatti massi
  E di metalli e d'infocata arena
  Scendendo immensa piena, 
  Le cittadi che il mar là su l'estremo
  Lido aspergea, confuse
  E infranse e ricoperse
  In pochi istanti: onde su quelle or pasce
  La capra, e città nove
  Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
  Son le sepolte, e le prostrate mura
  L'arduo monte al suo piè quasi calpesta. 
  Non ha natura al seme
  Dell'uom più stima o cura
  Che alla formica: e se più rara in quello
  che nell'altra è la strage, 
  Non avvien ciò d'altronde
  Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. 


Di questo supremo messaggio del Leopardi si poteva già trovare, fra le altre, una notevole traccia di parziale anticipazione in un pensiero dello Zibaldone del 13 aprile 1827, i cui stessi contenuti sono ben significativi per la tensione di Leopardi verso una nuova civilizzazione e una nuova umanità comunitaria: tensione che è come un filo rosso che si intreccia a tanti altri fili della folta matassa leopardiana fino al suo predominio nell'ultima fase del suo pensiero e della sua poesia: "Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all'estensione, e finché vi siano creature civilizzabili e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del ventesimo secolo" . La Ginestra può leggersi anche come la realizzazione suprema di questa Lettera a un giovane del ventesimo secolo, mai stesa, ma vivamente pensata: messaggio, quello della Ginestra, che è, sulla asserita, amarissima realtà della sorte degli uomini tutta e solo su questa terra, tanto più l'invito urgente ad una lotta per una attiva e concorde prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, "eguale" giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà.
Ed ogni lettore che abbia storicamente e correttamente compresa la direzione delle posizioni leopardiane (anche se personalmente non le condivida interamente) non può comunque uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) "un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni" (e non con l'animo "in calma e in riposo") che è appunto per Leopardi il vero effetto della grande poesia.



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Dall'ultima lezione leopardiana, sulla Ginestra (1993)

In occasione dell'ottantesimo compleanno di Binni, numerosi allievi e colleghi dell'Università di Roma, ma anche delle altre Università dove Binni ha insegnato - Genova, Pisa, Firenze - chiedono al "maestro" un'ultima lezione, in un'aula piena di giovani studentesse e studenti. Una lezione "a braccio", nella migliore tradizione di una lunga e appassionata attività di critico-insegnante. Il testo sarà poi raccolto nel volume Lezioni leopardiane (1994) .

Ultima fase appunto in cui Leopardi viene a svolgere (sono gli ultimi anni napoletani) una specie di forte polemica, una sorta di battaglia in versi, ma sempre veramente di grande realizzazione poetica, checché se ne dica o se ne sia detto. Cioè tra la Palinodia, I nuovi credenti e soprattutto i Paralipomeni della Batracomiomachia, che sono una delle opere più grandi che Leopardi ha scritto e una delle opere più fermentanti, veramente ribollenti di pensiero anche persino prepolitico e fin politico, in cui si affermano principi di tipo rivoluzionario come lo "stato franco", cioè le repubbliche popolari democratiche, che sviluppano modernamente i caratteri precipui delle repubbliche popolari antiche. Tutti i principi del pensiero della Restaurazione vengono aggrediti violentemente. Ed è soprattutto una battaglia che colpisce al fondo la "natura" diventata ormai chiaramente, come si veniva in lui delineando da tempo, ostile, nemica dell'uomo, ma insieme soprattutto gli ideologi che sostenevano le posizioni antropocentriche, geocentriche, ottimistiche, del progresso puramente tecnologico, che è aggredito violentemente nella Palinodia: appunto l'ambiente fiorentino dell'Antologia con il suo ottimismo e falso progressismo illusorio, aggredito in forza di un pessimismo acre che giunge proprio quasi a un punto di non ritorno nella Palinodia con un'aggressione violenta anche al potere divino o della natura e a quello dell'uomo sull'uomo. Tutto questo porta a capire come e in quale ambito nasca La ginestra, questo capolavoro che, ormai non solo per me, è senz'altro il capolavoro conclusivo del lungo cammino leopardiano e in particolare di questa fase di poesia che veicola posizioni di estrema aggressività. E a proposito di questo capolavoro bisogna mettere bene in chiaro due cose: primo, che naturalmente questo altissimo riconoscimento non comporta di per sé l'adesione di chi legge questa grande poesia alle posizioni che essa veicola, come per Dante, che noi ammiriamo e sentiamo come il più grande poeta italiano (per me insieme a Leopardi): ne sentiamo l'enorme spessore, la forza interiore e il vigore del pensiero, quella forza che ci ricarica potentemente pur non condividendo naturalmente le posizioni ideologiche che ne alimentano la poetica. E d'altra parte bisogna capire che per "leggere" La ginestra è necessario porsi in una posizione corretta di comprensione degli elementi personali, ideologici, delle posizioni di pensiero che la poetica leopardiana dell'ultimo periodo viene vigorosamente potenziando, commutandoli in direzione artistica con adeguate, geniali, nuove ardite forme, di cui il grande Leopardi nella Ginestra è fornitore.
Per capire poi questa poesia basti una delineazione breve, ma pur necessaria, della posizione a cui Leopardi è arrivato proprio al termine del suo percorso e al termine anche della sua vita. Vi è arrivato attraverso un lungo e tormentoso itinerario in cui alcune posizioni sembrano addirittura a un certo punto (se non se ne considerino tutte le mediazioni, cosa che qui non possiamo fare) capovolte: la "natura" era stata per lungo tempo il centro del sistema appunto "della natura e delle illusioni", la natura che aveva fornito le generose illusioni, che dava la vita schietta, i sentimenti autentici e la poesia stessa e che era nemica della ragione calcolatrice, sterilizzante così che uccideva le passioni in poesia. Ma poi tale concetto nello svolgimento e logoramento attraverso le Operette morali e nel forte pensiero dello Zibaldone, è prospettato in una posizione antitetica assoluta: l'inimicizia della natura con il suo carattere meccanico, indifferente, ostile, in base a una posizione, a un pensiero che è quello che il Leopardi chiama qui con precise parole: "il calle insino allora / Dal risorto pensier segnato innanti', (vv. 54-55), cioè il pensiero che va soprattutto dalla filosofia rinascimentale-sperimentale fino al materialismo settecentesco a cui Leopardi, badate bene, porta arricchimenti e potenziamenti che non possono essere sottovalutati. Non si tratta di un'immediata ripresa di ciò che può venire dai testi dei materialisti come D'Holbach, Helvétius o Lamettrie, ma è qualcosa di più, a cui io ho sempre pensato che contribuiscano anche elementi preromantici, romantici e "controromantici", non più solamente illuministici. E questo pensiero materialistico ha come sua arma la "ragione", che ha cambiato segno, che è diventata la forza impugnando la quale si scopre la verità, si demistificano tutte le "superbe fole", (come sono chiamate nella Ginestra), cioè ogni credenza di tipo o religioso o idealistico-ottimistico. Così si arriva a quella verità che veramente è diventata ormai la mèta più profonda del "progresso" per Leopardi, la verità che permette di conoscere ciò che per l'uomo, secondo Leopardi, è fondamentale conoscere ("Nulla al ver detraendo", che è un verso della Ginestra): conoscere cioè qual è la reale situazione, la reale condizione dell'uomo e dell'universo e dell'uomo nell'universo: una condizione certamente di miseria, una condizione di caducità, una condizione di destinati alla morte e alla distruzione. Non sono solo le catastrofi naturali (come appunto quella che qui viene rappresentata), ma anche le ragioni biologiche della natura umana, la consunzione che le malattie e il degrado naturale dell'età operano su di noi e per cui ogni posizione di tipo provvidenzialistico e ottimistico viene scartata. E certamente questo è per Leopardi l'uomo che vive una condizione assolutamente infelice, "nato a perir, nutrito in pene" (v. 100), destinato alla morte e vivente in mezzo alle pene.
A questo punto però scatta, a mio avviso, del resto secondo tutta la mia interpretazione (sempre ho battuto su questo punto essenziale per le sue conseguenze in sede poetica), scatta, dicevo, l'abbrivo di una parte che potremmo dire "propositiva", anche se questi termini vanno usati con estrema cautela perché certi limiti restano invalicabili, invincibili: il dolore, la morte, la caducità sono invincibili, la natura è sempre distruttrice e lo sarà sempre, continuerà sempre a esserlo. Ma certo, ripeto ancora, qui scatta un motivo che si può ritrovare anche attraverso certi filoni precedenti specie estraibili dallo Zibaldone (che adesso qui sarebbe troppo lungo individuare), ma certo soprattutto il motivo di quello che Leopardi individua come il "vero amore", cioè quella forza solidaristica, che così è certamente forza civile e che nasce proprio dal vincolo fra gli uomini nella loro lotta contro la natura.
La difesa contro la natura diventa un vincolo fra gli uomini e da questo vincolo sorge in loro quest'esigenza e questo bisogno che egli chiama il "vero amore".
Sicché su queste basi leggeremo subito un brano della Ginestra, molto indicativo già per certi suoi aspetti poetici: su queste basi dico, su queste verità che sono da una parte tutte negative, tutte pessimistiche, ma certo per Leopardi profondamente "vere" e a lor modo promotrici di "vita", non di rinuncia e di resa. Perché su questa acquisita coscienza che la condizione umana è assolutamente misera e d'altra parte su questa forte molla del "vero amore" si potrà creare un'alternativa di civiltà. E di civiltà si parla nella Ginestra in termini espliciti quando si dice anche in un altro passo che "solo" per questo pensiero illuministico-materialistico, per questo pensiero che per Leopardi è il cammino del vero progresso (anche se è un progresso che porta alla costatazione di una condizione di miseria) "per cui solo / Si cresce in civiltà, che sola in meglio / Guida i pubblici fati" (vv. 75-77). Badate bene sono parole da meditare, sono parole che già di per sé rivelano la forza poetica di Leopardi, con questa ripetizione del "solo" "sola", questo ribattere, questo asseverare che, dirò così, asseconda lo snodo del pensiero e gli dà il suo vero spessore; spessore che non avrebbe senza la forza di queste forme da lui adoperate così energicamente. Ma, ripeto, Leopardi pensa a una possibilità di maggiore "civiltà" entro i limiti ferrei della condizione umana. Sicché vogliamo leggere (anche come esempio di un tipo di poesia che suscitava proprio dentro La ginestra le più forti obbiezioni da parte della critica distinzionistica, fondata cioè sulla distinzione fra poesia e non poesia), il passo della terza strofa con il contrasto con l'intellettuale del primo Ottocento, seguace del pensiero della Restaurazione, che viene aggredito con sarcasmo e forza di disprezzo supremo, forza che è quella del pensiero, ma che si traduce in forza aggressiva della poesia e dei mezzi propri della poesia. E a un certo punto emerge, in netto contrasto, il profilo dell'uomo "leopardiano", l'uomo "persuaso" che ha acquisito queste amare verità, che è portatore di queste verità; in un certo modo l'intellettuale come Leopardi lo avrebbe voluto e quale egli stesso si sentiva in prima persona, perché contribuisse così a una vera civiltà:

  Nobil natura è quella
  Che a sollevar s'ardisce
  Gli occhi mortali incontra
  Al comun fato, e che con franca lingua, 
  Nulla al ver detraendo, 
  Confessa il mal che ci fu dato in sorte, 
  E il basso stato e frale; 
  Quella che grande e forte
  Mostra se nel soffrir, né gli odii e l'ire
  Fraterne, ancor più gravi
  D'ogni altro danno, accresce
  Alle miserie sue, l'uomo incolpando
  Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
  Che veramente è rea, che de' mortali
  Madre è di parto e di voler matrigna. 
  Costei chiama inimica; e incontro a questa
  Congiunta esser pensando, 
  Siccome è il vero, ed ordinata in pria
  L'umana compagnia, 
  Tutti fra se confederati estima
  Gli uomini, e tutti abbraccia
  Con vero amor, porgendo
  Valida e pronta ed aspettando aita
  Negli alterni perigli e nelle angosce
  Della guerra comune. Ed alle offese
  Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
  Al vicino ed inciampo, 
  Stolto crede così qual fora in campo
  Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
  Incalzar degli assalti, 
  Gl'inimici obbliando, acerbe gare
  Imprender con gli amici, 
  E sparger fuga e fulminar col brando
  Infra i propri guerrieri. (vv. 111-144) 


Sentite la forza dello snodo del pensiero così denso e tenete conto che non è solo "Nobil natura" l'uomo che osa guardare lucidamente il "comun fato", il fato e la natura, ma anche l'uomo, la persona che "grande e forte / Mostra se nel soffrir". C'è una suprema forza di dignità in questo ultimo Leopardi e La ginestra è una grande lezione di dignità nel soffrire, nel sopportare "il mal che ci fu dato in sorte". E l'uomo leopardiano "con franca lingua" rivela la realtà delle cose senza toglier nulla a questa "acerba" verità, e non ne accresce stoltamente la miseria con le lotte fra gli uomini: "né gli odii e l'ire / Fraterne [...] accresce / Alle miserie sue'', come egli afferma in un crescendo impetuoso e appassionato. E voi sentite certo la forza di un ritmo incalzante, come in un certo senso incalzante è lo snodo del pensiero, e questo impeto raggiunge persino toni entusiastici che non sono certamente convenzionali e il cui significato parafrasato potrebbe apparire anche prosastico e convenzionale, mentre tutta la sua forza viene data radicalmente proprio dallo spessore linguistico inerente, dalle forme che assume la poesia in questo brano e che, ripeto, trova d'altra parte equivalenti nella forza, in questo caso addirittura entusiastica, anche nella violenza, di aggressione alle stolte credenze e alle illusioni ingenue, o, peggio, interessate delle religioni (e dei detentori del potere).



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