Tracce e documenti

In questo spazio del sito sono pubblicati materiali che fanno parte dell'archivio del Fondo Walter Binni (inediti, lettere di corrispondenti, fotografie, interviste, ma anche testi riproposti per la loro emblematicità di tracce di un percorso esistenziale, etico e politico) in un ordine apparentemente casuale e invece attraversato dai fili sottili della complessità e della multidimensionalità, e "voci" e punti vista di interlocutori - ieri oggi domani - del critico e dell'intellettuale; work in progress e luogo di incontri, questo spazio risponde a criteri di interattività concettuale, esplicita e implicita, accogliendo testimonianze, informazioni, contributi critici, elaborazioni, eventuali connessioni con altre pagine web. Per sviluppare percorsi di ricerca e relazioni. Si cercano persone.
 
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Carlo Michelstaedter, I figli del mare (1910) segue

"Per un commiato" (1934) segue

dalla recensione di Attilio Momigliano a La poetica del decadentismo italiano (1936) segue

Un inedito autobiografico: "Il mio incontro con l'Ariosto" (1938) segue

La prima lettera di Vasco Pratolini (maggio 1941) segue

Da una lettera di Carlo Emilio Gadda (27 febbraio 1943) segue

Aldo Capitini, Ricordi del movimento liberalsocialista a Perugia (1945) segue

Walter Binni, Uno strumento della nuova democrazia (1946) segue

Discorso all'Assemblea Costituente sulla scuola pubblica (1947) segue

Discorso commemorativo di Gandhi all'Assemblea Costituente (1948) segue

"... l'inconciliabilità (...) di una attività parlamentare e di un lavoro letterario ugualmente impegnativi..." (1948) segue

Giuseppe in Italia di Giuseppe Raimondi, con una lettera di Raimondi (1949) segue

Da due lettere di Eugenio Montale (6 novembre 1936, 16 ottobre 1950) segue

Editoriale della "Rassegna della letteratura italiana" (1953) segue

Da "Il XX giugno nel Risorgimento italiano" (1955) segue

"L'agitazione universitaria a Firenze" (1961) segue

Un dibattito de "L'Espresso" sulla scuola pubblica (11 febbraio 1962), segue

Da una lettera di Pietro Nenni (2 marzo 1965), segue

"Omaggio a un compagno caduto" (1966) segue

"Le giornate romane" (1966) segue

Un telegramma di Ferruccio Parri (1966) segue

"A sette mesi dalla morte di Paolo Rossi" (1966) segue

Da una lettera di Aldo Capitini (1967) segue

"Estremo commiato" (1968) segue

da Italo Viola, Critica letteraria del Novecento (gli studi dello stile e della poetica) (1969) segue

Una lettera a Eugenio Montale (5 giugno 1972), segue

" 'Professione reporter' di Antonioni" (1977) segue

" 'Orizzonti di gloria' di Kubrick" (1977) segue

" Un volto nobile fra tanti ceffi ignobili", inedito e pubblicato sul periodico umbro "Micropolis" nel numero di ottobre 2007, fu scritto da Binni nel dicembre del 1981 segue

Premessa al volume "Umbria", di autori vari, pubblicato dalla Regione Umbria, Uemme Editore (1985) segue

Il funerale di Giorgio Caproni, con una "cartolina" di Andrea Barbato (1990) segue

Una dedica di Pietro Ingrao (1994) segue

Da una lettera di Norberto Bobbio (31 ottobre 1994), segue

Da una lettera di Sebastiano Timpanaro (1995) segue

"Questa lotta tra vecchio e nuovo" (1997) segue

Perugia nella mia vita. Quasi un racconto (1997) segue

Carlo Michelstaedter, I figli del mare (1910)


Una lettura della prima giovinezza, negli anni del liceo, rimasta sempre presente nel percorso esistenziale e critico, e riemersa con insistenza negli ultimi anni della vita.


Dalla pace del mare lontano
dalle verdi trasparenze dell’onde
dalle lucenti grotte profonde
dal silenzio senza richiami –
Itti e Senia dal regno del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro
dei mortali a vivere la morte.
Fra le grigie lagune palustri
al vario trasmutar senza riposo
al faticare sordo ansioso
per le umide vie ritorte
alle mille voci d’affanno
ai mille fantasmi di gioia
alla sete alla fame allo spavento
all’inconfessato tormento –
alla cura che pensa il domani
che all’ieri aggrappa le mani
che ognor paventa il presente più forte
al vano terrore della morte
fra i mortali ricurvi alla terra
Itti e Senia i principi del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro. –

Ebbero padre ed ebbero madre
e fratelli ed amici e parenti
e conobbero i dolci sentimenti
la pietà e gli affetti e il pudore
e conobbero le parole
che conviene venerare
Itti e Senia i figli del mare
e credettero d’amare.
E lontani dal loro mare
sotto il pallido sole avaro
per il dovere facile ed amaro
impararono a camminare.
Impararono a camminare
per le vie che la siepe rinserra
e stretti alle bisogna della terra
si curvarono a faticare.
Sulle pallide facce il timore
delle piccole cose umane
e le tante speranze vane
e l’ansia che stringe il core.

Ma nel fondo dell’occhio nero
pur viveva il lontano dolore
e parlava la voce del mistero
per l’ignoto lontano amore.
E una sera alla sponda sonante
quando il sole calava nel mare
e gli uomini cercavano riposo
al lor ozio laborioso
Itti e Senia alla sponda del mare
l’anima solitaria al suono dell’onde
per le sue corde più profonde
intendevano vibrare.
E la vasta voce del mare
al loro cuore soffocato
lontane suscitava ignote voci,
altra patria altra casa un altro altare
un’altra pace nel lontano mare.

Si sentirono soli ed estrani
nelle tristi dimore dell’uomo
si sentirono più lontani
fra le cose più dolci e care.
E bevendo lo sguardo oscuro
l’uno all’altra dall’occhio nero
videro la fiamma del mistero
per doppia face battere più forte.
Senia disse: "Vorrei morire"
e mirava l’ultimo sole.
Itti tacque, che dalla morte
nuova vita vedeva salire.
E scorrendo l’occhio lontano
sulle sponde che serrano il mare
sulle case tristi ammucchiate
dalle trepide cure avare
"Questo è morte, Senia" – egli disse –
"questa triste nebbia oscura
dove geme la torbida luce
dell’angoscia, della paura;.

Altra voce dal profondo
ho sentito risonare
altra luce e più giocondo
ho veduto un altro mare.
Vedo il mar senza confini
senza sponde faticate
vedo l’onde illuminate
che carena non varcò.
Vedo il sole che non cala
lento e stanco a sera in mare
ma la luce sfolgorare
vedo sopra il vasto mar.
Senia, il porto non è la terra
dove a ogni brivido del mare
corre pavido a riparare
la stanca vita il pescator.
Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò".

Così disse nell’ora del vespro
Itti a Senia con voce lontana;
dalla torre batteva la campana
del domestico focolare:
"Ritornate alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ritornate alla via consueta
e godete di ciò che v’è dato:
non v’è un fine, non v’è una meta
per chi è preda del passato.
Ritornate al noto giaciglio
alle dolci e care cose
ritornate alle mani amorose
allo sguardo che trema per voi
a coloro che il primo passo
vi mossero e il primo accento,
che vi diedero il nutrimento
che vi crebbe le membra e il cor.
Adattatevi, ritornate,
siate utili a chi vi ama
e spegnete l’infausta brama
che vi trae dal retto sentier.
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
nessuna forza vince la morte".

Soffocata nell’onda sonora
con l’anima gonfia di pianto
ascoltava l’eco del canto
nell’oscurità del cor,
e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: "Vorrei morire".
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
"No, la morte non è abbandono"
disse Itti con voce più forte
"ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care.
Nel tuo occhio sotto la pena
arde ancora la fiamma selvaggia,
abbandona la triste spiaggia
e nel mare sarai la sirena.
Se t’affidi senza timore
ben più forte saprò navigare,
se non copri la faccia al dolore
giungeremo al nostro mare.

Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò".

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"Per un commiato" (1934)

Nel 1934 Attilio Momigliano lascia l’Università di Pisa per passare all’Università di Firenze. Sulla rivista pisana "Il Campano" (settembre-ottobre), Binni traccia un profilo del "Maestro", alla cui lezione di stile critico rimarrà sempre legato. Momigliano, colpito dalle leggi razziali fasciste del 1938 e costretto ad abbandonare l’insegnamento, morirà nel 1952; Binni ne pronuncerà l’orazione funebre. Il testo Per un commiato è anche particolarmente rivelatore della "poetica" del giovane critico.

Vogliamo parlare brevemente della partenza di Attilio Momigliano dalla nostra Università, perché non ci lascia un professore, ma un Maestro che rappresentava per noi, in un raro equilibrio di sensibilità e sicurezza metodologica, quasi l’incarnazione di una finissima critica estetica. Se della critica di Momigliano, in assoluto, non è questo il luogo di discorrere, qui vogliamo dare alcuni accenni di quelle doti del critico che già abbiamo notato nell’opera scolastica del Maestro.
Una mano che dove si posa afferra vita, una moralità artistica rigorosa che non permette mai l’indeciso, il superfluo, il naturalistico, un passo formale che non perde mai la coscienza di sé, al contatto delle varie personalità poetiche, un modo di aderire all’arte così schiettamente critico ed immediato da escludere in modo assoluto ogni professorale retorica. E una capacità di sceverare tutti i motivi di un poeta, di percorrere tutta la geografia sentimentale di un’anima, senza mai l’ombra di attaccamento ad una tesi. Qualità tutte che ci riconducono ad una indole critica originale, nativa, non avvizzita dalla cultura e superiore ad ogni elemento ambientale: basti ricordare in proposito che il Momigliano cominciò a fare critica estetica quando e dove non si faceva che critica storica.
Quando arrivammo all’Università e sentimmo per la prima volta una lezione del Momigliano, parve a noi diciottenni di essere stati traditi, tanto ci colpiva un’apparente differenza fra il docente e lo scrittore, tanto il docente ci pareva, a paragone dello scrittore, raggelato, lontano, nemico quasi: ci sembrava che non volesse donare nulla di vitalmente suo e che fosse immensamente annoiato del contatto con gli studenti. Ma bastarono poche lezioni perché ci accorgessimo quanta reale ricchezza celasse quell’apparenza di freddezza, e come una concreta passione critica, nel suo processo di espressione, fosse la causa di quella dizione lenta, scrutantesi, senza preoccupazione di oratoria. Allora comprendemmo il mondo spirituale e la forma critica del maestro e cominciammo perfino ad amare il suo modo di leggere, che in principio aveva tanto urtato la nostra cattiva abitudine a dizioni poco formali e prevalentemente psicologiche. Chi ci darà più certe letture squisite, spirituali, che ci fecero entrare immediatamente nel mondo poetico di alcuni minori settecenteschi, degli stilnovisti, di molti passi del Filippo o della Gerusalemme?
Ché la lettura del Momigliano, altamente critica (c’è già il tono di rilievo e di ombra che si spiegherà ragionativamente nella critica diretta) non ci sembra priva di quella adesione umana, di quella cosciente simpatia che ravviva e rende attuale l’opera d’arte.
In realtà quella sobrietà piena cui abbiamo accennato per la lettura, si ritrova ampiamente in tutte le sue lezioni di commento, che costituirono il più deciso punto di influenza del Maestro sulla nostra formazione.
Momigliano introduce alla parola definitiva, che non è poi mai formula astratta, ma giudizio rivivificabile appunto nelle membra del commento che la precede, con una sapiente presentazione di motivi, con una spiegazione che sarebbe erroneo ritenere superflua e scolastica in questo modo di fare.
Parlando di dati autori, adopera parole cavate intelligentemente dai loro originali modi poetici, adatte così a rendere in atto la loro presenza, e spiegando il testo, enuclea già i particolari formali e li media con parole sue alla sensibilità più comune mentre, d’altra parte, risponde ad un’esigenza di onestà e di anti-ermetismo che è fondamentale nella sua natura.
Per questa cura di sfuggire ogni involuzione, ogni processo non pienamente realizzato nella forma, di esigere l’idea netta, senza ganga sentimentale e senza aloni intellettualistici, ci fu maestro soprattutto nei contatti personali (in verità troppo meno frequenti di quanto avremmo desiderato), nei consigli che a noi, suoi scolari più diretti, dava per i nostri lavori.
Ci piace ripetere, in conclusione a questa breve nota, che non abbiamo conosciuto nel Momigliano mai il professore, ma sempre il Maestro: così nelle lezioni, così nelle esercitazioni di seminario, in cui le sue osservazioni rare e strategiche non erano imposte da un’autorità di cattedra, ma da una reale superiorità critica.
Ora che il Maestro ci lascia, riaffiorano in noi i motivi della sua personalità, i significati del suo insegnamento e sentiamo, per quella illuminante comprensione di sentimenti che è intima alla psicologia dei commiati, che era proprio un contenuto affetto paterno quello che troppo spesso ci era apparso un abito di noncuranza.


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Un inedito autobiografico: "Il mio incontro con l'Ariosto"

Negli ultimi anni Walter Binni si impegnò nella ricostruzione autobiografica del proprio percorso esistenziale e storico-critico. Di questi scritti, inediti, iniziamo a pubblicare un primo frammento, dedicato alla ricostruzione dell'incontro con la poesia di Ludovico Ariosto, nel 1938.



Il mio incontro con l'Ariosto (senza veri precedenti nella scuola e persino nell'Università in forma men che svogliata e ben poco congeniale) nacque da un'occasione offertami nella primavera del '38 (ero insegnante a Pavia all'Istituto Tecnico Superiore di italiano e storia) dal mio maestro Luigi Russo che ritenne interessante fare questa prova del mio "ingegno" (in cui credeva) nell'affidarmi l'antologizzazione e il commento del Furioso, delle opere minori per l'antologia I classici italiani da lui diretta. Fiducioso nelle mie doti di adattabilità e nella penetrazione della mia lettura critica, accettai: a Perugia d'estate mi comprai l'edizione critica del Furioso del Debenedetti e quella delle Opere minori del Fatini e me le misi in valigia andando con Capitini per un periodo di vacanza sulle Alpi, sul Renon, a Soprabolzano. E lì in un albergo che era una vecchia villa circondata da alberi, silenziosissima, mi lessi, con crescente entusiasmo tutto il Furioso, prendendo appunti per commento, tagli antologici, discorso introduttivo.
Poi nel '39, passato a Perugia (all'Università per Stranieri) con la mia giovane moglie che copiava a mano (poi divenne un'esperta dattilografa e batté a macchina tutti i manoscritti dei miei libri) i miei sgorbi, buttai giù il commento a una ventina di canti del Furioso e ad una scelta di opere minori. A novembre due avvenimenti diversi intrecciarono nel mio animo il dolore acutissimo per la morte di mia madre (appena cinquantenne) e la gioia per la nascita del mio primo figlio. Donde una spinta eccezionale all'attività (salvezza dal dolore profondo e legame alla gioia vitale) concentrato nella introduzione, getta giù rapidamente, al mio commento già pronto all'inizio del '40 (poi uscito, solo nel '41, nel volume dell'antologia russiana e in un volume separato solo nel'42, sempre da Sansoni, per difficoltà editoriali provocate dalla guerra). Nel commento (in realtà più ricco di spunti di valutazione degli elementi drammatici storici del Furioso che riscoprii e articolai più organicamente molto più tardi) prevaleva un'interpretazione in cui la scoperta di una "poetica" antinaturalistica di una fondamentale direzione artistica tesa a realizzare un "sopramondo" alimentato da un forte senso della realtà, ma fantasticamente "deformato", trasformato in dimensioni soprareali poteva "sbilanciarsi" in forme di "calcolo" eccessive e in equivalenze visive e musicali (e persino cinematografiche) in una fase della mia formazione che risentiva fortemente della teoria della "pura visibilità" (specie di Marangoni) e delle poetiche surrealiste ed ermetiche che si intrecciavano al mio fondamentale storicismo.
Tuttavia la freschezza giovanile di quella lettura e l'impostazione della "poetica" (contro un semplice "sognare" della fantasia ariostesca e una troppo generica "armonia cosmica") mi fruttò, mi sembra, notevoli risultati sia per quel che riguardava il riscatto di valore artistico delle opere cosiddette minori (specie delle Satire tanto più organicamente interpretate in un saggio del '46 su "Belfagor" e quindi in un capitolo del volume del '47) sia nei confronti del Furioso di cui venivano (già nel commento) rilevati episodi e aspetti meno tradizionalmente considerati e anticipata l'organica traduzione del "ritmo vitale" nel "ritmo poetico soprareale" che sarà al centro dell'interpretazione più solida del volume del '47.


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dalla recensione di Attilio Momigliano a La poetica del decadentismo italiano (1936)

La pubblicazione del saggio La poetica del decadentismo italiano nel 1936 è oggetto di numerose recensioni, ed anche di attacchi politici da parte della stampa di regime a causa della sua apertura culturale estranea agli stereotipi nazionalisti. Attilio Momigliano recensisce il volume sul "Corriere della sera" del 9 ottobre.

Possiamo dividere la storia della nostra lirica in due epoche: dallo stil nuovo al Carducci; e dalla scapigliatura in avanti. Le rivoluzioni letterarie anteriori al ‘60 sono poca cosa in confronto con quella che si inizia ai tempi di Praga e Betteloni, e continua tuttora. Il subcosciente si leva contro l’intelligenza e la ragione; l’atmosfera e la musica abbattono la costruzione e la linea. Il vero anticlassicismo e antitradizionalismo non è quello dei romantici, ma quello dei decadenti.
Queste sono verità acquisite, ma generiche. Si desiderava una storia di questo che è il periodo più complicato della nostra lirica, una storia in cui fossero sciolte tutte le incertezze e le contraddizioni, segnati tutti i trapassi, inquadrati i poeti apparentemente solitari. Esce ora, con questo preciso intento, il libro di un giovanissimo: La poetica del decadentismo italiano di Walter Binni (Firenze, Sansoni).
Non è una storia di poesia, ma di poetica: e in questo è il primo segreto dei suoi risultati. Binni non studia di proposito i frutti della poesia, ma i programmi: i quali, ancora tumultuari e rudimentali negli scapigliati, si fanno più ricchi e più consapevoli in Pascoli e D’Annunzio, i veri creatori della nuova tradizione, nei crespuscolari e nei futuristi. Studiando, non la poesia ma la poetica, esplicita o implicita, egli descrive come in questi lunghi decenni, dagli scapigliati ai crepuscolari, si venga maturando il nuovo ideale poetico, fa la storia della coscienza poetica dell’Italia dal ‘60 ad oggi.
(...) Binni considera quello che va dagli scapigliati ai futuristi come il nostro primo decadentismo e, mi pare, il solo che si possa chiamare con questo nome di scuola. Alla soglia dell’epoca seguente si ferma come se essa, assimilate del tutto le esperienze europee e superatele, segnasse un periodo diverso e originale. Forse anche questi limiti del lavoro, assai discutibili, hanno contribuito a mettere in ombra certi lati di Pascoli e D’Annunzio, i quali invece agiscono ancora come fermenti sulla poesia e sulla prosa d’oggi. Direi, particolarmente sulla prosa.
I dissensi non tolgono che si debba riconoscere a questo libro un valore eccezionale. Una materia prima fluttuante vi è sistemata, complessivamente, con una sicurezza di linee ed una capacità di definizioni che io trovo in pochi dei nostri critici provetti. Vi leggerete molte cose già dette, ma non mai con un così chiaro senso dello svolgimento ininterrotto e logico della storia della nostra cultura e della nostra letteratura. Per esempio, la poesia di Gozzano – e quindi dei crepuscolari – era stata definita "una violenta inserzione di prosa nel Poema paradisiaco": Binni riprende questo rapporto fra D’Annunzio e crepuscolari, ma riattacca quell’inserzione di prosa al verismo e alla poetica pascoliana del "fanciullino"; e quindi sottolinea risolutamente l’origine italiana dei crepuscolari e non lascia, nella storia di questi settant’anni, nessun movimento poetico solitario e indipendente.
Binni è un esempio dell’approfondimento del senso storico operatosi proprio in seno a quella nostra critica che un tempo si chiamava estetica. Questa sua qualità è aiutata da una precisa preparazione teorica e da una singolare capacità di definire, distinguere e collegare le personalità poetiche. Finissimo nelle rare analisi (vedi come isola il decadentismo di Digitale purpurea), Binni è però sopra tutto un critico sintetico e intelligente. Non assapora la poesia, ma la giudica e la stringe in una formula: Lucini, "quasi uno scapigliato ingigantito, fatto più scaltro culturalmente e più esasperato polemicamente"; crepuscolarismo, "poesia dell’umiltà e dell’indifferenza dolente"; alla base del futurismo c’è "una sfiducia nella parola e nel discorso come organismo spirituale capace di espressione". Questa nativa felicità si mescola ancora con la condiscendenza all’approssimativo, alla parola accettata senza saggiarne la necessità o la forza espressiva, e con l’impazienza della composizione. Ma il complesso del libro dice che questi difetti, assorbiti dalla critica deteriore, sono potenzialmente superati.

 

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La prima lettera di Vasco Pratolini

Dall'Archivio del Fondo Walter Binni, pubblichiamo la prima lettera inviata da Pratolini il 10 maggio 1941: una proposta di collaborazione al periodico "Domani", "quindicinale dell'intelligenza e del lavoro" la cui direzione è a Roma in Via Frattina 99. Questa lettera segna l'inizio di una lunga amicizia che si protrarrà fino alla morte di Pratolini.

Carissimo Binni,
spero che lei conosca questo nostro giornale. Io vi curo la parte letteraria e artistica, ed è nelle mie intenzioni di inquadrare il giornale il più seriamente e qualitativamente possibile. La invito perciò a collaborare, nella speranza che lei accetti riconoscendo la legittimità della mia richiesta. Mi proponga qualcosa. Da parte mia sarei a chiederle, per il momento, una recensione alla ristampa del Verga. Che ne dice? Mi risponda presto dandomi assicurazione. I manoscritti occorre che pervengano in redazione entro il l° e il 16 di ogni mese. Se mi potesse assicurare il Verga per il numero venturo potrei aspettare fino al giorno 18. Il compenso per ora sarà limitato a 150/200 lire.
Con molti saluti dal suo
                                             Vasco Pratolini



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Da una lettera di Carlo Emilio Gadda (27 febbraio 1943)

All'inizio del 1943, in coincidenza con la pubblicazione su "Primato"(febbraio) del saggio binniano Linea dell'arte di Carlo Emilio Gadda, Binni e Gadda si incontrano a Firenze; nell'occasione, Gadda fa omaggio a Binni del volume La madonna dei filosofi (Solaria, 1931), con una dedica affettuosa il cui 'riverbero' può notarsi nel tono autoironico ma anche sinceramente autoanalitico della lunga lettera del 27 febbraio, che non riproduciamo integralmente per vincoli di copyright. La lettera fa parte dell'Archivio del Fondo Walter Binni ed è inedita.

Mittente: Carlo Emilio Gadda. Firenze, Via Repetti 11. Li 27 febbraio 1943-XXI

Caro Binni,
ho letto subito e, naturalmente, con estrema attenzione ed estremo interesse, il suo studio così vasto, così documentato e così acuto, sul mio lavoro: e desidero manifestarle la mia gratitudine per la fatica a cui si è buttato, per la penetrante analisi a cui ha sottoposto la mia prosa.
A parte le conclusioni positive, è questo un saggio di inusitata attenzione verso un autore non sempre "simpatico", e devo credere a una grande fede nei motivi ideali che accomunano il nostro cammino, a una fede nella "chiesa invisibile", che abbiano sorretto la sua anima e la sua penna.
Le sono integralmente riconoscente. Il suo saggio mi è di conforto a perseverare in un momento tempestoso: a ultimare la stesura corazzata della "cognizione del dolore" di cui la stesura di abbozzo è già completa, in redazioni successive. Temevo delle mie forze, non mi rendevo esattamente conto dei loro limiti: lei mi dice "avanti".
Come in un campo ferroviario molto ingombro si dà il passaggio a un treno che avrebbe dovuto uscirne magari dopo d'un altro, così io ho voluto dare il passo ai "Disegni milanesi" (che usciranno da Le Monnier) e a un altro volume di Parenti, per togliermi d'innanzi il loro inciampo e, direi, la loro tentazione. (…)
Rinnoverò a voce il mio "grazie" vivissimo: spero a Perugia, dove tanti motivi intelligenti mi dovrebbero pur portare, un giorno o l'altro. Le angustie del lavoro, le scadenze tormentatrici sono state motivo a rimandare, rimandare…
Gradisca il mio saluto più cordiale. Le assicuro che non dimenticherò il conforto che lei mi offre; la serietà e il valore del suo studio superano "l'oggetto", ciò che conta, tuttavia, è la costruzione comune.
Mi creda l'aff.mo C. E. Gadda


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Aldo Capitini, Ricordi del movimento liberalsocialista a Perugia (1945)

Un articolo ritrovato (mai ripubblicato) di Aldo Capitini. Scritto nei mesi successivi alla Liberazione, ricostruisce con tratti essenziali e con esemplare semplicità il clima politico-culturale nel quale si sviluppò, da Perugia e su reti nazionali, l'esperienza del "liberalsocialismo".

Aldo Capitini, Ricordi del movimento liberalsocialista a Perugia (da "Il Nuovo Risorgimento, 16 giugno 1945)

Per ciò che riguarda me, c'è un antefatto, ed è Pisa, la Normale del '32. Io ero segretario della Scuola normale superiore ed assistente volontario di Attilio Momigliano. Stavo molto in mezzo agli studenti: alcuni normalisti erano miei ex-compagni, di quando ero stato anch'io normalista più anziano e poi perfezionando. Mai iscritto al partito fascista, in quell'anno presi una iniziativa di propaganda, ma non dalla parte politica, bensì da quella che chiamavo religiosa: reazione allo storicismo tra gentiliano e neocattolico conciliazionista che lì imperava, nonviolenza, nonmenzogna, teismo a carattere ultrakantiano, di cui qui non ho il proposito di riferire la storia e i documenti. Mio collaboratore fu Claudio Baglietto, che poi morì esule; e di lui sarà parlato degnamente. Io persi il posto della Normale per aver rifiutato di tacere e d'iscrivermi al numero dei più. Venni a casa a Perugia, studiai molto, davo lezioni.
Nel '34-'35 cominciai a radunare un po' di amici, filofascisti i più, semplicemente per discutere. La libertà, il corporativismo, la politica estera, poi l'impresa etiopica, questi e simili erano i nostri argomenti: le discussioni erano accesissime e risonavano nell'angusto studio di Bruno Enei. Cominciavamo a rasentare il codice. Tra gli altri intervenivano Alberto Apponi, non iscritto al fascismo (ora capo del Partito d'Azione in Umbria, e presidente del Comitato provinciale di liberazione nazionale), Walter Binni, Giorgio Graziosi, Mario Frezza, Franco Maestrini, Augusto Del Noce, Averardo Montesperelli. Venivano amici da fuori, e specialmente da Pisa. Io stesso mi recavo qualche volta a Pisa, a Firenze, a Roma. "Far pensare" era il mio primo proposito; che quei giovani, e tutti intelligenti e intellettuali, si staccassero di dosso la seduzione psicologica operata dal fascismo e vedessero la genericità e la falsità delle formule e degli espedienti. Molto insistevo sulla "non collaborazione". In occasione di quelle discussioni e per loro stimolo, misi insieme, svolgendo le idee "religiose" della propaganda pisana del '32, una serie di capitoli ordinati, che mi portai a Firenze nel novembre del '36 per lasciarli a un gruppo di amici intorno ad Emanuele Farneti. Conobbi in quei giorni, lì a Firenze, il Croce, presentatomi da Luigi Russo. Era con me Walter Binni. Gli parlammo dello stato d'animo dei giovani, ed egli fu molto contento. All'ultimo momento pensai di fargli vedere quel dattiloscritto che avevo portato per gli amici, e siccome dovevo partire per Milano col Binni e Giansiro Ferrata, lo lasciai al Russo, pregandolo di mostrarlo al Croce. Questi mi propose poi di stamparlo; e così uscirono da Laterza gli "Elementi di un'esperienza religiosa" nei primi giorni del '37. Il Croce parlava di noi a Napoli, portò la notizia anche a Parigi.
Nel '37 sorse più precisamente il nostro movimento liberalsocialista. Io, Apponi e Binni, tra Perugia ed Assisi (dove Apponi, pur non iscritto al fascismo, era pretore) combinammo l'iniziativa di promuovere un vero e proprio movimento etico-politico; ed io scrissi il manifesto, che ancora in Italia non è stato pubblicato, ed uscirà fra breve in un mio volume "La nuova socialità". Una copia di questo manifesto andò all'estero, e fu pubblicato anonimo nel primo dei "Quaderni italiani" negli Stati Uniti da un gruppo di italiani: Aldo Garosci, Bruno Zevi, Lamberto Borghi (che mi aveva conosciuto in Italia) ed altri.
A Firenze avevo conosciuto Guido Calogero, e la nostra amicizia e la nostra vicinanza crebbe sempre più: ci accordammo per lavorare. Cominciò ad intervenire ai nostri convegni, molto ristretti per sfuggire alla polizia, che si tenevano in casa mia o ad Assisi. Vennero anche Umberto Morra, Norberto Bobbio, Giuseppe Dessì, Mario Alicata. A Perugia facemmo il possibile che fu: stare frequentemente con persone del popolo in conversazioni, passeggiate, diffusione di scritti, di libri; così vincevamo la diffidenza per gl'intellettuali, davamo nuova onda di certezza ai tenaci popolani ex-socialisti, e costituivamo una specie di sottocittà, nota a noi soli, con tutti gli antifascisti coscienti.
Io, poi, prendevo spesso il treno, e tenevo i contatti con Milano (gruppi intorno a Parri, Lamalfa, Alfieri, Segre), Vivenza (gruppo Giuriolo), Bologna (gruppo Raggianti), Ferrara (gruppo Bassani e Dessì), Firenze (gruppo Tristano Codignola, Enriques Agnoletti, Calamandrei, Ramat), Pisa (la Normale da Russi a Patrono), Siena (gruppo Delle Piane, Bortone), Roma (gruppo Calogero, Comandino, Muscetta), Bari (gruppo Fiore), e molte altre città. A Perugia e da Perugia molto lavorarono Luigi Catanelli, Agostino Buda, Antonio Borio, Gianni Guaita, ad Assisi Franco Mercurelli. Ma non posso elencare centinaia e centinaia di nomi.
E le idee? quali erano le direttive ideologiche? Ho voluto qui fare una storia piuttosto esterna. Delle idee, in succinto, dirò questo. Volevamo insegnare la libertà ai socialisti, il socialismo ai liberali. Il nostro movimento doveva essere il luogo di questo incontro, di questa nuova elaborazione. Ma l'assimilazione dei due termini, socialismo e libertà, doveva essere assoluta; e perciò ricordo lo sforzo che dovevo fare, d'accordo con Calogero, per conservare la denominazione di "liberalsocialismo", che a qualcuno spiaceva. Pensavamo non ad una mescolanza moderatrice, ma ad una intrinsecità vitalissima, che salvasse dai due pericoli resi evidenti dall'esperienza: il socialismo come statalismo dittatoriale, la libertà come privilegio. Vedevamo il socialismo come elemento di sviluppo della libertà che aveva prima combattuto l'assolutismo, poi l'imperialismo, ed ora doveva combattere la struttura capitalistica. Volevamo, insomma, una libertà concreta, che risolvesse i problemi circostanti. E perciò in un'antologia che facemmo, con pezzi di libri (molti di Laterza), mettemmo anche passi di socialisti; e il titolo generale era "Antologia della libertà".
Sorgevano dei gruppi nelle città, e dai gruppi altri gruppi. Essi esploravano la situazione antifascista di ogni città, si tenevano a contatto con persone di altri partiti. Con l'estero nessun contatto continuo, perché sarebbe stato difficilissimo, e il pericolo non compensato dal vantaggio. Qualcuno di noi affermava la nonviolenza, nella forma di un rinnovamento più profondo e di una noncollaborazione attivissima. Ma sempre meno si discusse di quella, ed io la consideravo un'aggiunta personale di chi volesse.

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Walter Binni, Uno strumento della nuova democrazia (1946)

Enrico Lorenzetti, nipote di Enrico Pea, ha riscoperto un documento importante di Walter Binni, che ci ha inviato con questa nota: "Lucca, 18.XI.04. Caro Lanfranco, ti invio questo articolo di tuo padre che penso tu non conosca. E' importante perché dice dei suoi rapporti con Aldo Capitini a Perugia. Il quindicinale socialista lucchese durò poco. Questo è il suo ultimo numero. Era orientato nella linea della Critica Sociale, e vi scriveva, oltre che Capitini, anche Paolo Rossi." L'articolo, dal titolo Uno strumento della nuova democrazia apparve sul periodico "Democrazia Socialista", "quindicinale indipendente di politica, economia e storia", direttore responsabile Mario Frezza, A. II, n. 1, Lucca, 20 gennaio 1946, p. 5. Ringraziando Enrico Lorenzetti per aver ritrovato un documento significativo delle idee di Binni nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione, riproduciamo il testo in questa sezione del sito, e nella sezione "Tracce e documenti".



Uno strumento della nuova democrazia (gennaio 1946)

Di fronte alla cosiddetta democrazia liberale del primo novecento italiano (quella a cui Parri negava il diritto del nome e del contenuto democratico) esercitata dai prefetti, dai questori, dai carabinieri, a tutela di un ordine reazionario e capitalistico, l'esperienza tragica del fascismo, che dovrebbe aver tolto ogni illusione sulla vera natura delle forze conservatrici e distinto con brutale evidenza i fatti dalle parole, ha fatto sorgere negli elementi intellettuali migliori e nel popolo l'esigenza vigorosa (già viva nel socialismo) di una vera democrazia, diretta, basata sulla reale partecipazione di ogni cittadino alla amministrazione, al controllo della cosa pubblica. Mai come ora dopo un'orgia di sciocco centralismo, di oppio conformistico, di esecuzione indiscussa degli ordini "romani" si è sentito in Italia il bisogno essenziale di organismi popolari che non siano d'altronde semplice espressione di particolari interessi di categoria chiusi come compartimenti stagni e accanto ai quali gruppetti di intellettuali diano vita a discussioni accademiche, a esercitazioni teoriche sradicate dalla realtà viva di ogni giorno. E la stessa formula dei Comitati di Liberazione, che tanta vitalità ha avuto nella lotta clandestina e nella prima fase della vita democratica, non è riuscita ad assolvere quella funzione di autoeducazione popolare e di periferico autogoverno che il mondo moderno, avviato alla soluzione socialista, pone in termini così precisi ed impellenti.
In una città dell'Italia centrale, Perugia, cadevano ancora i proiettili dell'artiglieria nazista quando già nella sala della Camera del Lavoro, alla luce fantomatica di una lampada a gas si radunavano operai, impiegati, studenti, donne non per ascoltare una conferenza, ma per discutere liberamente tutti i problemi immediati e lontani, amministrativi e politici che la situazione poneva a loro come abitanti di quella particolare città, come italiani, come uomini e donne di un mondo assetato di una concreta, precisa libertà. Altre donne, altri uomini, di strati sociali "più alti" preparavano ricevimenti e balli per gli ufficiali dell'A.M.G., politicanti di altri tempi preparavano combinazioni adatte a mantenere quella protezione di vecchi interessi e di vecchi privilegi che con nuove parole fa corrispondere ad un'illusoria libertà una sostanziale oppressione.
La riunione affollata di popolo era stata promossa da un intellettuale di notorietà nazionale, figlio del popolo e vissuto in mezzo al popolo, Aldo Capitini, perseguitato e incarcerato dai fascisti, ma la sua idea precisa della nuova istituzione, del Centro di Orientamento Sociale, aveva trovato una immediata adesione tra i giovani dei partiti di sinistra che in gran parte erano stati destati alla vita politica proprio dalla sua parola e dalla sua opera. E la simpatia che circondò subito il nuovo organismo, la sua rapida diffusione in città e nella provincia, malgrado la naturale ostilità e lo scherno inevitabile di tutti coloro che diffidano del popolo pur tra le platoniche promesse di riforme e di progressismo, dimostrano subito la attualità e la concretezza dei C.O.S.
Il carattere essenziale dei C.O.S. è infatti la corrispondenza ampia e minuta a questo bisogno di libera discussione calata in problemi vivi che è il più significativo segno di un antifascismo costruttivo, di una volontà democratica non astratta. Nel C.O.S. si discutono con una libertà e una tolleranza reciproca, che tanti presunti amici del popolo credono privilegi di pochi eletti, anzitutto i problemi dell'amministrazione locale, varianti da città a città, da paese a paese, da rione a rione: l'alimentazione, i trasporti, l'epurazione, la disoccupazione, la scuola, e a queste assemblee popolari vengono invitati volta a volta i responsabili delle varie branche dell'amministrazione, che devono fornire spiegazioni, ascoltare miglioramenti e proposte, condotti inevitabilmente ad un attenzione e ad una sollecitudine esecutiva, ad una coscienza della loro vera natura di funzionari pubblici, che capovolge la triste abitudine che faceva di ogni burocrate un gerarca , un indiscusso "superiore". Si attua così un vero controllo democratico e i cittadini si abituano a considerare come propri interessi gli interessi della città e del paese, del rione, rompendo così il tradizionale atteggiamento di passività, di assenteismo che permette il cattivo funzionamento amministrativo, le ingiustizie piccole e grandi, alla lunga la dittatura e la servitù.
Ma accanto a queste discussioni spesso e nella stessa seduta e con gli stessi partecipanti, anche i problemi politici sono all'ordine del giorno dei C.O.S.: i programmi dei partiti vengono illustrati e criticati dai competenti e da qualsiasi convenuto, portando ad una chiarificazione, ad un orientamento che supera l'ambito dei comizi, della propaganda unilaterale; i problemi della Costituente (repubblica, socializzazione, riforma agraria, bancaria, autonomie regionali) vengono esposti da ogni punto di vista, ed ogni problema che l'assemblea ritenga interessante ed attuale forma oggetto di sedute esaurienti, spregiudicate.
Da una semplice esposizione del funzionamento dei C.O.S. che mercé l'opera di Aldo Capitini e di molti collaboratori si sono diffusi ormai in Umbria, in Toscana, nel Lazio, nelle Marche, può apparire chiara la loro enorme importanza e l'interesse che essi hanno già destato e destano in seno al nostro Partito, che ovunque se ne è fatto attivissimo promotore.
Se il Socialismo ed il Partito socialista rappresentano gli interessi vivi e concreti del popolo lavoratore e operano per una rivoluzione radicale che come sua mèta ha quella società libera ed eguale in cui, secondo le parole di Marx "il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti", è naturale che una simile istituzione possa apparire uno strumento efficacissimo di lotta e di educazione che noi, democratici e rivoluzionari, concepiamo inscindibili, continue, inesauribili.
Accanto alla struttura sempre più organizzata e combattiva delle sezioni che lottano per la conquista proletaria del potere, questi organismi aperti significano un aumento di azione dell'idea socialista, una sua realizzazione concreta e fin d'ora attuale che porterà su di un piano sempre più preciso e sempre più umano la formazione della nuova civiltà socialista.

WALTER BINNI

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Discorso all’Assemblea Costituente sulla scuola pubblica (1947)

Eletto deputato del Partito Socialista all’Assemblea Costituente per la circoscrizion e Perugia-Terni-Rieti nel 1946, Binni è tra i protagonisti, insieme con Piero Calamandrei, Concetto Marchesi, Tristano Codignola, della lunga battaglia sugli articoli 27 e 28 della Costituzione (che poi diverranno gli articoli 33 e 34 nel testo definitivo) fra sostenitori della scuola pubblica e sostenitori della scuola privata. L’intervento che segue fu pronunciato nella seduta del 17 aprile 1947.

 
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Binni. Ne ha facoltà.

BINNI. Onorevoli colleghi, il mio intervento, fatto evidentemente non come giurista, quale io non sono, ma dal punto di vista di un uomo di cultura, si limita solamente a una rapida discussione del problema trattato negli articoli 27 e 28, cioè del problema della scuola, problema di tanta serietà e di tanta importanza che, giustamente, in un recente suo articolo, Guido De Ruggiero poteva scrivere che gli italiani non potranno dire di aver iniziato la loro ricostruzione nazionale se non avranno posto questo problema in primo piano, se non tenteranno di risolverlo coerentemente.
Due grandi principi vengono affermati nei due articoli 27 e 28; e se anche la loro formulazione può essere in qualche modo emendata o trovata forse generica e un po’ retorica, questi due grandi principi, cioè la libertà d’insegnamento e la possibilità per tutti di entrare in qualsiasi grado della scuola, evidentemente corrispondono al punto storico della nostra società, corrispondono alle esigenze interne del mondo moderno, corrispondono alle esigenze cioè di portare il maggior numero di persone al possesso dell’istruzione, della tecnica ed alla consapevolezza conseguente di questo possesso; a quello sforzo di profondità e di vastità che, secondo uno scrittore francese, André Malraux, rappresenta il dramma e l’esigenza del mondo moderno: dare al numero maggiore possibile di persone il possesso di cognizioni, ma insieme dare ad esse la possibilità e la consapevolezza della loro destinazione umana.
Naturalmente, sul principio dell’afflusso di forze nuove, di forze fresche, di forze popolari nella scuola credo che il consenso sarà facilmente ottenuto da parte di tutti, anche perché si potrebbe dire con qualche malignità che forse, anche quelli i quali non ammettono questo ingresso delle masse, delle moltitudini sul terreno della cultura e della scuola, non avrebbero certamente il coraggio di esprimersi diversamente. Su questo principio sarebbe facile evidentemente per un socialista fare della demagogia, fare della retorica; ma in questo caso ogni demagogia, ogni retorica è annullata dalla realtà stessa dei fatti, dalla necessità che il nostro Paese ha in questo momento di rinsanguare in ogni modo la sua stanca classe dirigente. Credo perciò che su questo punto non occorra spendere troppe parole. Tutti sentiamo egualmente questo problema che non è soltanto un problema di giustizia sociale, ma, come già un oratore precedente, mi pare l’onorevole Giua, ha detto, è un problema di utilità nazionale, riguarda un bene di tutti.
Molto più delicato invece è il principio che afferma la libertà d’insegnamento; molto delicato, anche perché questo afflusso che noi desideriamo e vogliamo di forze fresche, questo criterio unico del merito che noi vorremmo garantito nella Costituzione con la più energica sottolineatura (e perciò nell’emendamento all’articolo 28 sosterremo che si debba dire "solo i capaci i meritevoli anche se sprovvisti di mezzi ecc."), porta con sé un particolare problema nel creare nella scuola le condizioni adatte per accogliere queste nuove forze che vi entrano. Questo punto della libertà d’insegnamento è uno di quei punti e di quei principi in cui la grande parola "libertà" è suscettibile di troppo diverse determinazioni. Può essere qualche volta perfino, come si dice in certi stili nisi mendacium, non altro che menzogna, può essere un tranello, può essere pericoloso tranello. Evidentemente proprio su questo punto si può spiegare il contrasto e vorremmo dire che non ci si dolga se in casi di tanta importanza, si verrà a svolgere un contrasto nei suoi veri termini, specialmente di fronte ad una società come quella italiana, in cui troppo spesso l’uso tendenzioso e antitetico delle stesse parole ha generato una strana confusione.
Molti equivoci sono sorti intorno a questa parola e particolarmente intorno a questo principio della libertà d’insegnamento. Il mio intervento vorrebbe avere l’effetto di sgomberare possibili equivoci da parte nostra. E, poiché io credo di parlare non solo per me e per il Gruppo che rappresento, ma anche per le sinistre in genere, e per tutte quelle forze democratiche di origine schiettamente e profondamente liberale e democratica che si trovano in questa Assemblea, penso che in questo caso noi tutti almeno, vorremmo sgomberare da possibili equivoci questo principio: e con ciò renderemo più facile anche il combattimento, anche la battaglia che certamente avverrà su questo punto. Infatti quando si parla di libertà di insegnamento, da parte di alcuni si vuole arrivare a conseguenze che noi non possiamo accettare e che sono in contrasto con lo stesso principio da cui dovrebbero derivare. Voglio chiarire che si comincia a dire da parte di alcuni che se c’è una scuola libera, che se c’è libertà della scuola, su questa strada si incontra come ostacolo la scuola di Stato, la scuola che alcuni dicono monopolistica; e secondo alcuni si arriverebbe perfino ad una equazione del tutto inaccettabile fra scuola libera e scuola privata. E questo io trovo proprio in una pubblicazione recente di un cattolico, Dante Fossati, che dice: "Non parliamo più di scuola pubblica e scuola privata; parliamo di scuola di Stato e scuola libera".
Vedete dunque, onorevoli colleghi, a quale punto di contraddizione si può arrivare: a negare il carattere di scuola libera proprio a quella scuola che secondo me e secondo molti altri e perfino secondo alcuni colleghi democristiani, è invece la scuola veramente e, in senso superiore, unicamente libera. La scuola in cui tutti quanti senza tessera e senza certificato di fede possono entrare; la scuola in cui il merito dei discenti e dei docenti è misurato soltanto sulla loro buona fede e sulle loro capacità; la scuola per cui già un grande socialista, della cui democrazia nessuno dubita, cioè Turati, diceva che, in senso più stretto, di libertà della scuola, di scuola libera si può parlare solo nella scuola di Stato, "campo aperto a tutte le concezioni della vita, onde il dovere assoluto del rispetto incondizionato della libertà di coscienza". E un altro scrittore socialista, Rodolfo Mondolfo, rivolgeva un invito che noi qui vorremmo ripetere e rivolgere a tutti i colleghi di qualsiasi partito e di qualsiasi fede; l’invito a non considerare mai le giovani coscienze, quasi come colonie di sfruttamento; di rispettare profondamente in loro la possibilità appunto di questa libera formazione che si può trovare solo nella scuola di Stato.
Né occorre fare lunghe disquisizioni su questo; è la nostra esperienza che parla a favore della scuola di Stato; è il fatto che tutti, o quasi tutti noi siamo insieme cresciuti in questa scuola di Stato, eppure siamo diventati in casi diversi, cattolici e buoni cattolici; socialisti, e buoni socialisti; comunisti, e buoni comunisti.
Ma che cosa abbiamo trovato in quella scuola - anche se molti di noi l’hanno frequentata nel suo periodo più triste - che cosa abbiamo trovato che ce la fa sentire così cara e così unicamente libera? Abbiamo trovato lì dei professori che potevano portare voci diverse, e gli scolari venivano educati secondo i meriti, la capacità, la buona fede. Si può dire che una simile garanzia di libertà, di lıbera formazione, venga data dalla scuola privata?
Io non credo. Tutti sappiamo bene che ci sono scuole private e scuole private. Ci sono scuole private di origine commerciale, di origine di guadagno, scuole private in cui il limite più evidente, più serio, più immediato è appunto questo: che non è tanto uno scopo educativo che esse si propongono, quanto piuttosto uno scopo di guadagno, uno scopo di iniziativa industriale. E in verità, per queste scuole, se noi ammettiamo che ci siano a volte delle persone che le creano con uno scopo più alto, dobbiamo dire che lì non si tratterà tanto di una preoccupazione educativa, di libera formazione, quanto piuttosto di una preparazione utilitaristica, di una preparazione in vista di esami di una preparazione per rendere più facile il conseguimento di certi diplomi e, diciamolo pure, per istruire gli scolari nelle gherminelle più astute per poter poi frodare gli esaminatori, per conseguire un diploma.
Non è per questa scuola certamente che noi possiamo scaldarci, non è per questa scuola di iniziativa privata che gli zelatori della libertà della scuola nella sua forma più ampia possono sentir battere il loro cuore.
Ma c’è un altro tipo di scuola privata, che è la scuola di parte o la scuola confessionale. E questi due termini, io li uso in questo momento senza particolari riferimenti, perché evidentemente è di parte anche una scuola che dipenda da autorità religiose, come è confessionale anche una scuola che dipendesse da un partito: sono, direi così, confessionali o di parte nel senso più vasto della parola, in quanto esse non mirano a formare una persona completamente libera e cosciente della dignità di tutte le varie verità, ma mirano piuttosto a formarla secondo un modello prefissato, secondo un figurino; e noi uomini moderni lottiamo proprio contro i modelli, proprio contro i figurini; lottiamo per uomini che siano coscienze aperte ed animi liberi, credendo fermamente che sarà un miglior cattolico, o un miglior socialista, o un miglior comunista colui che, nella sua infanzia o nella sua gioventù, avrà avuto questa educazione più larga che non piuttosto colui che sarà stato nella sua infanzia e nella sua gioventù come una monade chiusa ed ostile.
Noi, in omaggio ad un principio più vasto e formale, possiamo ammettere ed ammettiamo che alcuni individui desiderino una formazione chiusa (noi la qualifichiamo così). Possiamo ammettere un’aspirazione, che è per noi sostanzialmente illiberale, e antidemocratica, ma non possiamo ammettere che la forza di queste scuole di parte possa ad un certo punto diminuire l’efficienza o addirittura far decadere completamente la scuola di Stato, la scuola libera e capace di realizzare una libera formazione.
È su questo punto che, senza equivoci e con la lealtà, e rendendo omaggio ai nostri avversari proprio in quanto consideriamo che essi sanno quello che vogliono, come noi sappiamo quello che vogliamo, è su questo punto che noi sosterremo la nostra battaglia, perché sull’equivoco della libertà dell’insegnamento non si venga a negare la vera libertà della scuola e la vera libera formazione delle coscienze.
È su questo punto che io vorrei dire - e lo dico specialmente rispetto ai democristiani per quanto possa dispiacermi che sempre dalla sinistra ci si debba rivolgere proprio ai democristiani - che in sostanza questa scuola di parte viene ad insidiare, viene a limitare la scuola pubblica; che questa scuola di parte sta dando in questo momento un assalto sfrenato alla scuola dello Stato.
Essa è soprattutto, infatti la scuola di una parte, la scuola di una confessione. Non ci si venga a dire che noi dicendo ciò, mostriamo di essere degli adoratori dello Stato, che in noi c’è una sfrenata statolatria; non ci si venga a dire che noi ci contrapponiamo alla tesi "liberale", mettendo in contrasto il principio liberale con il nostro pensiero, perché, secondo noi, invece la tesi "liberale" più genuina è proprio per la scuola di Stato.
E qui ci conforta non solo la nostra esperienza storica, non solo l esperienza della scuola italiana, ma ci confortano altresì le dichiarazioni che abbiamo fatto sopra. Non si tratta di un’esigenza liberale contro gli adoratori dello Stato, ma, se mai, si tratta di utilizzazione della tesi liberale che viene fatta per uno scopo che è tutt’altro che liberale, da parte di una confessione che per lo meno trae le sue origini da dottrine che non hanno alcuna comunanza con la dottrina liberale, dottrina squisitamente e profondamente nata dal pensiero moderno.
Possiamo dire a questo proposito, quando si fa questa contrapposizione, che dovremmo non pensare ad un contrasto fra coloro che adorano lo Stato - che saremmo noi della sinistra - e coloro che adorano la libertà: ma piuttosto riferirci all’immagine di coloro che adorano il monopolio e lo cercano per la strada della libera concorrenza.
Questo criterio è un criterio assai utile per distinguere quelli che sono profondamente liberali e democratici da coloro che liberali e democratici non sono.
Quando un partito, quando una confessione, ha dimostrato in altri tempi e condizioni - e lo può dimostrare tuttora - di essere pronto ad esercitare un monopolio e viceversa ricorre alla libera concorrenza quando non può esercitare questo monopolio, è evidente che la seconda linea, quella della libera concorrenza è puramente sussidiaria, è una linea di ripiego tattico.
Quando noi pensiamo a questa tesi della libertà di insegnamento nel suo equivoco di libertà per la scuola di parte, vediamo che questa è una tesi che è nata con l’utilizzazione di idee liberali da parte della tesi cattolica. Non farò una lunga dimostrazione storica. So già che altri colleghi sono pronti per questo. So, ad esempio, che il collega Bernini, che ha dato prova di una particolare competenza in un suo recente libro sull’argomento, parlerà su questo tema. Ma basterà ricordare che la Chiesa cattolica, dopo avere largamente usufruito dei regimi assoluti in Francia, dopo l’avvento di Luigi Filippo, nel 1831, non potendo più sfruttare le posizioni di privilegio nel campo scolastico, ripiegò su questa nuova linea con tale discordanza, che in quel periodo molti cattolici francesi rimasero sbandati e stupiti, tanto più che in quello stesso periodo una enciclica di Gregorio XVI ribadiva la scomunica, la condanna di ogni tesi liberale. E questa tesi di origine liberale, ma sfruttata con scopi non liberali, coesisteva con le tesi di carattere assoluto in quegli Stati assoluti, come i principati italiani, in cui la Chiesa nello stesso periodo si guardò bene dal fare campagne per la libertà della scuola e dell’insegnamento. E senza spingerci troppo in questo esame di carattere storico, vogliamo anche dire che quando da parte di polemisti cattolici si dice che quella è la vera tesi della libertà, che lì c’è la vera libertà d’insegnamento, noi vogliamo ricordare loro che questa libertà dell’insegnamento trova subito in campo cattolico un grosso e naturale limite che nasce dalla dottrina cattolica. Quando noi pensiamo ad alcuni testi autorizzati, o magari alle pubblicazioni della "Civiltà Cattolica" o di "Vita e pensiero" o di "Etudes", quando noi leggiamo testi ufficiali come alcune encicliche papali, vediamo che da parte cattolica, mentre si proclama la libertà d’insegnamento, nello stesso tempo si porta una distinzione che viene a minare quella stessa libertà tanto conclamata.
Si fa distinzione infatti fra verità ed errore. I1 padre gesuita Barbera, in una sua notevole pubblicazione sulla "Civiltà Cattolica", nel 1919, diceva: "Libertà per tutti naturalmente, però non possiamo ammettere, per esempio, una scuola anarchica". E poi ancora: "Perché tutto ciò? Perché la verità assoluta è una sola, e solo ad essa in linea assoluta spetta di comparire nell’insegnamento".
E nell’enciclica di Pio XI, già citata questa mattina dal collega Preti, a proposito dell’educazione cristiana della gioventù (che fu emanata dal Papa quasi a commento del Concordato), si viene a dire che dal momento in cui Dio si è rivelato nella religione cristiana, non vi può essere nessuna perfetta educazione se non quella cattolica; e poi si precisa - usufruendo di due pericolosissime parole inserite nel Concordato, e che mediante l’articolo 7 ci ritroveremo di nuovo davanti: "fondamento e coronamento della educazione è l’insegnamento della dottrina cattolica" - che questo coronamento e fondamento si possono intendere sul serio solo se tutta l’educazione viene saturata da princípi cattolici.
Non vi è dunque possibilità di equivoci su questo punto; quando si fa distinzione fra verità ed errore, e per errrore s’intende inevitabilmente tutto ciò che si scosta dalla precisa linea cattolica, evidentemente è ben difficile proclamare poi la libertà piena d’insegnamento per tutti.
Sono dunque i colleghi democristiani che in qualche modo, e non so esattamente in quale forma, porteranno la loro discussione su questo punto, cercheranno di far prevalere la tesi della scuola libera nel senso della libertà della scuola di parte. Se la libertà della scuola di parte potesse avere il suo pieno sviluppo, porterebbe inevitabilmente alla distruzione della scuola libera, porterebbe all’urto delle diverse concezioni, porterebbe, secondo noi, alla fine di ogni formazione veramente libera e veramente democratica. È per questo che noi crediamo che la scuola di Stato vada difesa e che chi difende la scuola di Stato non fa opera di parte, ma fa gli interessi del Paese e gli interessi della democrazia.
Ed è per questo anche che ci si preoccupa quando vediamo che da alcune parti si chiede la parità tra scuola privata e scuola di Stato. Bisogna intenderci bene chiaramente su questa parità. Noi abbiamo detto - e lo dimostreremo anche in sede di emendamento - che non neghiamo il principio della libertà di insegnamento, non neghiamo affatto che, se alcuni cittadini lo desiderano, si facciano da loro una scuola di un certo tipo, una scuola di forma "chiusa", ma noi non vogliamo che alla scuola di Stato vengano strappate concessioni che la metterebb ero in condizioni di assoluta inferiorità.
Quali sono i punti sui quali noi non possiamo cedere, i punti su cui noi siamo disposti a dare battaglia? Sono tre punti che sono stati portati questa mattina in discussione da altri colleghi.
Anzitutto lo Stato solo ha diritto di concedere diplomi allo Stato solo compete il diritto degli esami. E su questo punto vorrei illuminare i colleghi, perché bisogna guardare che cosa si intende per esame di Stato, dato che questa precisa formula "esame di Stato", comparve in quella carta della scuola, in quella carta Bottai che ha poi rovinato la scuola italiana, perché ha ridotto gli esami di Stato ad una triste burla, in quanto non è più una commissione governativa che esamina, non è più presso la scuola di Stato che si fanno gli esami ma tutto si è ridotto all’invio nelle varie scuole di commissari che purtroppo, il più delle volte, vengono anche facilmente influenzata dall’ambiente in cui improvvisamente ed isolatamente vengono a trovarsi. Così ogni dignità, ogni controllo è tolto alla scuola italiana. Noi intendiamo invece gli esami di Stato nella loro forma originaria o in una forma che si possa studiare, ma che garantisca la dignità della scuola.
Ma, oltre gli esami, c’è un altro punto importante a cui noi teniamo. Compare e non so come mai ci sia entrata - compare nel progetto della Costituzione, ad un certo punto, la parola estremamente equivoca di "parificazione". I colleghi sapranno che in Italia attualmente, oltre alle scuole governative, oltre alle scuole che non chiedono che una generica autorizzazione, ci sono le scuole pareggiate e quelle parificate. E vorrei far notare la grande differenza che c’è tra queste due forme: la forma più seria, più anUca, la forma del pareggiamento, la forma che garantisce la dignità della scuola in quanto i suoi insegnanti provengono da concorsi e la parificazione che è un po’ come un’etichetta che viene posta su una bottiglia, convalidandone il contenuto senza conoscere di che contenuto si tratti. Ed è di questo ultimo istituto che le scuole private si sono awantaggiate dopo la carta Bottai, anche se il decreto di istituzione della parificazione risale al 1925. Ebbene, io vorrei far osservare che anche in questo caso chi ha approfittato, chi ha utilizzato soprattutto la parificazione sono state le scuole di parte, quelle uniche scuole di parte che possono esistere in Italia. Perché anche su questo punto bisogna ben chiarirci. Non ci si venga a dire che questa parità della scuola di parte può interessare i comunisti, i socialisti o i repubblicani, perché noi sappiamo, e lo dicono i fatti, che in Italia, nelle nostre condizioni storiche, non c’è possibilità se non da parte cattolica di avere delle scuole confessionali.
Orbene le scuole confessionali sono quelle che più hanno cercato di ottenere la parificazione. Le statistiche parlano chiaro. Mentre fra le scuole pareggiate quelle che dipendono da autorità religiose sono soltanto 12, e quelle dipendenti da enti morali sono 300, quando si passa al capitole scuole parificate, in cui si contano 400 o 450 scuole dipendenti da enti morali, le parificate dipendenti da enti religiosi salgono a 1160. Il che permette di pensare che ci sia comunque una strana preferenza dell’autorità religiosa per questa forma! Quando verremo alla proposta degli emendamenti noi proporremo dunque che questa formula equivoca della parificazione sia esclusa, e che si adotti la formula più seria del pareggiamento.
Un ultimo punto su cui non potremo non scontrarci con i rappresentanti della Democrazia cristiana è la questione della concessione di sovvenzioni. Stamane ho sentito qualcuno di parte democristiana osservare: ma nessuno le chiede! Io sarei lietissimo che nessuno le chiedesse, ma temo che questo mia speranza non si realizzerà (Interruzioni).

MORO. Non le abbiamo chieste e non le chiediamo!

BINNI. Naturalmente siamo abbastanza ben preparati per saper distinguere la forma più rozza dalla domanda di queste sovvenzioni, la forma cioè diretta della sovvenzione alla scuola, dalla forma più elegante, per cui la sovvenzione è data alle famiglie, agli scolari, o va alle scuole mediante la cosiddetta "ripartizione scolastica". Ma noi terremo in ogni caso fermo che sovvenzioni a scuole private non si devono dare. Noi non accetteremo e credo di interpretare il pensiero di molti, non accetteremo la richiesta di alcuna sovvenzione a scuole private, perché queste sovvenzioni hanno l’unico risultato di dare maggiore forza alle scuole private diminuendo l’efficienza delle scuole di Stato.
Basta pensare, per ricordare l’argomento più umile, che molto spesso i fautori della scuola privata vengono a mettere in dubbio la forza della scuola pubblica, dicendo che la scuola pubblica gode di un piccolo bilancio, e che, quindi, è molto bene, nell’interesse nazionale, che la scuola privata possa integrarla nelle sue deficienze. Ma se la scuola di Stato, che ha già tante difficoltà e ha un così magro bilancio, dovesse spartire questo magro bilancio con le scuole private, decadrebbe anche dalla situazione in cui attualmente si trova a causa di tutte le concessioni che lo Stato delittuosamente ha fatto al momento della guerra e della carta Bottai.
Non possiamo ammettere questa ripartizione scolastica, perché nella situazione attuale - ed è inutile riferirsi a condizioni di là da venire - noi sappiamo che di scuole confessionali non ci sono altro che le cattoliche, sicché la scuola statale se dovesse dividere il suo bilancio con esse finirebbe per essere liquidata del tutto, a loro unico favore e non a favore della "libertà".
È perciò che io credo nella possibilità di un contrasto e termino il mio intervento senza far troppi di quegli inviti, che abbondano in questa Assemblea, senza quegli allettamenti che secondo me qualche volta diminuiscono il rispetto dei nostri avversari.
Io, però, devo dire due cose ancora ai colleghi democristiani.
Da una parte, che, in verità, quando sento come ho sentito stamane l’onorevole Colonnetti dire che anch’egli ha voluto che i suoi figli andassero nella scuola pubblica e che per lui la maggior libertà è nella scuola pubblica, provo veramente enorme simpatia e gioia; sento che in questo caso potrei dirvi: colleghi democristiani, non rifiutate questo terreno comune, così importante per la democrazia italiana.
Vorrei dirvi che la scuola pubblica ci unisce e la scuola di parte ci divide.
Se penso ai miei figli ed ai figli di alcuni miei amici democristiani, non vorrei che essi fossero separati e desidererei che, come noi siamo stati educati insieme, così anche essi lo fossero.
Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà, quell’unità, formatasi anche nell’esperienza dura della lotta contro il tedesco oppressore, vorrei che non si venisse ad infrangere, perché c’è bisogno assoluto di questa comprensione democratica; la quale non si può avere, se formiamo gli individui secondo un modello, secondo una linea, secondo un criterio inevitabile di parte.
Questo è l’unico invito, che facciamo non solo come uomini di scuola, ma come uomini liberi, che tengono senza sottintesi alla democrazia.
D’altra parte, voglio dire che, se la battaglia che potrebbe nascere nella Costituente dovesse andare fuori dalla Costituente e dovesse diffondersi nel Paese - come mi pare che si accenni attraverso certi appelli, che pervengono anche a noi, attraverso certe pubblicazioni d’un Fronte della famiglia, con tante firme, con milioni di firme (e direi, fra parentesi, che non mi pare di buon gusto portare qui dentro il peso di firme, che saranno certamente sincere, ma qualche volta sono del tutto ignare) - se questa battaglia dovesse uscire dalla Costituente, allora la combatteremmo, con la certezza di non essere stati noi a scatenarla.
Noi non portiamo un attacco, ma una difesa; non andiamo all’assalto dell’altrui posizione, ma vogliamo difendere la posizione della libera formazione.
Su questo punto saremo irremovibili, e lo dico senza nessuna retorica e senza nessun astio, ma con la coscienza di difendere non una parte, bensì l’unica possibilità di una formazione di persone aperte, capaci di una lotta democratica.
Senza questo, la nostra Nazione non può risorgere e non potrà gettare le premesse d’una società degna di questo nome, e resterà invece in quel ruvido mondo di rapporti ostili e diffidenti da cui dobbiamo al più presto liberarci. (Applausi a sinistra - Congratulazioni).
 

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Discorso commemorativo di Gandhi all’Assemblea Costituente (1948)

Nell’ultima seduta dei lavori dell’Assemblea Costituente, il 31 gennaio 1948, a Binni è affidato il compito di commemorare la morte di Gandhi, a nome dell’intera Assemblea.
 
BINNI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BINNI. Credo di interpretare l’animo concorde di tutti i deputati italiani e di tutti quegli italiani che si sentono, nel senso più ampio e pieno della parola, veramente "cittadini del mondo", ricordando qui tra noi quell’altissima vita che ieri una mano folle o prezzolata ha voluto delittuosamente troncare; ricordando che se, in India, turbe infinite di uomini e donne piangono ancora oggi la scomparsa del loro capo spirituale, anche in altre parti del mondo, anche nell’Europa occidentale, altri uomini hanno provato ieri, all’annuncio di quel triste avvenimento come un improvviso crollo, un’improvvisa, un’infinita tristezza. Un’immensa tristezza, e vorrei dire in queste brevissime parole, anche quasi un senso di infinito orgoglio: l’orgoglio che si prova noi uomini quando, nella nostra condizione umana, fra lotte e vergogne infinite, sentiamo delle voci pure ed altissime elevarsi, vediamo atti di sacrificio e di abnegazione; perché io credo veramente che, se la cosa più difflcile per un uomo è l’accordo tra un’azione rinnovatrice ed efficace e il rispetto assoluto per ogni vita umana, questo accordo è stato veramente raggiunto dal Mahatma Gandhi. Egli ci ha dato l’esempio che vale meglio convincere che vincere; egli ci ha dato l’esempio che è cosa più alta essere martire che assassino.
Quando noi vediamo ciò che accade nel nostro mondo sconvolto, quando sentiamo ancora le vecchie apologie dei risultati e dei successi della forza, ebbene, noi, di fronte a quest’uomo, così modesto che addirittura era diventato, per certi cinismi occidentali, quasi una figura grottesca, noi sentiamo invece che il valore più alto che l’umanità può raggiungere non sono tanto gli imperii sanguinosi e fastosi, non sono le grandi costruzioni, spesso edificate sulle lacrime e sul sangue, ma è invece il gesto più intimo e più solitario, più assoluto, il gesto dell’eroica e sublime bontà, di cui egli, veramente "grande anima", ci ha voluto dare l’esempio. (Applausi).
PRESIDENTE. Credo che l’onorevole Binni abbia interpretato il pensiero e - più che il pensiero - il sentimento di tutta l’Assemblea, pronunciando le parole a ricordo di Gandhi e ad esecrazione dell’orribile tragedia, nella quale è stata spenta una vita che era preziosa non soltanto per il popolo indiano nel suo complesso, ma per tutti i popoli del mondo.

 

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"... l'inconciliabilità (...) di una attività parlamentare e di un lavoro letterario ugualmente impegnativi..." (1948)

Conclusi i lavori dell'Assemblea Costituente, nella primavera del 1948 Binni decide di dedicarsi totalmente al lavoro di critico letterario, motivando le ragioni di questa scelta in una lettera aperta ai compagni socialisti. Sono evidenti i riferimenti alla battaglia politica che sta attraversando il P.S.I. dopo la scissione socialdemocratica del 1947 e sul terreno del confronto complesso, tra "autonomismo" e "fusionismo", con il Partito Comunista,
 
Voci riferitemi tardivamente da varie parti della nostra regione mi hanno fatto ritener necessario un chiarimento pubblico circa la mia posizione politica. Quando, ad esempio, si risponde da parte di alcuni propagandisti ai compagni che chiedono di me, che io mi sono ritirato dalla vita politica, si apre la via ad equivoci a volte innocenti, a volte interessati, comunque bisognosi di una interpretazione sicura.
Il fatto che io non abbia accettato di essere presentato nella lista di Unità Socialista, malgrado le insistenti preghiere di amici quali I.M.Lombardo, T.Codignola, A.Apponi, deriva soprattutto dall'inconciliabilità, da me prevista quando accettai con moltissima difficoltà la candidatura per la Costituente, di una attività parlamentare e di un lavoro letterario ugualmente impegnativi e praticamente escludentisi. Nulla di strano dunque in una scelta di questo genere, specie per chi alla politica è spinto da ragioni morali e non da amore tecnico dell'attività politica: nulla di strano se non per coloro che nella attività di partito vedono solo una "carriera", una possibilità di potenza, di sfogo ambizioso e magari una sistemazione non disprezzabile.
Ma la mia rinuncia ad una attività parlamentare non implica affatto l'abbandono di posizioni ideali a cui non mancherà mai la mia adesione attiva e disinteressata. Posizioni ideali di socialismo democratico, capace di una propria politica che non si può confondere con quella di nessun altro partito, a cui rimasi fedele dopo la scissione del P.S.I.U.P. lavorando insieme ad Ignazio Silone, alla Costituente e fuori, per la riunione di tutte le forze autenticamente socialiste.
Questo lavoro è poi culminato all'inizio dell'anno nella creazione dell'Unione dei Socialisti il cui segretario è I. M. Lombardo, e nella presentazione di una lista di Unità Socialista a cui partecipano il P.S.L.I. e l'Unione, ed a cui va la simpatia di molti compagni rimasti nel P.S.I. ma sempre più in dissenso con la politica liquidatoria della direzione nenniana. E' a quella lista che ho dato il mio appoggio ed è soprattutto alla Unione dei Socialisti (la quale deve costituire la premessa aperta e non settaria di un vero grande partito socialista di cui l'Italia ha estremo bisogno) che io do la mia attività, sicuto che molto presto tutti i compagni sinceramente socialisti si ritroveranno insieme con noi nella costituzione di una forza veramente socialista e progressiva, veramente pacifica, libera e rinnovatrice che si può servire soltanto con una lotta generosa e dura, ma senza gusto di violenza, di menzogna, di sopraffazione, o di tattica compromissoria.
 

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Giuseppe in Italia (1949) di Giuseppe Raimondi

Riteniamo significativo riprodurre la recensione che Walter Binni scrisse nel 1950 sul da poco pubblicato Giuseppe in Italia di Giuseppe Raimondi, scrittore quasi dimenticato oggi. Il libro è molto bello e, come tante memorie personali troppo casualmente incontrate nel cammino storico di questo paese, molto lucido sul versante personale e su quello pubblico-politico della storia novecentesca d'Italia. In anni come quelli in cui costrittivamente siamo tenuti a vivere e in cui la retorica doppiamente infida del nazionalismo "politicamente corretto" richiama spettri letali di un "rappel à l'ordre" del "sentirsi italiani", libro e recensione sono doppiamente istruttivi. Alla recensione, pubblicata in "Letteratura contemporanea", n.1, gennaio-febbraio 1950, mai raccolta in volume, segue una lettera inedita di Giuseppe Raimondi che aggiunge un livello di tragica serenità che non esclude la lotta contro le menzogne già vive e vegete nel 1950.


Recensione (1950) a Giuseppe in Italia di Giuseppe Raimondi

Mentre si deve subito riconoscere la provenienza squisitamente letteraria di questo bel libro di Raimondi in una direzione ben dichiarata dai riferimenti e dai ricordi dell'autore e da sicuri segni stilistici, tanto che "Giuseppe" diventa un testimone ineliminabile della nostra letteratura fra le due guerre e quasi una introduzione preziosa agli anni letterari fra la preistoria della Ronda, l'esaurimento di Solaria e un certo coté di Letteratura; è anche contemporaneamente doveroso indicare la radice non vistosa, ma sicura della vitalità e dell'originalità di queste pagine legate in un ritmo denso e continuo che supera il più comune limite di saggista rondista pur risentito in tanti particolari costruttivi.
Nella pagina stipata di impressioni, di sottili evocazioni d'immagini, di rapprese allusioni critiche (autobiografia poetica e appoggio critico di testi illustri ed esemplari è tipico procedimento rondistico), l'estrema ricchezza di temi, che potrebbero apparire uniti per semplice accostamento, è sorretta da un motivo unitario di esperienza e sofferenza vitale che non può scadere a semplice pretesto di calligrafiche variazioni; se non come in senso assoluto ogni esperienza di vita nel farsi poesia diventa pretesto di una nuova vita di segni puri, di coerenza nuova. Non è tanto il particolare mito dell'artigiano, dello specialista in "chauffage central" che è pur così bene in accordo con il tecnico di personaggi (Domenico Giordani, Signor Teste), quanto la viva sostanza del popolano sviluppatosi alla letteratura dentro una particolare storia, dentro un tempo e una città e persino dentro una passione non finta, non astratta.
E quindi come il libro è ben più di un documento politico e la vittoria è indubbiamente del letterato, del prosatore teso a risultati di stile, esso è vivo e quei risultati son tanto più puri e liberi senza diventare rabeschi decorativi, propri nella sua profonda e naturale storicità. Vita per la letteratura e vita in una speciale e sincera società si aiutano nella poesia della memoria che esplicitamente Raimondi invoca in questa sua prova fondamentale che riassume e supera i precedenti acquisti di saggista.

Mi pare che a togliere il particolare fermento, diciamo così "socialista" al motivo del tempo e della memoria che sorregge nel suo ordine fantastico e storico una serie così rara di pagine riuscite di intelligenza e di gusto, si finirebbe per accentuare il pericolo di un eccessivo sapore, di afa quasi in quella scrittura fitta, insistente, lucidamente minuta e granulosa che si rivela tanto più efficace quanto più si appoggia ad una continuità sentimentale di storia personale, e immersa nella storia di un tempo concreto.
Gli avvenimenti in relazione con la sofferenza e l'esperienza di tutta una società non funzionano solo come possibilità di battute di distacco nel pigri fluire della memoria e come richiami della letteratura a una realtà più urgente ("Era di cattivo gusto continuare in un gioco di allusioni letterarie, d'ironia, di finzioni dell'intelligenza. Si parlava di guerra. E fu ancora la Guerra"), ma serrano coerentemente una ricerca di prosa si di una esperienza letteraria e vitale. Dichiarazioni come questa "L'artista, anzi l'uomo, è in cerca di una verità fondata sul reale e sull'umano…
L'uomo non ha che le proprie mani. Con queste, e con qualche fatica, egli tende a fermare le sue emozioni nel tempo e nello spazio, in modo preciso, materiale. Una collocazione di sentimenti in un mondo di materia. L'arte consiste nel cogliere un rapporto stabile, fisico, tra la sua emozione e il corso della materia", aiutano a capire (e son naturalmente più aspirazioni di poetica che pretese di teoria) il nesso che il lettore è sollecitato a sentire fra la sensibile ricerca artistica di pagina assoluta e la volontaria presenza di testimonianza di vita.
E certo per la storia dell' "umile Italia" popolare e moderna, onesta ed umana, nel colpo di arresto brutale inferto dal tradizionalismo e dal capitalismo conservatore e violento, questo libro di un letterato di estrema élite val più di tanti documentari di politici puri, come il risultato artistico generale guadagna nei suoi pericoli di presunzione non ingiusta, ma troppo letteraria ("L'Italia, questa vecchia Italia, se diventerà Europa un giorno, tra popoli e uomini nuovi, ritroverà nella polvere i nostri miserabili saggi…") dall'appoggio (profondamente narrativo e non episodico) di una precisa storia di sentimenti e di vicende: "Quel giorno, con mio padre, eravamo in Piazza. Dal Bar Ponzio uscirono, diretti in Palazzo, i capi socialisti. Salutammo Zanardi. Con mio padre, come inchiodati da un presagio di tristezza, restammo seduti al tavolino di marmo. Passarono le musiche, e i canti degli operai. Sfilarono, nella luce incerta dell'autunno, le rosse bandiere, su cui l'ombra metteva qualcosa di grigio e di giallo. Quel giorno non risplendeva il rosso della Rivoluzione. Trascorse un lento tempo; finché, tra grida, s'intesero i colpi sordi delle armi. Incominciava il fascismo."
E quale fascino in tutto il primo tempo del libro (sino alla morte del padre), in cui le esperienze del giovane letterato, letture e amicizie, sorgono senza sforzo nell'aria mite e seria della vita popolana, dei ricordi di gioventù in pagine di rara complessità e di equilibrio sicuro fra racconti, riflessioni sulla poesia della memoria, occasioni di accenni critici senza che si cada nell'olla podrida del pezzo di bravura o dell'esercizio a mosaico. In quella prima parte la figura poetica del padre (il personaggio antieroico ed umano di una generazione generosa e civile) campeggia e si alterna senza stridore con i ritratti vivissimi di Campana o Binazzi, con le evocazioni liriche della madre e del dialetto bolognese sentito come persona, in un'unica atmosfera in cui la poesia della memoria si inibisce ogni esplicita dolcezza nostalgica che semmai si addensa nell'evidenza di alcuni particolari fra realistici e simbolici. "Recava infine, dai fornelli sfrigolanti, il tegame blu di smalto. - Senta, senta; sono le cotolette, le ho fatte io; se sono buone - . Col braccio grosso, invadente, disponeva le fette di carne, in un sugo arancione, sul piatto bianco. Si mangiava, in un silenzio mormorato di inezie; era già notte. Nella stanza, l'odore del tabacco e delle vivande. Le arance erano nella terrina di porcellana. E questo fu il tempo felice della mia vita." Quegli oggetti, tutta luce e colore, senza sforzo (anzi poco brillante, alla Morandi), son come il riscatto concreto di movimenti più insistenti e aggrovigliati, in una prosa sempre minutamente densa di allusioni e di riferimenti critici, tramata a piccoli punti accostati.
Dentro quel cerchio sicuro, in quell'onda poetica di ricordo più distaccato ed intero è più facile comporre un'ideale antologia di personaggi, di piccole scene (la madre e l'operaio Calisto), di rapidi paesaggi sensuosi e lirici ("Ecco l'autunno; la luce è fatta più matura. Come un frutto prossimo a cadere, e che si fa tenero, anche se essa si macchia e si tinge, come le foglie gialle… L'estrema luce del giorno aumenta il cupo e carnale rosso delle case, delle torri, delle infinite tegole di Bologna. Le mura e il cotto, immersi in un'aria tiepida, respirano una specie di sensuale inquietudine…"), di interi capitoli in cui, nel generale procedimento di assiepare i temi quasi senza passaggio in superficie (così come nella tecnica del periodo i brevi membri e le immagini si accostano più legati verso l'interno che in una costruzione orizzontale), preziose citazioni di versi portano aria e una musicalità esplicita che rinforza quella più difficile e interna della pagina: come nel capitolo XI l'inizio incantato del Campiello goldoniano.
Nella seconda parte (dopo il crollo della Bologna socialista, la morte del padre e la fine della Ronda) il libro appare meno continuo, quasi più distratto da una memoria che sappia davvero creare profondità e dimensione poetica ai singoli ricordi. Il senso degli anni della dittatura e della solitudine non ha più la fusione sicura di prima e le pagine stesse della prigione o del mitragliamento del trenino (assai belle quest'ultime, ma troppo isolate) o quella della liberazione mancano di quella impressione di continuità senza nesso esteriore in cui si erano staccate e immerse le immagini e i sentimenti nella prima parte. Quella specie di risurrezione agli impegni di una Italia popolare che riprende il suo sviluppo e a quelli di una letteratura spregiudicata e ricchissima di coscienza letteraria, che pare implicita nelle ultime pagine, nel ritorno alla vita politica e alla speranza, non porta in concreto la freschezza e la continuità poetica di prima.
Una limitazione che ci conferma l'impressione che la fortuna di questo libro sta proprio nel singolare incontro di una esperienza letteraria estremamente scelta e tecnica (l'esperienza di un rondista arricchito di ulteriori letture "europee") e di una esperienza di vita fortunatamente continua, storica nella duplice direzione di una carriera di letterato e di una vicenda di figlio del popolo nella compatta età del socialismo prefascista. Sui limiti calligrafici di una letteratura viva soprattutto fra le due guerre, "moderni" e "antifascisti", secondo l'intonazione polemica dell'agente della ferriera aspirante industriale di una bella pagina raimondiana, sono appunto due termini che in quel libro indicano una esperienza italiana essenziale, una direzione di gusto e di moralità a cui Raimondi deve la sua vivacità anche se naturalmente è proprio in forza del suo stile educatissimo e originale che egli ci ha dato una misura così piena del suo ingegno di scrittore.
Dai saggi di "Raccolta", dai volumi rondisti, dai pezzi di critica di Giornale, un cammino di stilista senza tentazioni si è svolto sino a Giuseppe, ma qui la sua arte è maturata in strati più fondi, in un calore poetico e umano più intero e più fortemente controllato.


Da una lettera di Giuseppe Raimondi (febbraio 1950)

E' la risposta di Raimondi alla recensione di Binni. Il documento, inedito, fa parte dell'Archivio del Fondo Walter Binni.

Bologna, 15 via Santo Stefano
20 febbraio 1950

Carissimo Binni,
non so come ringraziarla della recensione che lei ha scritto per il mio Giuseppe. Ho riletto già tre volte questa sua cosa; e le confesso che al di sopra delle ragioni e delle sottigliezze di critico (pure molto utili per l'intendimento di questo mio lavoro; utili anche per me), sono stato preso dal modo affettuoso con cui lei lo ha letto, e segnato. E credo che come sempre, l'affetto o almeno la sincerità giovino molto anche all'intelligenza. La sua recensione è tra quelle che più mi hanno fatto pensare, in modo retrospettivo, e veramente distaccato, al mio libro, che ormai è quello che è, con tutti i suoi difetti, i suoi mancamenti. Io non vorrei più scrivere un libro, come questo. E' difficile spiegarmi; cerchi di indovinare. Io sono stanco di mettere troppo di me (specie di certe cose che bisogna decisamente seppellire dietro di noi) nelle cose che scrivo. Noi dobbiamo, caro Binni, diventare degli uomini veramente sereni.
Ma forse lei non ha l'obbligo di capire questi miei sfoghi verso me stesso. E io so scrivere molto male lettere del genere di questa.
Spero di poterla incontrare un giorno, non so dove; ma a voce mi riuscirà forse di spiegarmi meglio, sono certo che con lei potrò spiegarmi meglio. Volevo anche dirle solo: lei doveva, oltre la parte positiva del mio libro, mettere in luce maggiormente la parte negativa di esso. Lei poteva farlo; e ne sarei stato contento. Ma non è un rimprovero…
Mi scusi se uso della macchina per scrivere; ma faccio meno fatica che usare la penna; sono stato piuttosto malato, durante questi mesi, e mi stanco molto facilmente, anche solo a scrivere poche pagine a mano. Così adopero la macchina. Difatti vengo scrivendo alcune cosette, che spero di poter condurre a termine. Anzi le manderò presto una raccolta di mie prose, sono il lavoro dell'ultimo mezzo anno. Ma poi a costo di rompermi la testa voglio scrivere una cosa di cui ho ritegno a dirle cos'è. E' una tragedia; proprio così. E adesso penserà male di me. Addirittura è un Macbeth. Sarà quello che Dio vorrà.
Ma lei non passa mai da Bologna? oppure non capita qualche volta a Firenze? ci si potrebbe vedere (un'oretta) presso l'amico Bonsanti?
Mi scusi questa lettera imbrogliata. Mi scriva e creda in ogni modo alla mia sincera gratitudine. Con una cordiale stretta di mano sono il
suo
        Giuseppe Raimondi


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Da due lettere di Eugenio Montale (6 novembre 1936 e 16 ottobre 1950)

Le due lettere, la prima su carta intestata della direzione del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, la seconda su carta intestata de "IL NUOVO Corriere della Sera", riprodotte parzialmente per ragioni di copyright, sono inedite e fanno parte dell'Archivio del Fondo Walter Binni.

6 nov. 1936

Caro Binni,
voglia scusare il breve ritardo. Le ho mandato dei bollettini. I cataloghi sono in vendita a prezzi vari, e costituiscono dei "veri" volumi; ma non sono recenti. Quale le interessa? (…)
Ho letto con vivo compiacimento la Poetica del Decadentismo. Dia un'occhiata alla rivista nuova di Carocci e Noventa e vedrà a che punto può arrivare anche oggi lo spirito reazionario.
Mi creda con cordiale simpatia
suo aff.mo

Eugenio Montale

16 ottobre 1950

Caro Binni,
la tua lettera (una delle poche che mi siano pervenute in questa occasione) mi ha fatto un grande piacere. Sono rimasto un po' bambino e mi fa un certo effetto che un 'professore universitario' mi testimoni tanta stima. Si vede che non so liberarmi da un grande rispetto per la cultura ufficiale!
Io ben difficilmente potrò venire a Lucca prima della prossima primavera, e nemmeno son certo di questo… Il tema sarebbe 'Poeta suo malgrado', pasticcio autobiografico e pretesto per recitare qualche poesia.
L'ho già fatto in Svizzera e a Torino. Ho debuttato molto tardi come 'dicitore' e provo sempre molta vergogna. Le 47 poesie le pubblicherò più in là, magari aumentate. E' verosimilmente il mio ultimo libro e ci terrei che non fosse inferiore agli altri due. Oggi però mi sento lontanissimo da ogni interesse poetico, e ciò mi dà un certo spavento perché altri attacchi alla vita non ne ho. (…)
Credimi, caro Binni, con affetto
Il tuo

Eugenio Montale


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Editoriale della "Rassegna della Letteratura Italiana" (1953)


Binni dirige la rivista "La Rassegna della Letteratura Italiana" dal 1953 al 1992, curando personalmente la rassegna bibliografica settecentesca. Nell’editoriale del numero doppio 1-2, gennaio-giugno 1953, definisce le funzioni e gli obiettivi della rivista fondata da Alessandro D’Ancona nel 1893 e diretta da Achille Pellizzari fino al 1948. La rivista riprende appunto le sue pubblicazioni sotto la direzione di Binni. Dal 1992 la "Rassegna della letteratura italiana" è diretta da Enrico Ghidetti e da un comitato di direzione composto da Franco Croce, Giulio Ferroni, Giorgio Luti, Giovanni Ponte e Gennaro Savarese.
 
PREMESSA
La rivista che riprende oggi, dall’anno della morte del suo ultimo direttore, la propria attività, iniziò la sua vita esattamente sessant’anni fa, nel 1893, a Pisa. "La Rassegna bibliografica della letteratura italiana" usciva sotto la direzione di Alessandro D’Ancona (il vigoroso autore della Poesia popolare italiana e delle Origini del teatro in Italia), e si poneva accanto al "Giornale storico della letteratura italiana" in un’opera di informazione critica, essenziale ad un’epoca di singolare fervore di studi eruditi e storici (se non precisamente, ove si tolga il Carducci, di critica), di severo impegno nel "lavoro d’indagine e d’illustrazione che mira a ricostruire sopra solide fondamenta l’edificio della storia letteraria nazionale". Come appunto scriveva il D’Ancona nella mezza paginetta, così modesta e signorile, di "programma" premessa al primo numero della "Rassegna". A quel lavoro di erudizione, in cui i singoli studiosi sentivano fortemente il bisogno di reciproca collaborazione, la necessità "di essere sempre e senza indugio ragguagliati del molto che, anno per anno, (e, potrebbe dirsi, mese per mese) aggiungono alle cognizioni già acquisite alla scienza i nuovi libri ed opascoli, i periodici e gli atti accademici", la "Rassegna" si proponeva di contribuire appunto, su di un piano di alta e consapevole informazione, con un "rendiconto coscienzioso, imparziale" della nuova produzione erudita e critica "giudicandone con urbana, ma schietta veracità". E questo programma, che traeva il suo particolare valore da una generale utilità di notizia e di consapevolezza e dalle particolari condizioni del metodo "scientifico" della scuola "storica" nel suo più sincero fervore di indagine, nel suo più genuino e nuovo entusiasmo per "i dati di fatto", per la "verità della scienza" venne facilmente e abbondantemente attuato sotto la direzione del D’Ancona, con la collaborazione di studiosi insigni, come il Rajna, il Monaci, il Barbi, il D’Ovidio, che vennero arricchendo progressivamente la rivista di preziose "comunicazioni", di discussioni erudite, di rassegne unitarie e specializzate, mentre non mancarono, specie da parte del D’Ancona, precisazioni dettate dal suo vigoroso "buon senso" (giustamente riconosciuto anche dal Croce), criticamente valide contro le esagerazioni delle correnti più avventate del periodo storico, come nel caso della interpretazione "veristica" del Mestica o di quella patologica del Sergi e Patrizi nei riguardi della poesia leopardiana.
Ma, se più tardi sotto la direzione di F. Flamini (che dal 1894 era stato redattore e condirettore della "Rassegna"), la rivista acquistò nuove rubriche e una sistemazione sempre più chiara ed utile del materiale hibliografico (presentato secondo problemi e periodi), essa venne anche perdendo il più fresco fervore iniziale e lo stesso criterio erudito, divenuto più sterile e gretto nelle mani degli epigoni della scuola storica, divenne sempre più inadeguato al giudizio della nuova produzione critica ispirata ai nuovi motivi estetici dello storicismo crociano (e si pensi al caso estremo della recensione assurda di C. Chiarini alla Storia della letteratura inglese di E. Cecchi misurata con i più angusti criteri di una estetica arretrata e di una miope completezza bibliografica). La feconda ricerca filologica, l’entusiasmo per la ricostruzione storica del periodo danconiano scadevano in rifiuto di ogni originalità personale, in oggettività da bibliografia, in ricerca del piccolo particolare erudito. Sicchè un sensibilissimo mutamento, pur nella prosecuzione dei compiti originari della rivista, si potè ben sentire quando la direzione della "Rassegna" passò nel 1916 dalle mani del Flamini, onestissimo ricercatore, diligentissimo informatore, ma troppo chiuso alle nuove esigenze culturali e critiche, a quelle di Achille Pellizzari (anch’egli scolaro della Normale pisana) ben diversamente vivace ed aperto, capace di avvertire ed interpretare, pur nella sua posizione di "educato empirismo", la nuova problematica culturale e critica. Con successivi cambiamenti di testata (che dal 1939 divenne semplicemente "La Rassegna") e con successivi arricchimenti di rubriche, di spogli bibliografici, di note, di veri e propri articoli (dal 1939 più direttamente rivolti allo studio delle varie letterature straniere), la rivista si mantenne utile ed attiva sino al periodo della seconda guerra mondiale e, senza voler dare un esagerato giudizio di un lavoro diverso spesso per la qualità diversa dei collaboratori, svolse un’efficace opera di informazione critica in Italia ed all’estero, dove essa ebbe larga diffusione e contribuì alla conoscenza della nostra produzione filologica e critica.. La guerra, l’attività politica del direttore (combattente partigiano, rettore dell’Università di Genova dopo la liberazione, deputato alla Costituente) e poi la sua malattia limitarono naturalmente l'attività della rivista che cessava nel 1948 (con un ultimo volume redatto da L. Fontana) le sue pubblicazioni al suo 56° anno di vita..

***
Nel riprendere ora a Genova (dove essa segui da Pisa il Pellizzari nel 1919) la sua attività, la nostra rivista, mentre ritorna all’iniziale limitazione del proprio campo di studio, a quello della letteratura italiana, (alle letterature straniere son dedicate altre autorevoli riviste sorte in questi anni), crede opportuno abbandonare la dizione "bibliografica", non per rifiutare la onesta umiltà di "informazione" a cui rimane sostanzialmente fedele, ma per adeguare tale funzione alle esigenze critiche attuali, per legarla esplicitamente alla viva esemplarità ed all’impegno di articoli critici e culturali, come contributi della rivista all’attività critica, filalogica, in questa fase di sviluppi importantissimi nel campo della nostra cultura a base storicistica, ma ricca di esigenze che sempre meglio tendono a precisare la loro validità e a rivedere il loro reciproco rapporto. Cosi, accanto ai notiziari di articoli, alle rassegne di studi di letteratura italiana all’estero (legate alla nostra volontà di contribuire ad un migliore rapporto fra la nostra cultura e quelle straniere), alle recensioni ispirate al desiderio di rilevare i nuovi contributi critici e filologici nel campo dei nostri studi e i motivi metodologici che in questi potranno esprimersi, terremo ad offrire ai lettori esempi di critica, di storia letteraria, di metodo filologico e storia della critica, nonchè, secondo le possibilità, esposizioni autorevoli di tendenze critiche e storiografiche attuali, esami aperti e sereni della complessa situazione dei nostri studi. Ci sembra infatti che, mentre sempre più forte si avverte l’esigenza di un lavoro informatissimo e storicisticamente sicuro, lontano dalle improvvisazioni impressionistiche, dall’arbitrarietà (aprioristica, avrebbe detto il De Sanctis) e dalla tendenziosità incontrollata, sia insieme sempre più chiara la necessità di un largo esame delle varie correnti metodologiche nelle loro esigenze peculiari e nella possibilità di un loro dialogo efficace e stimolante. Non si tratta certo di una assurda proposta di "concordantia discordantium canonum" (ché anzi è fin troppo chiaro il rischio di un eclettismo senza impegno personale e senza il rischio generoso della ricerca nuova e coraggiosa), ma si accenna invece al vantaggio di una conoscenza sempre più individuata dei problemi più vivi e consistenti, di una valutazione di quanto, in una cultura aperta e consapevole, anche diverse tendenze possano utilmente offrire ad un lavoro caratterizzato ma non settario. E basti indicare come, anche in critici tutt’altro che incerti sia da tempo visibile un avvicinamento tra filologia e critica, tra senso storicistico e ricerca di stile e come, pur nei diversi orientamenti, la conoscenza del problema critico nella sua storia e delle condizioni storiche in cui un’esperienza artistica si è svolta, costituisca da tempo comune presupposto di ogni studio critico.
Perciò la Rassegna terrà ad accogliere, su di una sicura base di serietà e di rilievo critico non generico, contributi che rappresentino vive esigenze della nostra cultura critica e mirerà nelle recensioni e nei notiziari a dare chiaro rilievo alle posizioni critiche, storiografiche e filologiche implicite nelle opere esaminate sperando di collaborare cosi ad un chiarimento oltre che ad una accurata informazione.
La nostra rivista riprende la sua rinnovata attività in un periodo assai ricco di operosità, dopo gli anni che condannarono tanti studiosi al silenzio e privarono gli studi di tante forze giovanili che la guerra e le sue tragiche conseguenze allontanarono da ogni ordinato e impegnato lavoro. E se non oseremmo certo adoperare accenti di idillio per una realtà che non può non lasciarci insoddisfatti e per un’epoca che può apparire più di speranze che di conclusioni, non vorremmo neppure privare questa nostra modesta iniziativa in un campo tecnico-culturale del suo significato di fiducia nella serietà e continuità della cultura e del lavoro, sempre intimamente legata alla fiducia nella serietà e continuità della vita. Così come il vuoto terribile lasciato, nel tristissimo 1952, con la scomparsa di grandi critici e di studiosi insigni (da Croce a Momigliano, da Pancrazi a Calcaterra e Borgese, per citare solo i maggiori) non ci induce tanto al compianto di cosi valide forze perdute, quanto al concreto omaggio ad esse del nostro lavoro e dello stimolo che la nostra rivista vuol rappresentare nel campo in cui quegli amici e maestri dettero alta lezione di cultura e di umanità..


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da "Il XX giugno nel Risorgimento italiano" (1955)

È il testo di un discorso celebrativo tenuto a Perugia, nella Sala dei Notari, il 20 giugno 1954, pubblicato nel 1955 sulla rivista "Perusia", e poi raccolto in La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri (1983). Un esempio significativo del forte e costante legame tra Binni e la sua città, luogo centrale di affetti e memoria.
 
Ho ancora vivissima l’impressione che, negli anni della fanciullezza e della prima adolescenza, destava in me la giornata del XX Giugno: il suono mesto e virile del Campanone, il passaggio della carrozza che recava la giunta comunale a deporre corone al monumento e al Cimitero, svegliavano in me una confusa ma profonda commozione, una suggestione fantastica che certe vecchie stampe, rievocanti la battaglia e l’ingresso in città degli Svizzeri, vennero poi precisando in immagini di eroismo tanto più affascinante perché sfortunato, di violenza tanto più ripugnante perché esercitata in nome di segni a cui il mio giovane cuore associava le idee più alte del sacrificio e dell’amore fra gli uomini. E quelle immagini, quell’emozione di tristezza e di orgoglio, quegli impulsi combattivi e quella pietà per le vittime inermi, incisero profondamente in me una istintiva simpatia per i ribelli, per i combattenti senza divisa, per le insurrezioni popolari, un primo sentimento della celebrazione della vita civile mediante gesti di eroismo e di protesta collettiva e naturalmente lo sdegno per la violenza ammantata sotto le insegne del diritto militare, per l’abuso del potere politico da parte di una istituzione religiosa che aveva mostrato in quel caso di usare la violenza (e poi lodarla e premiarla) in maniera anche peggiore di quanto non facessero istituzioni mondane e solamente politiche.

E mi sembrava bello essere perugino soprattutto per merito di quella data gloriosa, di quell’avvenimento che tuttora mi appare pieno di civilissimo significativo: quello di una città che abbandonato a se stessa, tiene fede all’impegno preso insorgendo e si espone in nome dei propri ideali civili alle conseguenze di una battaglia inevitabilmente perduta e che poi, sotto l’occupazione, si comporta con tanta dignità e serena fierezza.
E, d’altra parte, ai miei ricordi di adolescente, appartiene anche quello di una ripetuta visita ad una lapide che, nel nostro bellissimo Cimitero, aveva sempre attirato la mia curiosità e su cui fantasticai a lungo, a mano a mano che crescevano le mie cognizioni storiche e la mia possibilità di interpretarne il significato: una lapide in francese, sormontata da uno stemma gentilizio, dedicata al conte Abyberg, capitano del primo reggimento estero al servizio della Santa Sede, caduto alla presa di Perugia. Implicava forse quella lapide una smentita alle care stampe del saccheggio e delle stragi, il principio di una rivalutazione in me dei combattenti dell’altra parte? Invece sotto quello stemma e quell’epigrafe cavalleresca e bellicosa non c’era neppure il dubbio fascino di un’ultima prova eroica di forze battute e sconfessate dalla storia, di quei pittoreschi residui del feudalismo e del legittimismo europeo, che sotto il Lamoricière si raccolsero nel’60 a Roma e fecero prova non ingloriosa a Castelfidardo.

Il governo pontificio nel 1859 non aveva ancora fatto appello alle forze più retrive e più antiquate della nobiltà occidentale e a Perugia si erano battuti solo dei mercenari, anche se ornati di stemmi e di titoli svizzeri savoiardi tedeschi. E non potei non provare una certa delusione quando appresi che il cavalleresco guerriero "caduto alla presa di Perugia al servizio della Santa Sede", sarebbe (così pare) rimasto ucciso da una palla il moschetto rimbalzata da una casa di cui egli stava guidando il saccheggio!

Così quello stemma e quel titolo, quell’epigrafe cavalleresca coprivano una realtà squallida e miserabile e la lotta dei perugini assumeva sempre più ai miei occhi il valore di una lotta fra uomini liberi e vivi nella storia, e poveri avventurieri senza scrupoli, a cui l’orpello dell’inquadramento militare, la nobiltà degli ufficiali e l’insegna delle chiavi di San Pietro, non aggiungevano che una decorazione sfacciata, un pretesto di dignità ad un’impresa che la resistenza perugina ebbe il merito di rivelare nella sua vera natura.

E infatti - volendo passare dai ricordi ad un concreto omaggio a quell’avvenimento, omaggio che non può essere che la rapida ricostruzione di esso e la valutazione del suo significato nella storia del Risorgimento italiano - bisognerà dire che il XX giugno fu soprattutto la chiara dimostrazione di una essenziale differenza fra le forze vive, reali del Risorgimento, e quelle fittizie antistoriche del dominio temporale dei Papi, fra gli ideali nuovi e concreti anche se diversamente profondi e capaci di sviluppo, che davano vigore alle forze progressive, moderate o mazziniane che fossero, e l’assurdità di una organizzazione politica artificiosa, senza necessità ideale o sociale o economica, bisognosa per difendersi di ricorrere (nell’epoca delle nazionalità!) a truppe mercenarie e straniere.
L’eroica difesa e soprattutto il saccheggio e la violenza degli Svizzeri a Perugia costituirono così, in quella fase delicatissima del nostro Risorgimento, un elemento di grande importanza nella definitiva condanna italiana ed europea del governo pontificio, la cui assurdità e artificiosità storica appariva tanto chiara quanto la sua immoralità proprio da un punto di vista cristiano: che era poi l’impressione di sdegnata meraviglia che, in maniera piuttosto enfatica e tutt’altro che poetica, voleva rendere il giovane Carducci nel suo sonetto, Per le stragi di Perugia, quando trovava esecrando il fatto che Cristo fosse stato come ideale capitano al "reo drappello" degli Svizzeri:

Cristo di libertade insegnatore,
Cristo che a Pietro fe’ ripor la spada,
Che uccidere non vuol, perdona e muore.
(G. CARDUCCI, Juvenilia, in Opere, ed. Naz., Bologna 1950, vol. II, pp. 209).
 
Cosicché si può ben dire che la riconquista di Perugia, se fu fruttuosa immediatamente al governo pontificio in quanto fermò quella che poteva essere una frana del suo dominio nell’Umbria e nelle Marche già nel ‘59, importò un decisivo passivo per quel governo che, a causa di quel gesto di forza male impiegata, di violenza sproporzionata (gesto lodato e premiato dallo stesso Pontefice, compiuto da truppe mercenarie straniere nel momento stesso in cui il culto del principio di nazionalità era nel suo massimo fiore), si trovò coperto di discredito in tutto il mondo civile; tanto più che, a causa dell’accennato saccheggio dell’Albergo di Francia e delle perdite finanziarie subite dall’americano Perkins, quel governo, che prima aveva tutto negato, fu obbligato dalla diplomazia americana ad ammettere quanto era stato testimoniato da quell’inopportuno ospite straniero, e apparve così pubblicamente insieme bugiardo e vile.

Ma le reazioni più interessanti furono proprio quelle italiane, anche se allo sviluppo del nostro Risorgimento, nei riguardi del governo pontificio, giovò moltissimo il quasi unanime coro di proteste che si levò sui giornali di ogni parte d’Europa. L’azione degli Svizzeri pose davvero in crisi la coscienza di una gran parte di cattolici italiani e come si possono facilmente trovare testimonianze di sdegno e di commozione (in cui coincidevano una cristiana sollecitudine per quel sangue innocente versato, con la coscienza nazionale e liberale ferita dall’impiego degli Svizzeri e dall’imposizione violenta dell’autorità a una città che si era pacificamente liberata) anche in sacerdoti come il canonico Chelli di Grosseto che "piangeva al racconto di una strage di innocenti e di inermi fatta nel mezzo d’Italia, si può anche indicativamente citare una lettera del Ricasoli al Lambruschini (21 giugno 1859) in cui alle esitazioni del noto pedagogista cattolico circa l’azione unitaria del governo provvisorio toscano si oppone, come prova della necessità di agire e di non credere più alle vecchie illusioni federali neoguelfe, il fatto decisivo che "il papa manda gli Svizzeri a far assaltare Perugia". E lo stesso Ricasoli, in una lettera del 5 luglio al fratello Vincenzo, elencando alcuni avvenimenti che impegnano tutti gl’italiani ad agire concordemente e a disperdere ogni illusione sulla utilizzazione dei vecchi príncipi e sul compromesso con lo stato pontificio, metteva in primissimo piano "i fatti di Perugia", che han rivoltato la coscienza più grossolana contro il Papa e il suo governo.

Il sacrificio perugino cooperava così in maniera decisiva ad aumentare la provvidenziale frattura che permise indubbiamente la più facile realizzazione dell’unificazione italiana e della prima costruzione del nuovo stato unitario, e impedì pertanto alla Chiesa di inquadrare politicamente i suoi fedeli a cui essa aveva troppo recentemente offerto una linea politica così assurda e reazionaria e macchiata dalle forme estreme dell’autoritarismo e della violenza oppressiva.
E d’altra parte l’episodio del XX giugno diveniva nel periodo tra ‘59 e ‘60 un potente stimolo al proseguimento dell’azione liberatrice e unificatrice, una fortissima arma sentimentale nelle mani dei partiti patriottici anche se, si può ben immaginare, adoperata diversamente (e motivo persino di polemica aspra) dai mazziniani e dai cavouriani.
Allo spirito del XX giugno si educarono generazionı di uomıni liberi e si ispirò a lungo la vita della nostra città con quelle libere amministrazioni comunali che proprio a quel nome simbolico intitolarono spesso le loro opere più civili (scuole, asili, istituzioni di beneficenza pubblica) e che, onorando solennemente ogni anno quella data, rinnovarono un impegno solenne a mantenere la città sulla via del progresso civile e sociale, nel rispetto della democrazia, della libertà e di una severa fede laica: valori ed ideali a cui, pur nel mutarsi delle condizioni storiche e nel precisarsi sempre più concreto delle esigenze sociali, la democrazia perugina rimase lungamente ed attivamente fedele.

E da quell’impegno lontano, da quella lezione di eroismo e di civiltà attinsero pur forza molti dei perugini combattenti contro la dittatura fascista e di quell’episodio molti si ricordarono anche per condannare la conciliazione fra lo stato fascista e la chiesa romana e, più tardi, il piccolo ed inutile machiavellismo che accettò l’inserimento dei trattati lateranensi nella nostra costituzione repubblicana, la quale ne venne in tanti punti fondamentali snaturata e messa in dubbio.

Ed ancora adesso, quando i termini della lotta politica sono tanto cambiati da quelli del Risorgimento e impegnano gli uomini in posizioni di valore universale e legano sempre più necessariamente la libertà e la democrazia alla soluzione del problema sociale, noi possiamo pure guardare con reverenza ed affetto a quella data gloriosa che rende ai nostri occhi ancora più bella la nostra città, ci fa lieti di esserne cittadini e ci impegna ad onorarla con la nostra attività più seria, con il nostro servizio alla causa di una umanità libera e fraterna.

 

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L’agitazione universitaria a Firenze (1961)


Articolo pubblicato sulla rivista fiorentina "Il Ponte", giugno 1961. Gli avvenimenti che Binni, docente ordinario di letteratura italiana alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, ricostruisce con una dettagliata analisi "dall’interno", provocarono uno dei primi episodi della contestazione studentesca all’organizzazione universitaria; il Rettore dell’Ateneo fiorentino fu costretto a dimettersi. Verso la conclusione dell’articolo, Binni sottolinea la positiva novità di un primo significativo collegamento tra studenti e operai sul terreno della complessiva riforma della società.

La situazione di crisi dell’Università italiana, su cui aveva già richiamato la pubblica attenzione la giornata dell’università del 27 gennaio scorso, ha avuto una manifestazione clamorosa nella prima metà di questo giugno quando l’agitazione dei professori incaricati, che proclamarono la loro astensione dagli esami a causa del loro insopportabile trattamento economico e giuridico, ha dato il via ad una serie di avvenimenti i quali hanno scosso profondamente le strutture universitarie e richiamato l’attenzione di tutto il paese su di un problema che solo gli interessati al mantenimento di ogni forma dell’attuale situazione della società italiana possono minimizzare o presentare come effetto fittizio e interessato dell’azione antigovernativa dell’opposizione di sinistra.
Già la stessa agitazione degli incaricati mostrava la gravità della situazione dell’università italiana in cui il rapporto fra insegnanti e studenti raggiunge ormai le punte inverosimili di 1 a 110 (tale cioè da non permettere in alcun modo lo svolgimento di un lavoro che presuppone, e sempre più, un diretto contatto fra docenti e discenti) e la maggior parte dell’insegnamento di materie spesso fondamentali ricade appunto sugli incaricati pagati con stipendi di fame e privi di ogni minima garanzia giuridica. E se alcune delle richieste di questa categoria possono apparire non accettabili (come quella secondo cui essi potrebbero ottenere, dopo un certo numero di anni di incarico, l’assegnazione, senza concorso, di una cattedra nelle scuole medie superiori), si può essere molto ragionevolmente d’accordo sul fondo delle loro rivendicazioni e sul giudizio severissimo da dare sulla insensibilità ai problemi universitari da parte dei governi succedutisi in questo dopoguerra, in una fase cioè che doveva segnare un generale rinnovamento sociale e democratico del nostro paese.
Ma l’agitazione degli incaricati (agitazione del resto già chiaramente inquadrata in richieste generali di riforma dell’università) ha perso tanto più il suo carattere settoriale quando ad essa si è aggiunta quella degli assistenti (altro settore dell’insegnamento universitario profondamente bisognoso di nuovi provvedimenti e di un accrescimento di proporzioni massicce: ricorderò quale esempio dell’assurdità di tale situazione come la mia cattedra di letteratura italiana nella facoltà di Lettere di Firenze sia tuttora priva di un assistente di ruolo!) e quando sono entrati in azione gli studenti nella guida responsabile delle loro organizzazioni sindacali.
A questo punto tutto il mondo universitario si è trovato coinvolto nell’agitazione e se l’associazione dei professori di ruolo non ha preso immediata e chiara posizione (aspetto su cui non si può tacere un giudizio di biasimo e che mostra come proprio al vertice dell’insegnamento universitario si avverta più fortemente il permanere di una più scarsa sensibilità universitaria), gruppi di professori di ruolo più avanzati e coscienti hanno ben sentito il loro dovere di partecipare all’agitazione in corso.
Ciò riguarda tutta l’università italiana, e va detto che l’atteggiamento nelle varie università andrebbe distinto anche per quanto riguarda le autorità accademiche, se si volesse qui delineare un consuntivo generale dell’agitazione in tutta Italia. Ma qui sono stato richiesto di testimoniare sulla situazione dell’Ateneo fiorentino dove l’agitazione ha avuto un carattere più grave e sin drammatico e che infatti perciò ha occupato le pagine dei quotidiani e provocato reportages e interviste.
Ne traccerò dunque anzitutto una cronaca breve, ma sicura, perché a parte i pettegolezzi locali e le speculazioni politiche di alcuni giornali di destra, non sempre le relazioni e le interviste anche su organi ben intenzionati sono state del tutto soddisfacenti. Il fatto più vistoso dell’agitazione fiorentina è consistito anzitutto nella pmresa di posizione delle organizzazioni studentesche e nella reazione del Senato accademico che, dopo un primo comunicato, non privo di un’assicurazione di platonica solidarietà con gli incaricati, ma fermo a sostenere la necessità dello svolgimento regolare degli esami e della illegalità di ogni spostamento di questi (e come fare regolari esami nell’assenza degli incaricati presenti non solo nelle proprie commissioni, ma in quelle degli ordinari?), fu attratto soprattutto dall’agitazione degli studenti e dall’occupazione da parte di quesi di alcune facoltà: occupazione simbolica intesa a sostenere l’agitazione degli incaricati e a sottolineare la situazione di disagio in cui gli esami si sarebbero svolti. Né occorrerà rilevare, tanto essa è evidente, la generosità dell’azione degli studenti il cui interesse più egoistico sarebbe stato solo quello di sostenere gli esami nelle date prestabilite, mentre esso cedeva di fronte ad un interesse più profondo per l’Università e per il suo funzionamento in condizioni più eque di trattamento degli insegnanti.
Invece il Senato accademico e il Rettore preferirono addossare la colpa del "disordine" agli studenti stessi e imboccarono una strada autoritaria e ministeriale (né si dimentichi il fatto che a questo punto appare sulla scena un ispettore del Ministero) che li condusse ad atti progressivamente sempre più gravi. E sia chiaro che l’occupazione delle facoltà non implicò di per sé l’impedimento o l’interruzione dello svolgimento degli esami da parte di quei professori di ruolo che intendevano farli. Il Senato accademico e il Rettore si decisero invece alla chiusura dell’Università e non (come altrove è stato fatto) per sostenere gli incaricati e sottolineare di fronte al Ministero e all’opinione pubblica lo stato di crisi dell’Università, ma per rispondere in maniera punitiva e autoritaria all’occupazione studentesca delle facoltà.
Tuttavia, in un primo momento, si pensò ad una chiusura a tempo determinato e a garanzie sui modi di ripresa degli esami che gli studenti richiedevano e credevano di avere ottenuto. Tanto che essi decisero di interrompere l’occupazione, ripeto ordinatissima e simbolica, come di fatto fecero nella mattina del 6 giugno. Ma il comunicato del Senato accademico, pubblicato nel pomeriggio dello stesso giorno, aveva tutt’altro tenore da quello sperato e immaginabile. Non faceva parola delle giuste ragioni dell’agitazione degli incaricati, degli assistenti, degli studenti e della presa di posizione autorevole di un gruppo di professori di ruolo della Facoltà di Lettere i quali, in mancanza di una decisione da parte dell’ANPUR (Associazione Nazionale Professori Universitari di Ruolo, ndr), si erano visti costretti (per solidarizzare con gli incaricati, non danneggiare gli studenti e non agire illegalmente con commissioni parziali o rimaneggiate illegalmente) ad agire per proprio conto rinviando di una settimana l’inizio dei propri esami. Con una dichiarazione che resero pubblica e che portava le firme del sottoscritto, di Roberto Longhi, di Eugenio Garin, di Glauco Natoli, di Giacomo Devoto, di Cesare Luporini, di Alessandro Perosa, di Ernesto Sestan, di Andrea Vasa, di Giovanni Pugliese-Carratelli.
Vi fu anzi nel Senato accademico un preside che chiese provvedimenti disciplinari contro questi professori che con la loro azione responsabile salvavano per primi (altri poi in altre facoltà fecero dichiarazioni simili e si comportarono in maniera analoga) il vero prestigio e la vera dignità dei docenti fiorentini. E alcuni di essi, più attivamente presenti negli svolgimenti successivi, influirono indubbiamente sulla condotta degli studenti e rafforzarono la responsabile prudenza con cui gli organismi rappresentativi studenteschi evitarono atti più impulsivi suggeriti dall’esasperazione prodotta dal comportamento del Senato accademico. Il quale, nel suo comunicato, tendenziosamente disconosceva il carattere organizzato e totale dell’agitazione studentesca (parlava solo di "alcuni gruppi di studenti") e chiudendo l’Università a tempo indeterminato dava carattere punitivo alla sua decisione, mentre deferiva al Rettore poteri che, in simile situazione, esso era tenuto a gelosamente conservare e ad esercitare direttamente.
La risposta degli studenti fu l’occupazione del Rettorato, il quale non è un sacro altare intangibile, ma un luogo dove i rettori esercitano il loro ufficio di capi elettivi dell’Università trattando direttamente, dove occorra, anche con la categoria degli studenti che bizzarramente alcuni considerano solo come elementi disturbatori e fastidiosi e non, come sono, parte essenziale dell’Università e senza di cui l’Università non avrebbe ragione di esistere.
Invece di trattare con le organizzazioni studentesche e di far valere il principio fondamentale dell’autonomia anche disciplinare dell’Università, il Rettore (ma con lui l’intero Senato accademico, cioè i presidi di tutte le facoltà, che a lui avevano conferito poteri straordinari e avevano già contemplato l’eventualità della richiesta d’intervento della polizia) ritenne di ricorrere alla forza pubblica che difatti intervenne la sera stessa nell’Università, ne fece uscire i circa duecento studenti di ogni facoltà che vi si trovavano prendendone il nome e rivolgendosi poi alla Procura, che sta ora esaminando la possibilità di configurare contro di loro il reato di occupazione di luogo pubblico.
Non occorrerà insistere sulla gravità del gesto del Rettore e del Senato accademico (fra l’altro nessuna delle autorità accademiche credé di dover esser presente all’atto dell’intervento della polizia quando si potevano temere anche atti di resistenza da parte degli studenti e quindi conseguenze tutt’altro che impossibili ed anzi ben immaginabili): atto che ha aperto una ferita non facilmente sanabile sia fra le autorità accademiche e la massa studentesca sia dentro lo stesso corpo accademico dimostrando come le autorità accademiche fiorentine non siano state all’altezza dei propri compiti e come nel loro comportamento si siano manifestati una mentalità ed un costume che sono fra le prime cause interne della crisi dell’Università.
È questo infatti, insieme alla insensibilità governativa su cui sarebbe inutile o ingenuo qui insistere, o che porterebbe a troppo lungo e amaro discorso, il primo elemento di riflessione che emerge dalla cronaca degli avvenimenti fiorentini e che riporta ad una severa diagnosi dei mali interni che affliggono l’Università. Cioè lo spirito non democratico, autoritario e erratamente legalistico di molti professori in cui la competenza scientifica e tecnica non è sostenuta e avvalorata da una adeguata consapevolezza dei propri doveri democraticamente educativi. Vecchio male italiano, come il conformismo e l’acquiescienza ai poteri ministeriali (tanto più grave in persone che non hanno neppure il dovere del giuramento di fedeltà allo stato, che sono inamovibili e non hanno alcuna ragione di timore): vecchio male che si associa ad un singolare egoismo della cattedra e ad una posizione di vera e propria inimicizia verso gli studenti che ha avuto modo di manifestarsi di nuovo anche in questi ultimi giorni quando in una facoltà (nota del resto per idee destrorse dei suoi professori di ruolo), alla ripresa degli esami, il preside ha sentito di inviare una lettera poliziesca ai professori invitandoli a vigilare sulla condotta degli studenti, a denunciare al preside ogni minima scorrettezza, "anche di lieve natura", degli studenti, a isolare i pochi "mestatori" (che sarebbero i rappresentanti delle organizzazioni studentesche e i responsabili dell’agitazione recente). Pofessori con cui nessuna colleganza può indurci a superare il dissenso profondo, culturale ed umano, che da loro ci divide.
Ma altri elementi positivi ci inducono a ritenere molto importante e promettente l’agitazione degli scorsi giorni. Non solo il fatto che quanto è avvenuto non potrà non portare modificazioni nei rapporti fra il corpo accademico e le autorità accademiche (già tre facoltà hanno condannato il comportamento delle autorità accademiche) e che comunque si è rotta una situazione di passività in molti professori e si è giunti ad una coscienza migliore in loro di certe situazioni interne e dei rapporti fra Università e governo, ma soprattutto la constatazione della esistenza di docenti veramente democratici e di una maturità molto notevole da parte degli studenti.
È quest’ultimo il fatto che metterei in primo piano, non per una facile demagogia (sono notoriamente un professore severo e dall’esame contraddistinto da un materiale assai cospicuo, e qualche studente meno studioso non mi perdonerà certo queste colpe per le mie belle parole!), ma perché sono profondamente convinto che gli studenti sono l’apertura verso il futuro e che nelle loro mani è l’avvenire della nostra scuola e della nostra università e, in parte, del nostro paese. E il vederli così permeati di un vero spirito democratico, così desti agli interessi che li riguardano, ma ancor più a quelli che potrebbero parer da loro più lontani, così sensibili ai rapporti fra l’università e la scuola pubblica e la società, mi rallegra e mi fa sperar bene: così come ho sempre sentito conforto nel contatto con l’intransigenza morale, con l’entusiasmo e la serietà appassionata che salgono dalla loro calda e giovane vita, e da quella di tutti i giovani, studenti o no, più liberi dalla contaminazione del conformismo e del tatticismo furbesco, dai compromessi avvilenti che paiono più apesso aggravare il peso degli anni maturi e senili. Ma qualità in loro già consapevoli e rafforzate da una coscienza matura ed aperta che mi pare essenziale e tipica della vita organizzativa, della scuola pubblica (di cui è parte cospicua l’università, per fortuna, nella sua quasi totalità, pubblica) e della spinta democratica, che malgrado tutto opera fortemente nella zona più delicata e viva dei giovani.
Chi, come me, non ha disdegnato per un malinteso decoro accademico di assistere e partecipare alle assemblee tenute dagli studenti fiorentini in questi giorni, ha ben avvertito la maturità delle dichiarazioni fatte dai vari rappresentanti delle diverse organizzazioni studentesche e nelle diverse impostazioni ideologiche ha sentito quasi sempre un grado di serietà, di preparazione, e soprattutto di democraticità che avrebbero assai sorpreso i fautori dello studente che deve solo studiare e che deve essere trattato solo come un oggetto di cui, un po’ curiosamente e un po’ dispettosamente, verificare l’incasellamento nel punto di esame.
E soprattutto da quelle dichiarazioni derivava una considerazione molto importante: non solo la risposta a chi ha parlato di "gruppi di studenti" o di chi ha tentato di scoprire in tutta l’agitazione una manovra interessata di partiti politici, ma la garanzia dello spirito democratico degli studenti. Democratico da ogni punto di vista. Perché quella che risultava dalle diverse dichiarazioni (specie nell’assemblea più imponente nella notte dell’occupazione dell’Università da parte della polizia) era un’unità democratica consapevole ed articolata. Cioè, il fondo democratico comune delle posizioni degli studenti, delle ragioni della loro lotta, delle prospettive di essa, delle richieste di rinnovamento dell’università, della scuola, della società italiana, risaltava entro una gamma diversa di impostazioni ideologiche e queste a loro volta erano superate dal comune riferimento democratico di quei discorsi. Naturalmente con diversi accenti, con diversa profondità di tono, con diversa complessità di implicazioni politiche e sociali, ma con una radice comune che assicurava la concordia nella lotta e la possibilità di un dialogo ulteriore ed attivo.
Ancora un altro punto positivo: alle assemblee studentesche (cui parteciparono alcuni assistenti, incaricati e professori di ruolo) furono presenti anche alcuni giovani operai e la loro presenza fu intesa dagli studenti nel suo senso giusto: non quello di una piccola manovra politica, ma quello più profondo (e che avrebbe superato comunque anche l’intenzione di una manovra politica) di una comunanza di interessi al rinnovamento della società italiana in ogni suo aspetto.
Concluderò infine constatando come l’agitazione studentesca sia stata nettamente inquadrata entro la più generale lotta per il rinnovamento non solo dell’Università, ma di tutta la scuola italiana e che concorde fu da parte degli studenti la consapevolezza dell’insufficienza e del carattere confessionale del Piano Fanfani, mentre da un punto di vista pratico, numerose e concrete furono le proposte di nuovi modi di inserimento dell’Università nei vivi interessi culturali, economici, sociali del paese e degli enti locali.
Su questi risultati, e contro le speranze dei conservatori di ogni tipo e grado, si è venuta così formando una promettente intesa fra tutti i settori universitari nelle loro forze più rappresentative e una più larga intesa con altri settori attivi della vita italiana. E non sarà facile fermare l’azione di forze che nelle giornate scorse hanno compiuto un’essenziale prova di compattezza e di decisione ed hanno meglio chiarito gli obiettivi da perseguire e la natura e la consistenza degli ostacoli interni ed esterni da superare.


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Da una lettera di Pietro Nenni (2 marzo 1965)

Nel marzo 1965 Nenni è vicepresidente del Consiglio dei Ministri, nel primo governo di centro-sinistra. La scuola pubblica è uno dei principali terreni di scontro tra la sinistra e la Democrazia Cristiana. La lettera è riprodotta parzialmente per vincoli di copyright.

Roma, 2 marzo 1965

Caro Binni,
il problema della scuola è di tutti il più difficile. Chi ha voluto o dovuto collaborare coi cattolici ha dovuto trovare un compromesso (Austria, Belgio, gli stessi Stati Uniti), un compromesso che in questi paesi si è risolto a favore della scuola di Stato.
Non averlo trovato fu in Francia una delle cause del rapido crollo della Quarta Repubblica.
So quanto il problema sia difficile per noi, presi con il fondo clericale della DC anche nelle sue forze socialmente più avanzate e il retaggio anticlericale che è non un capriccio ma un prodotto della nostra storia.
Comunque ci sono per noi posizioni irrinunciabili e che dovremo difendere ad ogni costo. Le leggi di riforma strutturale della scuola attualmente in elaborazione non sono tali da rendere impossibile una convergenza.
Io le ho passate a Codignola. Manca quella per l'Università ma ho l'impegno del ministro di presentarla al più presto.
S'è pensato anche ad una commissione interpartitica che la esamini prima del Consiglio dei ministri. Al consiglio (se sarà possibile restarci giacché giudico la situazione molto difficile anche per errori nostri) difenderò strenuamente le nostre posizioni di principio dovessimo, su di esse, aprire una crisi.
(…)
Cordialmente,
tuo Nenni


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"Omaggio a un compagno caduto" (1966)

Nell’aprile 1966 alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma muore in seguito all’aggressione di una squadraccia fascista lo studente socialista umbro Paolo Rossi. Contro quest’assassinio e le collusioni del rettore Ugo Papi con gli ambienti neofascisti, l’Università viene occupata. Il 30 aprile è Binni – che ha svolto un ruolo centrale nella reazione all’assassinio di Paolo Rossi partecipando attivamente all’occupazione dell’Università con il movimento degli studenti e con altri docenti antifascisti – a tenere l’orazione funebre nel piazzale della Minerva, davanti al feretro del compagno ucciso. Nei giorni successivi il rettore Papi è costretto a dimettersi.
Il testo, pubblicato sul n. 4, 1966, della rivista "Mondoperaio", è stato poi raccolto nel volume
Poetica e poesia (1999).
 
 
Abbiamo accompagnato la salma di Paolo Rossi nel suo ultimo percorso verso la tomba, abbiamo già vissuto e sofferto il momento del distacco delle sue spoglie, il momento del "mai più" che lascia ogni uomo incredulo, e impersuaso, colmo di dolore di fronte alla cesura inesorabile della morte, alla perdita della persona irripetibile, fonte del nostro inesausto rimpianto, della nostra non accettazione di un "fatto" di cui nessuna saggezza, nessuna fede possono effettivamente, interamente dar ragione e consolare.
Paolo Rossi non è più qui con i suoi amici, con i suoi compagni, con i suoi genitori, con la sua sorella. Non sarà più, come poteva e doveva essere, per la sua età e vitalità, diretto promotore di incontri, di amore, di colloquio, di opere, di atti di vita.
Egli scompare dalla terra nell’età della primissima gioventù, quando egli più ardentemente si apriva alacre e puro, originale e creativo, agli impegni più intensi della cultura, dell’arte, della società, a cui era chiamato, e già partecipava, dalle sue native qualità e dall’educazione alta, esemplare, aperta, e serenissima che aveva avuto dai suoi genitori. Enzo e Tina, artisti e persone di altissima sensibilità intellettuale e morale, i miei cari amici degli anni di una gioventù tormentata e illuminata dalla Resistenza al fascismo e al nazismo (quando essi furono combattenti per la libertà) e dalle indimenticabili e brevi speranze della Liberazione, nella nostra città di Perugia, alla cui bellezza profonda e severa, al cui paesaggio spontaneo e luminoso la mia mente commossa non può non associare quei ricordi lontani, e l’affetto per quel giovane umbro.
Dalla città natale Paolo era venuto ancora bambino a Roma e qui era cresciuto fra i primi studi e la scelta decisiva dello studio dell’arte e dell’architettura che lo portò, all’inizio di questo anno accademico, sui 19 anni, ad iscriversi alla Facoltà di architettura, dove frequentava, con avidità di cultura e con rigore intransigente di appassionato e lucido giudizio, le lezioni di Zevi, e di Quaroni, che sarebbero stati i suoi maestri liberi e congeniali e che ora lo piangono insieme agli amici e agli estimatori di lui e dei suoi genitori.
Paolo, a Roma fın da ragazzo, aveva associato allo studio, all’amore profondo dell’arte di cui avidamente seguiva tutte le manifestazioni, nella letteratura, nel teatro, nella musica, anche l’amore per l’attività sportiva che aveva contribuito a rendere particolarmente vigoroso il suo corpo snello ed elegantissimo, e che aveva variamente esercitato insieme al suo bisogno di vita associativa nello scoutismo cattolico. Così come lo ricordano anche quei padri canadesi della sua parrocchia e della sua associazione, i quali hanno voluto spontaneamente e pubblicamente ricordare, in questi giorni tristissimi, accanto alle sue qualità morali e intellettuali, anche la sua robustezza e prestanza, di contro ai turpi tentativi di spiegare la sua tragica morte come dovuta a malattia e a debolezza fisica e nervosa, assurda in chi, sciatore e rocciatore, sarebbe stato colto da capogiro e vertigine su di un muretto alto pochi metri.
Forte e padrone delle sue forze fisiche e morali, Paolo viveva intensamente il frutto della sua natura e della sua educazione familiare, in un costurne di lealtà assoluta, di chiarezza mentale e morale, di volontà e coraggio di verità, su cui egli aveva fondato anche la sua religiosità aperta e spregiudicata. Né questa, in lui così autentica e ricca di prospettive di svolgimenti e di ampliamenti culturali, gli aveva in alcun modo precluso scelte politiche decise nel campo democratico di sinistra fino alla sua iscrizione alla Federazione Giovanile Socialista, in cui egli intendeva portare e realizzare - anche con salutare e giovanile impazienza e irrequietezza - il suo bisogno di lotta per la giustizia sociale di tutti e per tutti, per la libertà di tutti e per tutti.
In questi ultimi mesi, nel contatto con l’università e con le offerte culturali più valide e aperte, egli si veniva rapidamente maturando sempre meglio, unendo e articolando le sue esigenze di impegno culturale e politico che lo avevano coerentemente portato a prendere subito posizione nelle associazioni studentesche democratiche coerenti alla sua prospettiva socialista, a partecipare ad una lotta decisa - pur nel suo bisogno profondo di apertura, di persuasione, di rifiuto di ogni forma di violenza e faziosità - contro le forze dell’incultura, della rozzezza mentale e morale, del terrorismo teppistico, con cui egli si trovò subito in netto, intransigente contrasto.
Ora, nell’apertura più luminosa della sua giovane vita, nell’impegno dell’esercizio più attivo ed intero della sua purezza morale, della sua intelligenza, della sua fantasia fervida, egli è stato violentemente, bruscamente, drammaticamente, strappato alla vita, al futuro, agli amici, ai compagni, ai maestri, ai genitori.
Nulla ci può ripagare della sua scomparsa, della perdita della sua presenza sensibile, su cui, chi lo conobbe e anche chi solo lo ha, in questi giorni, "conosciuto" nelle fotografıe e nella descrizione degli amici, ha lungamente e tristemente fantasticato, vagheggiando affettuosamente i tratti puri, l’inclinazione e il taglio del suo volto lieto e pensoso, intelligente e intensamente serio.
Ora egli e noi siamo stati privati di tutto ciò.
Ma non dal caso, da un incidente fortuito, secondo una vile riduzione della sua morte e del significato di questa, a cui ci opponiamo con tutte le forze del nostro sdegno e del nostro disprezzo morale, umano, civile.
Perché altrimenti saremmo qui riuniti in una vastissima assemblea di docenti, studenti di Roma e del resto d’Italia, uomini di cultura, lavoratori, uomini politici, parlamentari di tutti i partiti antifascisti, fino al vice presidente del Consiglio Pietro Nenni, al segretario del Partito socialista De Martino, i quali questa sera visiteranno ufficialmente le facoltà occupate?
Perché altrimenti tutte le facoltà di architettura d’Italia sarebbero chiuse e tante università chiuse od occupate con la bandiera a lutto? Perché altrimenti la parte migliore e più vera dell’Italia sarebbe qui presente o realmente o attraverso messaggi e manifestazioni che si svolgono contemporaneamente in tante altre città italiane?
Perché allora il Paese sarebbe, com’è noto scosso, da un moto profondo di dolore, di collera, di protesta, di volontà di lotta, in uno di quei rari momenti della verità e della coscienza, che contano più della politica pratica e che sono le radici profonde della stessa politica e della stessa azione concreta?
Perché, perché è morto Paolo Rossi?
Anzitutto perché egli era un giovane democratico e antifascista, e in Italia, dopo la Liberazione, da tempo muoiono violentemente solo i democratici e gli antifascisti! Tale sua qualità lo designava insieme agli altri giovani democratici antifascisti alle aggressioni brutali, alla abbietta volontà distruttiva di quei gruppi di azione squadrista che da tempo agiscono indisturbati e incoraggiati nell’Università di Roma esercitando, con pertinace bestialità, quel costume di violenza, ancora pubblicamente difeso e propagando fino in Parlamento da quei tetri straccioni intellettuali e morali che dànno l’avvio ai giovani teppisti.
Straccioni e teppisti e, a livello più profondo, sventurati che cercano con l’attivismo squadrista e la violenza, di compensare la loro incapacità a vivere nella dimensione e nella misura degli uomini veri, essi che non hanno nulla capito della vita e della storia, nulla della civiltà, nulla dell’umanità, di cui essi rifiutano e spezzano i vincoli profondi, nulla delle parole inutilmente rivolte loro da chi si sforza (e con quanta fatica e ripugnanza!) a volerli considerare pur uomini, a proporre loro una superiore legge di discussione, di rispetto dell’avversario, invece della sua distruzione fisica.
Ma Paolo è morto anche perché troppo grande è la sproporzione, la tragica sproporzione del nostro Paese fra una maturazione vasta di ideali democratici e una prassi di avversione, o quanto meno di diffidenza a questa, là dove essi dovrebbero essere tutelati e difesi contro i velenosi frutti della educazione alla violenza.
Perché troppa è la distanza fra la Costituzione nata dalla Resistenza e la mentalità e la pratica dei detentori di strumenti repressivi spesso inadeguati o spesso addirittura contrari al loro scopo costituzionale.
In questa sproporzione, troppo a lungo, troppo a lungo, si è persistito, sin nel recente passato, nel costruire quegli strumenti, che dovrebbero funzionare a difesa dei diritti costituzionali dei cittadini e della vita democratica, in maniera decisamente contraria, sostenendo, e a volte incoraggiando e premiando arbitri e sopraffazioni, purché compiuti a danno dei democratici. Né ci si può accontentare delle più recenti buone intenzioni certo interessanti, promettenti, ispirate da coscienza antifascista e democratica, se ad esse non seguono atti concreti e coerenti, di cui l’attuale governo democratico ha non solo tutte le possibilità, ma anche il dovere.
In questo contesto più generale la morte tragica di Paolo Rossi deriva da una causa più vicina e legata all’Università di Roma.
So di pronunciare un giudizio gravissimo e durissimo, e come vecchio professore universitario avrei preferito non dover essere stato costretto dai fatti a pronunciarlo come esso è e deve essere, così opposto recisamente agli avalli assurdi da parte di chi, per la sua stessa autorità specifica, avrebbe potuto e dovuto almeno attendere di conoscere l’ordine del giorno votato dal Consiglio della Facoltà di lettere, il verbale della relativa seduta, le numerose dichiarazioni e testimonianze di docenti, studenti, parlamentari dei partiti di opposizione e di governo.
Quell’ordine del giorno e quelle dichiarazioni denunciano fra le responsabilità del tragico avvenimento, un modo di governo di questa Università e un uomo di cui non intendo qui fare il nome, perché esso macchierebbe, con la sua vicinanza, quello del giovane morto per l’aggressione fascista e per le possibilità ad essa concesse da quel deten- tore del potere universitario romano.
Di quell’uomo non si sa se più condannare l’incoscienza e l’imprevidenza o la cosciente faziosità, l’assenza o la presenza negativa in queste tragiche giornate, quando egli, oltretutto, non ha neppure considerato doveroso di venir di persona sul luogo della tragica vicenda, non ha ritenuto doveroso e umano di prendere diretto contatto con i genitori di Paolo, di recarsi, dove un suo studente agonizzava e moriva a causa dell’aggressione fascista e viceversa si è preoccupato, con gesto inaudito nella storia dell’Università italiana di chiamar subito la polizia per invitarla a sgomberare con la forza (come purtroppo la polizia ha fatto e poteva non fare) la Facoltà di lettere occupata pacificamente da studenti e docenti. E poi non si è vergognato di rilasciare ad una stampa compiacente ed interessata dichiarazioni patentemente false e insultanti per la memoria della vittima.
Quell’uomo, dico, è certamente da un punto di vista morale e non solo morale responsabile della morte di Paolo Rossi. Egli ne ha preparato la morte con infiniti atti di assenza e di presenza negativa, con l’incoraggiamento dato ai gruppi violenti e anticostituzionali, lasciandoli liberi di provocare e aggredire gli studenti democratici e inermi, di insultare docenti ed uomini del più alto valore morale ed intellettuale, tollerando e difendendo la presenza di scritte anticostituzionali in locali da lui controllati, rifiutando di prendere nella dovuta considerazione denunce precise degli organismi studenteschi democratici, proteste di illustri docenti, lasciate spesso villanamente senza risposta.
Quale meraviglia allora se in questo clima da lui creato si poteva giungere alla tragica morte di uno studente democratico?
D’altra parte, quale meraviglia, se neppure una tragedia simile è bastata a far comprendere a quell’uomo i suoi doveri e - una volta che ancora questi venivano da lui ignorati - a fargli comprendere l’elementare necessità di abbandonare un posto così indegnamente occupato.
Dolore, sdegno, protesta, si fondono e convergono di nuovo nella memoria bruciante e nell’omaggio che rendiamo alla giovane vittima che abbiamo accompagnato verso la tomba.
Vittima inerme e pure non inconscia delle ragioni e degli ideali che l’hanno condotta a morte, Paolo credeva e voleva che il mondo fosse liberato da ogni oppressione, fosse più aperto, più puro, più degno degli uomini veri. E perciò prendeva posizioni ed impegni con se stesso e con gli altri. E, poiché era studente, riteneva suo dovere lottare per un rinnovamento profondo dell’università. E poiché era studente a Roma, riteneva suo dovere anzitutto lottare contro la vergogna della violenza fascista in questa Università.
Per questo (e non per un’impossibile consolazione ai suoi genitori, a cui ci stringiamo affettuosi e fraterni, pregandoli solo di sentire il grande amore che sale verso di loro da tutti noi, la riconoscenza nostra per avere dato vita ed esempio ad un giovane di così alte qualità) noi intendiamo salutare Paolo Rossi, non solo con un rimpianto profondo, ma con un impegno virile e civile. Egli stesso, per la sua vita e per la sua morte, non ci chiede tanto onoranze e rimpianto (nessuno di noi lo dimenticherà mai, lo avremo presente nelle ispirazioni più alte della nostra vita) quanto ci chiede - anzi comanda- con la voce assoluta dei morti (i morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si possono abbandonare alla morte e alla solitudine del sepolcro), ci comanda un impegno coerente al significato della sua vita e della sua morte. Ci comanda di essere fatto vivere da noi nella nostra azione costante e indomabile per i suoi e i nostri ideali.
Un’azione concreta, coraggiosa, intesa a far sì che Paolo sia l’ultima vittima di una situazione assurda e vergognosa, a far sì che, intanto e subito, questa Università sia resa pulita e decente, a far sì che tutta l’università italiana abbia una vita interamente democratica, sicura, degna, e che ciò trovi posto in una energica trasformazione democratica di ogni aspetto della vita del nostro paese; poiché la lotta per l’università non è che una parte della nostra lotta per il rinnovamento del nostro paese.
Questo impegno viene qui preso da quanti qui siamo riuniti. Ma soprattutto, pensando a Paolo io mi rivolgo ai giovani, agli studenti. Essi sono il nostro futuro (quel futuro che Paolo portava in sé e che gli è stato crudelmente negato), essi sono la nostra virile speranza (quella speranza che è stata atrocemente recisa nella vita di Paolo), essi sono coloro che porteranno più avanti nel tempo la prosecuzione di questa nostra lotta: una lotta democratica, coerente ai metodi e ai fıni della democrazia, decisissima nella scelta di ciò che rende degna la vita degli uomini e nel rifiuto di tutto ciò che la deturpa, la contamina e la rende peggiore della morte.

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"Le giornate romane" (1966)

Nell’articolo, pubblicato sul numero di maggio della rivista fiorentina "Il Ponte", Binni ricostruisce il contesto degli avvenimenti di aprile, iniziati con la morte di Paolo Rossi e conclusi con le dimissioni del rettore dell’Università. Una ferma denuncia delle responsabilità, una serrata riflessione sui compiti degli intellettuali.
 
Le drammatiche giornate dell’Università di Roma, iniziate con la tragica morte di Paolo Rossi e concluse con le dimissioni del rettore romano, con la volontaria cessazione dell’occupazione delle facoltà da parte delle forze universitarie antifasciste, con il lungo e acceso dibattito parlamentare e l’ordine del giorno della maggioranza governativa, costituiscono insieme una vicenda di eccezionale importanza nella storia dell’università romana ed italiana e un importante test di reazioni, valutazioni e atteggiamenti della stampa, dei partiti, dell’opinione pubblica, degli stessi protagonisti della vita universitaria romana e italiana.
Mentre si preparano, da parte dell’Interfacoltà romana, piú approfondite documentazioni sia sulla base della prima parte del "Libro bianco", riprodotto in questo numero del "Ponte", sia in ordine all’amministrazione dell’Università di Roma, sia in forma di ricerche sulla composizione studentesca, sulla sistemazione urbanistica, sui rapporti fra la città universitaria e la città di Roma (alcune di queste ricerche saranno affidate a neolaureati che fruiranno di borse istituite alla memoria di Paolo Rossi), si possono raccogliere alcune considerazioni relative ad alcuni aspetti della vicenda e della sua ricordata qualità di test.
Credo anzitutto doveroso e non inutile ricordare ancora una volta come la spiegazione piú superficiale di questa gravissima vicenda sia quella che la fa risalire ad uno stato di disordine "goliardico" su cui si sarebbero innestate artificiosamente lotte di opposte organizzazioni studentesche e l’impiego di opposte violenze di fazioni estremistiche.
La verità è che sulla base di una generale condizione anormale della vita universitaria italiana, macroscopicamente ingigantita nell’Università di Roma (mancanza di strutture democratiche, ad ogni livello, insufficienza degli ordinamenti degli studi, contrasto tra professori insegnanti e professori impegnati in tutt’altre attività professionali, sproporzione fra il numero degli studenti e quello dei docenti, inesistenza di un vero diritto allo studio ed effettiva discriminazione classista ed economica dell’accesso all’università), si sono aggiunte nel caso dell’Università romana alcune cause precise che hanno ulteriormente aggravato la generale situazione universitaria: la presenza di squadre teppistiche antidemocratiche e di una massa cospicua di studenti neofascisti e qualunquisti, il comportamento passivo degli organi di polizia, oreposti alla tutela dell’ordine costituzionale e legale nella città universitaria, il modo di governo dell’Università da parte di un rettore in carica da molti anni.
Io che venivo a Roma dopo circa vent’anni di insegnamento nelle Università di Genova e di Firenze, e che già avevo potuto in quegli atenei verificare i difetti di fondo dell’università italiana (per quel che riguarda Firenze e l’agitazione del 1961 rimando al mio relativo articolo sul numero del "Ponte" del maggio di quell’anno), provai un’impressione profondamente penosa al mio arrivo, nel 1964, di fronte ad una situazione mal immaginabile in base alle sole notizie e voci che giungevano da Roma in altre città.
Tutto ciò che lo stralcio del "Libro bianco" documenta non è che una parte di quanto hanno verificato da tempo coloro che lavorano nell’università di Roma: anzi un ulteriore materiale di fatti criminosi non è stato potuto raccogliere proprio perché l’intimidazione e lo stato di terrore erano tali che molti studenti e studentesse vittime di soprusi, di aggressioni, di insulti, hanno preferito tacere o non sottoscrivere denunce per non aggravare la loro posizione in una simile università, dove spadroneggiano indisturbate squadre organizzate dai movimenti studenteschi del hIovimento Sociale Italiano ("Caravella", FUAN, "Avanguardia Nazionale", etc.) e dal gruppetto pacciardiano di "Nuova Repubblica" ("Primula goliardica") che, come si sa, in Roma fanno le loro piú sfacciate prove di forza.
Questo stato di cose illegale e pericoloso era tollerato, e con ciò stesso incoraggiato, dagli organi di polizia che non volevano vedere e provvedere, come era loro dovere, credendo cosí anche di interpretare la direzione impressa dal rettorato alla vita universitaria romana.
Sia ben chiaro: nessuno vuole inchiodare la polizia sulle posizioni passate, e si prende atto senz’altro del nuovo atteggiamento che la polizia ha tenuto e tiene nella città universitaria da quando di questa si occupa direttamente il questore di Roma e da quando il ministro degli Interni ha fatto dichiarazioni di lealtà democratica e antifascista. Non si può però, per nessuna ragione, celare quel passato e accettare certe errate difese integrali dell’operato della polizia e dei suoi rappresentanti: la dignità della polizia si tutela facendo sí che essa sia effettivamente sempre "degna" e prendendo provvedimenti, ove occorra, nei confronti di quei suoi elementi che si sono assunti gravi e accertate responsabilità, qualunque sia la ragione per cui cosI hanno agito. Quanto alla responsabilità dell’ex-rettore (che si estende a quella del direttore amministrativo e di quella ulteriormente si rende responsabile) nessuna malintesa pietas per la vecchiaia e le "teste canute", nessuna futile considerazione di "opportunità", può indurci a giustificare o minimizzare le gravissime responsabilità di chi ha ricoperto per tredici anni la massima carica universitaria, ha ricevuto proteste e denunce, e nulla ha fatto per prevenire, come era suo preciso dovere, la catena di episodi culminati nella morte del giovane studente socialista.
La verità va detta a giovani e vecchi, a vivi e morti. E la verità è che il comportamento di quel rettore non è stato solo di inerzia e di tolleranza colpevole, ma ha avuto giustificazioni precise, come ha avuto appoggi legati alla vasta rete di interessi di potere privato e politico che avvolge paurosamente l’Università di Roma. La sua intervista del 5 maggio al "Rome Daily American" costituisce una presa di posizione gravissima ("mi sono costantemente opposto all’inserimento di elementi di sinistra nell’Università. Ma questa era la mia responsabilità quale capo di una università di Stato"!) piú della stessa miserevole insistenza sulla versione della morte di Paolo Rossi dovuta ad epilessia, fondata su di una cartella clinica che non porta la minima traccia di simile malattia. E la stessa tardiva e penosa smentita della propria intervista (a tredici giorni di distanza e sotto il peso della querela dei genitori di Paolo Rossi) è ancora elemento gravissimo per il giudizio su di un uomo a cui sono andati elogi e riconoscimenti destituiti di ogni onesta giustificazione. Ma tant’è. Ciò che importa a taluni è solo la squalifica dei "rossi" anche quando questi (come il giovane studente morto e la maggior parte degli elementi attivi nelle giornate romane) erano o senza partito o cattolici o socialisti, e appartenenti dunque ad un partito che è attualmente al governo.
Sulla base di queste verità (che tali non paiono solo a chi non vuol vederle e si preoccupa di tutt’altra cosa che la verità), si possono ricavare alcune considerazioni generali sulle reazioni e gli atteggiamenti presi da varie parti e correnti di opinione pubblica, dı politici e di uomini di cultura e di scuola. Poca attenzione meriterebbero le reazioni degli organi di stampa e degli stessi parlamentari del partito neofascista, che per lo piú si limitano a opporre ad ogni ragionamento espressioni sgrammaticate e balbettamenti insensati.
C’è però da osservare almeno guesto di fronte a loro, e agli organi qualunquistici e scandalistici di cui si ciba con voluttà morbosa la borghesia benpensante italiana. La massiccia campagna di diffamazione, scatenata contro gli uomini piú attivi dell’Università, ha uno scopo preciso (piú chiaro agli interessati qualunquisti e antidemocratici che non agli stessi insensati nazifascisti) non dissimile da quello per cui sono stati a lungo sostenuti l’ex-rettore e la violenza teppistica nell’Università di Roma.
Con questo attacco, come prima con l’azione del teppismo e l’azione di favoreggiamento di questo, si mira a bloccare un’azione che si teme, a ritardarne i tempi, a diminuirne le forze.
Prima si arrestava l’azione di discussione e promozione della riforma universitaria attirando le forze universitarie democratiche della capitale in una continua tensione di difesa contro il teppismo e il malgoverno universitario. Oggi si vuole diminuire la forza di sviluppo dell’iniziativa democratica e rinnovatrice impegnando uomini e gruppi (con una scelta tutta corrispondente alla stessa energia dimostrata da quelli) in una difesa della propria dignità e del proprio passato, cercando di squalificarli, se possibile, non tanto presso l’opinione dı destra, quanto presso i giovani, gli studenti stessi democratici, cercando di metterli fuori lotta ora puntando su di loro individualmente ora confrontando le singole storie dei viaggi lunghi o brevi "attraverso il fascismo" nell’accusa globale a quasi tutta una generazione, rea soprattutto di essersi, a vari livelli cronologici e con varia energia, distaccata dal fascismo, in cui era stata educata tra infiniti inganni e in quella falsificazione della verità che ora di nuovo si adopera nella polemica ricattatoria.
Alla fine è ben assurdo che coloro i quali, cresciuti in un paese pieno di fango, da cui poterono riportarne sporcate almeno le scarpe, fecero di tutto per ripulirsene e per ripulirne il proprio paese, ven gano ora accusati da parte di quelli che si adoperano in ogni modo per riportare nel nostro paese un fango anche peggiore di quello di prima.
Ma piú importante è discutere con ferma chiarezza la posizione per lo meno equivoca di quanti, in questi giorni, hanno rivolto moniti e rimproveri agli uomini e alle forze democratiche e rinnovatrici dell’Università, alla luce di una concezione dell’uomo di cultura, dell’intellettuale, dell’educatore e dei suoi doveri, che deve essere smascherata nella sua configurazione inaccettabile sia nella sua sostanza sia nel suo riferimento alla situazione attuale.
Mi riferisco a pubbliche prese di posizione di professori ordinari della stessa Università di Roma e ad articoli di uomini ed organi che non possono certo essere accomunati sic et simpliciter alla stampa scandalistica neofascista e qualunquista, anche se ad essa hanno offerto aiuti preziosi, contribuendo a confondere le idee sui rapporti fra cultura e politica.
Accanto ad ordini del giorno e comunicati emessi da alcune facoltà o da gruppi di professori romani. diretti ad una difesa del rettore, ad una falsificazione della verità di fatto, ad un’accusa docenti e studenti generosamente insorti contro la violenza fascista e i suoi sostenitori, si può distinguere quello di un gruppo di ordinari della Facoltà di Magistero che (votato in contrasto con un ordine del giorno della stessa Facoltà e prontamente dato alla stampa "indipendente") si presenta particolarmente insidioso per la stessa serenità e superiorità da cui si dichiara improntato.
Il tono della mozione è magnanimo ed autocritico dichiarando una corresponsabilità degli stessi firmatari nella tragica morte di Paolo Rossi "giacché evidentemente la loro opera educativa non ha raggiunto - almeno per la totalità dei discepoli come sarebbe stato ed è necessario - il suo scopo primo: quello di persuadere al rispetto della dignità e libertà propria ed altrui, e di far considerare ogni violenza come segno di immaturità e di inciviltà" e sostenendo, in altra parte del testo, che "il disinteresse alla vita comunitaria, che giunge in alcuni casi sino al sistematico assenteismo, da parte della grande maggioranza degli studenti e degli insegnanti, sia alle radici del male, giacché apre la via all’azione di gruppi faziosi e pertanto antidemocratici per definizione".
Ottimamente. Anche se i gruppi faziosi e la violenza non vengono - come si doveva - indicati con la parola che ad essi competeva (fascista) e se l’assenteismo di cui si parla non è solo quello di quanti non partecipano di fatto alla vita universitaria, ma anche quello di chi, pur variamente operando in quanto docente con lezioni e magari esercitazioni, non si è proposto il problema di un impegnativo rapporto educativo, non solo specialistico, con gli studenti.
Come se lo sono invece proposto e lo hanno esercitato proprio quei docenti che divengono il centrale obbiettivo polemico e denunciatario del docurnento, là dove i firmatari "credono loro dovere di manifestare il loro stupore e dolore per l’atteggiamento di alcuni pochi colleghi che, travalicando di molto l’adesione alla semplice occupazione delle Facoltà, hanno creduto di associarsi a chi opponeva alla violenza altre violenze". Quali altre violenze? Le azioni intese a dimostrare pubblicamente che l’unica violenza era quella delle squadre teppistiche, a promuovere l’interessamento del parlamento e del governo su di una situazione drammatica e assurda?
E che dei professori sentano il dovere di porsi a fianco dei loro studenti minacciati, aggrediti, in un primo tempo duramente trattati dalla polizia, che essi sentano il dovere di partecipare alle assemblee comuni di studenti, incaricati, assistenti a cui li legano l’interesse "comunitario", scientifico ed educativo, esponendosi agli oltraggi delle canaglie, alle rappresaglie di ogni genere e insieme rifiutandosi, con gli studenti, di usare qualsiasi forma di violenza, non può suscitare stupore e dolore se non in chi al fondo condivide l’idea del professore cui compete solo il dovere "scientifico" e risolve di fatto la sua missione educativa nel non intervenire, ne] chiudersi nella sua "purezza" scientifica per poi parlare genericamente di assenteismo e puntare sulla denuncia, ad ogni effetto, di quei "pochi" della cui precisa azione ha avuto notizia solo indiretta e tendenziosa. Questo non è l’ideale del professore e dell’intellettuale che hanno avuto ed esercitato uomini come Francesco De Sanctis, come Salvemini, come Calamandrei, come Russo e tanti altri che, a diverso livello di tempi, di situazioni, di forza personale, dettero alti esempi insieme di magistero scientifico e di magistero morale e politico. E non rifiutarono contatti, là dove era necessario, con quelle forze politiche che nello stesso documento vengono ammonite a tenersi lontane dall’Università.
Qui (e al di là di ogni possibile identificazione o diversificazione attuale dei singoli professori e di ogni schematizzazione che abbisogna sempre di precisazioni e gradazioni di giudizio) è il punto di discrimine fra i professori che si richiamano al De Sanctis e magari al Leopardi (il Leopardi poeta di supremi interventi e "Malpensante", come si definí nei Paralipomeni, supremo nemico di ogni evasione e di ogni "purezza" passiva e reazionaria) e i professori che si tengono nei limiti dell’insegnamento specialistico ammantandolo di parole solenni ed austere di dignità, di serenità, di missione educativa, esercitata, di fatto, a parole e smentita specie quando le situazioni impongono decisioni e posizioni attive. Lietissimi naturalmente se differenze pronunciatesi in queste giornate potranno ridursi entro ripensamenti piú meditati e in quella azione per la riforma universitaria su cui debbono concentrarsi le forze piú serie dell’Università.
Ma quali sarebbero i "chierici traditori" di cui si torna a parlare, fuori dell’ambito universitario, in questi giorni? Ecco (come ulteriore controllo di una concezione inaccettabile dell’educatore e dell’intellettuale che educa non educando, eludendo i suoi doveri verso la scuola e il paese, ignorando la realtà delle situazioni concrete e delle loro inevitabili implicazioni politiche) altre due prese di posizione che dimostrano l’urgenza di una discussione - qui appena iniziata - sul tema generale dell’intellettuale e dell’educatore, dei suoi doveri e dei suoi rapporti con la politica.
Una è (anche se non legata alla situazione universitarıa, quella del presidente Johnson, che ricevendo una laurea honoris causa ha tracciato il ritratto del "buon professore" che non deve "orientare", ma "chiarire", e che soprattutto non deve mai occuparsi di politica, accettando cosí di fatto la politica dei governi qualunque essa sia, anche quando essa - come notava Aladino sull’"Astrolabio" del 22 maggio - "si dimentica della Repubblica di Platone" e obbliga tanto piú gli intellettuali "a testimoniare contro la feccia di Romolo".
Poiché gli intellettuali non vivono nell’Olimpo, ma su di una terra intrisa di male e di sangue, una simile concezione è da rigettare recisamente come quella, cosí concorde nella sostanza, che nella "Fiera letteraria" del 12 maggio conclude un articolo non firmato (I volti della violenza) e pur cosí accettabile nella sua prima parte.
Nella prima parte infatti (con un consenso assai interessante alle nostre interpretazioni dei fatti da parte di un organo non certo di sinistra) si definiva lucidamente come assurda la versione della morte di Paolo Rossi quale "incidente" assimilandola ad altri "incidenti" della nostra triste storia nazionale: quelli di Matteotti, di Gobetti e di Amendola. Ma nella seconda, la mano abile dello scrittore, tutt’altro che inesperto di politica, porta per gradi a ben altre conclusioni da quelle che l’inizio poteva farci attendere (e cioè una coraggiosa denuncia dei "chierici" che non sentono i loro interi impegni educativi e lasciano i loro studenti isolati e senza punti di riferimento - magari polemico - nella concreta figura e presa di posizione dei loro docenti).
Vero e giusto l’invito all’esame di coscienza, vera e giusta l’indicazione della responsabilità dei "maestri" nell’educazione dei giovani ("professori che non sempre sentono di dover essere so prattutto dei maestri e di dover creare rapporti reali, concreti, diretti con la vita della scuola, con gli studenti"), vero e giusto almeno l’avvio sui pericoli delle organizzazioni studentesche a riprodurre nella vita universitaria null’altro che le formule dei partiti. Ma qui dalle verità accettabili e generali si passa a conclusioni assai discutibili. Come e soprattutto la conclusione secondo cui all’Università "i maestri" stanno abdicando alla loro funzione di guida, non insegnano piú le cose concrete del sapere, ma esortano piuttosto a sistemare il mondo di domani secondo questo o quel sistema politico che prevede, in pratica, l’uso della forza e la cancellazione della libertà, anche della libertà del sapere. È sempre dalla "trahison des clercs" che nascono le dittature".
Certo noi non amiamo il "chierico rosso o nero" della denuncia montaliana di Piccolo testamento e abbiamo sempre protestato ed agito in ogni caso concreto contro ogni asservimento, di tipo zdanovista o meno, della cultura all’autoritarismo e alla costruzione illiberale della società e dello stato.
Ma qui c’è un problema piú generale. Non è vero che le dittature nascono dalla trahison des clercs solo e soprattutto nel senso indicato dall’articolista della "Fiera letteraria". Anzi nel nostro paese la dittatura fascista è nata dalla trabison des clercs nel senso di una rinuncia di responsabilità etico-politica da parte degli intellettuali e degli educatori. Essa è stata aiutata potentemente dalle "società degli apoti" di prezzoliniana memoria, dal disprezzo di molti intellettuali per la politica e poi dal loro ruere in servitium, avidi di feluche e di spadini accademici, da certa stessa predicazione e pratica della "purezza scientifica e letteraria, dal silenzio di tanti maestri sui problemi storici e civili. Né è giusto contrapporre come salutare un simile atteggiamento solo perché si pensa (come certo fa l’articolista della "Fiera") alla paventata "dittatura comunista". Perché, pensando anche a quella ipotesi, per gli educatori e gli intellettuali non si pone il problema di un assoluto disimpegno, di un rifugio nelle "cose concrete del sapere" (e sono poi concrete queste cose se mancano di un orientamento e di un nesso generale con i problemi della vita e della storia?), bensí quello di un piú profondo impegno (parola svalutabile solo nella sua accezione piú esterna e rozza), di una piú profonda chiarezza di prese di posizione. Chi vive da decenni nell’Università sa che i giovani migliori, quelli che saranno i maestri di domani, vogliono insieme dai loro insegnanti verità e coraggio di verità, sicurezza scientifica e offerta di orientamento generale, su cuí poter discutere, consentendo o dissentendo; vogliono ed amano insegnanti che non si nascondono sotto l’impenetrabilità della dignità scientifica e accademica e che, quando le situazioni lo chiedono, testimoniano di persona e con i fatti sulla coerenza delle loro idee e della loro missione educativa.
È da qui che dovrebbe cominciare un discorso piú complesso sui rapporti fra politica, cultura e scuola, come può essere svolto da un intellettuale socialista liberissimo e proprio perciò non privo di un doveroso senso di responsabilità politica e civile. Credo di averne indicato alcuni agganci iniziali entro le occasioni non pretestuose di una polemica, primo momento di un esame che pur di quella necessitava: cosí come l’azione per la riforma universitaria necessitava di una battaglia decisa contro le forze che ne bloccavano ogni proficuo sviluppo.
 

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Un telegramma di Ferruccio Parri (1966)

Nei giorni successivi al funerale di Paolo Rossi, la destra neofascista e collusa con gli ambienti fascisti si scatena: sostenendo che la morte di Rossi sia dovuta ad un banale incidente provocato da una sua presunta malattia, in un'interrogazione parlamentare il fascista Caradonna reclama sanzioni disciplinari contro i docenti che, in particolare Binni, hanno "istigato all'odio politico"; di fronte a ripetute minacce di morte, a Binni viene imposta - per circa un mese - una scorta di polizia. La radicalità del discorso funebre di Binni crea malumori anche negli ambienti democratici moderati. Contro questo clima reazionario ed equivoco interviene Ferruccio Parri, massimo rappresentante della Resistenza.

Federazione Italiana Associazioni Partigiane sente dovere testimoniare amico Binni inalterata affettuosa stima che Resistenza habet per valoroso compagno lotta liberazione e testimonianza ammirazione per discorso recente Università di Roma.
Ferruccio Parri Presidente
Lamberto Mercuri Segretario nazionale


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"A sette mesi dalla morte di Paolo Rossi" (1966)


Nel numero di novembre-dicembre della rivista "La conquista", mensile dei giovani socialisti romani, Binni insiste. Il testo non è mai stato ripubblicato.

Circa sette mesi fa, il 28 aprile, moriva all'Ospedale di S.Giovanni, appena ventenne, Paolo Rossi, studente del primo anno di Architettura, rappresentante della lista dell'UGI (Unione Goliardica Italiana, ndr), iscritto alla Federazione Giovanile Socialista. Moriva per la caduta da un muretto alto pochi metri in seguito ad un malore causato da percosse ricevute (come ormai si va sempre più chiarendo in base a testimonianze e documenti, raccolti dalla famiglia) durante un'aggressione a studenti democratici da parte di elementi nazifascisti specializzati ed attivi da tempo nel più brutale pestaggio dei loro avversari.
Durante quell'aggressione Paolo Rossi si era trovato nella mischia soprattutto (come dimostra chiaramente una delle fotografie scattate in quell'occasione dal fotografo Mordenti) nell'intenzione di trattenere i suoi compagni dal rispondere alle provocazioni fasciste, convinto, com'egli era, della superiorità del metodo della persuasione e del civile confronto rispetto a quello della violenza, della sopraffazione fisica, e non perciò meno persuaso della intollerabilità della sopravvivenza appunto di metodi e di atteggiamenti che più di vent'anni prima avevano subìto la sanzione di una sconfitta definitiva nella guerra di liberazione e nella Resistenza.
Agli ideali dell'antifascismo, della Resistenza, della Costituzione democratica egli era stato educato nel seno di una famiglia cattolica-democratica che aveva partecipato alla Resistenza. E a quegli ideali egli aveva tenuto fede approfondendoli personalmente con una volontà di partecipazione alla causa della giustizia sociale e del rinnovamento civile del nostro paese che lo aveva condotto ad aderire al Partito socialista e alle sue organizzazioni giovanili politiche e studentesche.
E' per tutto ciò che noi ricordiamo e piangiamo ancora la sua morte, la sua giovane vita stroncata nel momento più luminoso del suo sviluppo (quando si apriva sempre meglio a impegni culturali, civili, umani con impetuosa freschezza) non solo come ogni morte precoce, come ogni scomparsa di giovani - in ogni caso crudelmente rapiti agli affetti e all'esercizio dei valori, quando questi in loro sono più puri ed entusiastici - ma come una morte tanto più crudele e insieme tanto più degna di attivo ricordo, perché dovuta non alla malattia e al caso, ma ad una violenza pertinace, stolta e malvagia, e alle circostanze ben precise che permisero a quella violenza di pronunciarsi e di esercitarsi indisturbata e addirittura favorita.
Ciò che in ogni caso, nessuna persona onesta e intelligente può dimenticare è appunto il contesto preciso in cui quella morte avvenne (attività illegale e anticostituzionale di bande teppistiche neofasciste nell'Università di Roma e colpevole tolleranza o favoreggiamento di quella da parte delle autorità accademiche e degli organi preposti alla tutela della legge e della Costituzione) e che fu ben avvertito dalla stessa maggioranza governativa se essa, a conclusione di un lungo dibattito parlamentare su quella morte e sulle vicende dell'Università di Roma, si accordò su di un ordine del giorno inequivoco nel denunciare "l'anormale situazione che per le violenze fasciste si è venuta a determinare nella Università di Roma".
Alla luce di quella diagnosi, che molti degli stessi professori e studenti dell'Università di Roma precisarono energicamente e con documenti inoppugnabili, la morte di Paolo Rossi non può in alcun modo essere ridotta ad un caso incidentale, insignificante e slegato dalla intollerabile situazione generale in cui essa avvenne.
Lo ha autorevolmente, per tutti noi, ribadito pochi giorni fa, a Tribuna politica il compagno De Martino nella sua sdegnata risposta ad un giornalista di destra (illustratosi a lungo nella campagna di diffamazione e alterazione della verità in vari organi di stampa di cui la destra abbondantemente dispone): "Nego assolutamente che negli episodi che lei riporta vi sia stata una speculazione e nego anche che sia stata una pura e semplice disgrazia. La Magistratura può dire quello che crede giusto dire sul piano giudiziario. Noi diamo un giudizio politico. Se lei chiama disgrazia il fatto che un pmovero ragazzo di diciannove anni, che si trova in mezzo a tumulti e violenze all'interno dell'Università, e lì, magari anche per caso, cade e perde la vita, se lei la definisce disgrazia, io la definisco un delitto politico, ricollegandolo al clima che si era creato nell'Università di Roma, all'intolleranza non certo della sinistra, ma di elementi di destra, che ha creato poi le premesse per quelle conseguenze, e che è costata la vita, ancora una volta, a un giovane socialista" ("Avanti!", 7 ottobre 1966).
Ma va aggiunto, a completamento della risposta di De Martino, che il più assillante e spregiudicato esame dei fatti non può non indurci a confermare il carattere non casuale di quella morte. Infatti le fotografie di quella tragica mattina e le testimonianze di tre studenti, che conoscevano Paolo ed erano dunque in condizione di individuarlo durante l'aggressione fascista, ci confortano nella versione delle percosse come causa della sua caduta (la versione degli avvocati e dei periti della famiglia Rossi). E invece nulla prova la presunta malattia di Paolo a cui ostano d'altra parte le infinite testimonianze sulla sua buona salute, sulla sua attività di rocciatore, scalatore, che lo avevano fatto scegliere dai suoi professori fra i giovani adatti a rilievi sulle parti più alte e pericolose di S. Giorgio in Velabro.
Sono queste le ragioni che hanno motivato (insieme alle perizie) la richiesta degli avvocati dei Rossi per una istruttoria formale e che ci danno tanto più il diritto e il dovere di contestare energicamente sia le notizie singolarmente "fuggite" dagli ambienti giudiziari in merito ad una richiesta di archiviazione da parte del Procuratore (e poi in merito ad una archiviazione del Giudice Istruttore che immediatamente si è dimostrata invece non avvenuta), sia la lunga campagna di stampa di destra e "indipendente", intesa, da una parte, a isolare la morte di Paolo dalle circostanze in cui è avvenuta e, dall'altra, a risolverla nell'incidente dovuto alla presunta malattia.
E' qui che il discorso dovrebbe ampliarsi a dismisura sui metodi e le ragioni di quella campagna che, inizialmente promossa dai più direttamente interessati, è stata poi raccolta e rilanciata da tutti gloi organi e settimanali, centrali e periferici, del qualunquismo e "benpensantismo" italiano.
Lo spazio non mi permette di svolgere qui tale discorso amarissimo ed estremamente significativo per la bassezza, la spregiudicatezza faziosa di tanta stampa italiana e per i suoi rapporti con forze precise e con un settore dell'opinione pubblica più proclive a gustare notizie scandalistiche sui partiti e sugli uomini democratici che a cercar di capire la verità dei fatti e il loro significato.
A noi, per amore della verità, per il dovere contratto con il giovane compagno morto, per il dovere perenne di una lotta democratica mai esauribile, spetta di non cedere all'amarezza degli oltraggi, al senso di disgusto che si prova di fronte ad una campagna di stampa così chiaramente falsa, deformatrice, profondamente antidemocratica per contenuti e metodi.
Spetta a noi di condurre avanti, senza opportunismi e remore falsamente prudenziali, una battaglia democratica e civile che, mentre mira a stabilire la verità di fatto sulla morte di Paolo Rossi, non può insieme non mirare a chiarirne i nessi sociali e politici con una situazione più vasta e pericolosa, a colpire i settori che di quella situazione e della stessa campagna di stampa sono stati e sono interessati sostenitori, a sollecitare le forze democratiche ad una assidua vigilanza, ad una estrema chiarezza di intenti, ad una azione energica di fronte al complesso panorama di interessi, di connivenze, di antidemocratica volontà che la morte di Paolo Rossi e la lunga polemica che ne è seguita, ci hanno ancor meglio rivelato.
Noi non chiediamo vendette e violenza (parole di un vocabolario non nostro e indegne del giovane puro che qui ricordiamo), non chiediamo sopraffazioni e alterazioni della verità da contrapporre a chi ne fa la stessa ragione della propria vita meschina e rattratta. Chiediamo però giustizia, verità, rispetto e realizzazione delle leggi costituzionali, come elementi di una decisa lotta contro un mondo vecchio e duro a morire, contro concezioni (se tali possono dirsi) che non hanno diritto di cittadinanza in una società democratica. Perché rifiuto della violenza e fede nella forza delle idee non voglion dire indulgenza inerte e accettazione passiva. Anzi lo stesso amore che proviamo per ogni creatura umana non può non essere severo ed esigente, non può mancare mai di giudizio e attiva presa di posizione su fatti, idee e comportamenti. Altrimenti esso diventa una falsa, sbagliata pietà che lascia i mali e i veleni circolare pericolosi nel corpo della nazione, che lascia le cose come stanno e come vorrebbero che stessero le forze conservatrici.
Per questa sete di giustizia e di verità, per questo inesausto sdegno morale e civile, noi dobbiamo a Paolo Rossi e a noi stessi, al nostro paese e al nostro partito l'impegno di non interrompere la battaglia democratica e antifascista per cui e in cui Paolo Rossi è morto, e in cui si inserisce la lotta per il chiarimento delle circostanze della sua morte e per la giustizia che ad essa va resa.
Come potremmo altrimenti pensare a lui, a lui morto e perduto alla vita? Come potremmo sentirci in pari con lui e con la nostra coscienza?
I morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si possono lasciare alla solitudine del sepolcro. I morti ci chiedono di vivere attraverso l'onore concreto che a loro rendiamo proseguendo la lotta per le ragioni che li condussero alla morte. Non è vero che essi chiedono di essere lasciati nella pace del sepolcro e dell'oblio. Non è vero che essi chiedono di essere posti "al di sopra della mischia". Vogliono, comandano, invece, di vivere nella prosecuzione della lotta in cui sono caduti.
Perciò a Paolo Rossi, in questa ricorrenza, promettiamo ancora una volta di averlo vivo con noi, di batterci per la verità e il significato della sua morte, di proseguire la lotta per cui egli morì, senza odio, ma senza indulgenza, senza violenza, ma senza viltà, affinché dal nostro paese siano cancellate le vergogne che resero possibile il suo sacrificio, affinché gli ideali di democrazia e di socialismo in cui credeva divengano forze e forme effettive della società italiana.


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Da una lettera di Aldo Capitini (1967)


Da una lettera del 26 agosto 1967. Il colloquio tra Capitini e Binni, iniziato negli anni '30, si sta avviando alla sua conclusione. Capitini morirà nell'autunno del 1968, rimanendo una voce centrale di riferimento - "compresente" - per l'amico fraterno.

Questa mattina che è di domenica ho rivissuto un'altra simile di luglio: non hai idea della bellezza di tutte le campane e piccole campane che suonano in questa grande conca verso il cimitero ed Assisi: tutta la parte Est della città. Se uno si mettesse alle 6 a Favarone e stesse lì fin verso le 10 si godrebbe una grande cosa. Io non la conoscevo.
Tra me e me discorro con te, e anche del o col Leopardi, insieme, noi tre. Spesso mi torna in mente di fare un quadro sintetico di questo secolo in Italia, con la grande morsa anticattolica a due bracci, quello del Croce per gli intellettuali (Gramsci ha detto che dopo del Croce molti intellettuali non potranno tornare cattolici), e quello del Gramsci e dei comunisti a un altro livello. Un'utile morsa, indubbiamente. Ma ora che si delinea nel mondo la scelta guerriglia o no, c'è il bisogno che si delinei in Italia una certa consistenza della scelta pura nonviolenta, dal basso e rivoluzionaria in religione: solo allora potrò scrivere il quadro perché si vedrà il posto e il limite di Salvemini, ma anche perché i miei temi vengono a contare ora. E allora si capisce il primo decennio del secolo, ma ora. Il mio compito mi pare sia stato e sia questo (se ce la farò! Se no, faranno altri).

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"Estremo commiato" (1968)

Sono le parole pronunciate da Binni ai funerali di Aldo Capitini, a Perugia, il 21 ottobre 1968. Il testo è stato poi raccolto nel volume La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri (1983 e successive edizioni).

Queste inadeguate parole che io pronuncio a nome degli amici più antichi e più recenti che Aldo Capitini ebbe ed ha, per la sua eccezionale disposizione verso gli altri, vorrebbero più che essere un saluto estremo e un motivato omaggio alla sua presenza nella nostra storia privata e generale, costituire solo un appoggio, per quanto esile e sproporzionato, ad una tensione di concentrazione di tutti quanti lo conobbero e lo amarono: tutti qui materialmente o idealmente raccolti in un intimo silenzio profondo che queste parole vorrebbero non spezzare ma accentuare, portandoci tutti a unirci a lui, nella nostra stessa intera unione con lui e in lui, unione cui egli ci ha sollecitato e ci sollecita con la sua vita, con le sue opere, con le sue possenti e geniali intuizioni. Certo in questo "nobile e virile silenzio" suggerito, come egli diceva, dalla morte di ogni essere umano, come potremmo facilmente bruciare il momento struggente del dolore, della lacerazione profonda provocata in noi dalla sua scomparsa? In noi che appassionatamente sentiamo e soffriamo l’assenza di quella irripetibile vitale presenza, con i suoi connotati concreti per sempre sottratti al nostro sguardo affettuoso, al nostro abbraccio fraterno, al nostro incontro, fonte per noi e per lui di ineffabile gioia, di accrescimento continuo del nostro meglio e dei nostri affetti più alti. Quel volto scavato, energico, supremamente cordiale, quella fronte alta ed augusta, quelle mani pronte alla stretta leale e confortatrice, quegli occhi profondi, severi, capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri cuori ed intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso fraterno e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma così carico di intima forza di persuasione quella voce dal timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino alle sue minime vibrazioni.
Tutto ciò che era suo, inconfondibilmente e sensibilmente suo, ora ci attrae e ci turba quanto più sappiamo che è per sempre scomparso con il suo corpo morto ed inanime, che non si offrirà mai più ai nostri incontri, al nostro affetto, nella sua casa, o in questi luoghi da lui e da noi tanto amati, su questi colli perugini, malinconici e sereni, in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci sembrano improvvisamente privati della loro bellezza intensa se da loro è cancellata per sempre la luce umana della sua figura e della sua parola.
E ognuno di noi, certo, in questo momento, è come sopraffatto dall’onda dei ricordi più minuti e perciò più struggenti quanto più remoti risorgono dalla nostra memoria commossa in quei particolari fuggevoli e minimi che proprio dalla poesia del caduco, del sensibile, dell’irripetibile, traggono la loro forza emotiva più sconvolgente e ci spingerebbero a rievocare, a recuperare quel particolare luogo di incontro, quella stanzetta della torre campanaria in cui un giorno - quel giorno lontano - parlammo per la prima volta con lui, o quella piazzetta cittadina - quella piazzetta - in cui improvvisamente lo vedemmo illuminato dalla gioia dell’incontro inatteso, o quel colle coronato di pini in cui insieme ci recammo con altri amici.
E ognuno di noi ripensa certo ora alla propria vicenda e al segno pro fon d o lasciatoci dall’ incontro con Capitini, fino a dover riconoscere - il caso di quanti furono giovani in anni lontani - che essa sarebbe per noi incomprensibile e non ricostruibile come essa si è svolta, senza l’intervento di liu, senza la sua parola illuminante, senza i problemi che lui ci aiutò ad impostare e a chiarire, spesso contribuendo a decisive svolte nella nostra formazione e nella nostra vita intellettuale, morale, politica.
Ma appunto proprio da questo, dalla considerazione dell’immenso debito contratto con lui, dalla nostra gratitudine e riconoscenza per quanto, con generosità e disponibilità inesauribile, egli ci ha dato, veniamo riportati - al di là del nostro dolore che sappiamo inesauribile e pronto a risorgere ogni volte che ci colpirà un’immagine, un’eco, una labile traccia della sua per sempre scomparsa consistenza concreta - a quel momento ulteriore della nostra unione con lui che in occasione della sua morte, e soprattutto dalle sue parole e dalle sue opere abbiamo appreso a considerare come l’apertura del "muro del pianto", della buia barriera della morte.
Perché qualunque siano attualmente le nostre diverse prospettive ideologiche, esistenziali, religiose o non religiose (e così, coerentemente, pratiche e politiche), una cosa abbiamo tutti, credo, da lui imparata: la scontentezza profonda della realtà a tutti i suoi livelli, la certezza dei suoi limiti e dei suoi errori profondi, la volontà di trasformarla, di aprirla, di liberarla.
È qui che il ricordo e il dolore si tramutano in una tensione che ci unisce con Aldo nella sua più vera presenza attuale, nella sua non caduca presenza in noi e nella storia, e ci riempie di un sentimento e di una volontà quale egli ci chiede e ci comanda con tutta la sua vita e la sua opera più persuasa di combattere per una verità non immobile e ferma, ma profonda ed attiva, concretata in quella prassi conseguente di cui egli sosteneva proprio in questi ultimi giorni, parlando con me, l’assoluto primato.
Il morto, il crocifisso nella realtà, come egli diceva, suggerisce infatti insieme il senso della nostra limitatezza individuale in una realtà di per sé ostile e crudele (quante volte abbiamo insieme ripetuto i versi di Montale con il loro circuito chiuso: "la vita è più vana che crudele, più crudele che vana!") e la nostra possibilità o almeno il nostro dovere di tentare di spezzare, di aprire quella limitatezza, di trasformare la realtà, dalla società ingiusta e feroce alla natura indifferente alla sorte dei singoli e al loro dolore. Lì è il punto in cui convergono tutte le folte componenti del pensiero originalissimo di Capitini: il tu e il tu-tutti, il potere dal basso e di tutti, la nonviolenza, l’apertura e l’aggiunta religiosa. Lì convergono in una profonda spinta rinnovatrice le idee, le intuizioni (tese da una forza espressiva che tocca spesso la poesia), gli atteggiamenti pratici di Capitini.
Non accettare nessuna ingiustizia e sopraffazione politica e sociale, non accettare la legge egoistica del puro utile, non accettare la realtà naturale grezza e sorda, e opporre a tutto ciò una volontà persuasa del valore dell’uomo e delle sue forze solidali e arricchite dalla "compresenza" attiva dei vivi e dei morti, tutte immesse a forzare ed aprire i limiti della realtà verso una società e una realtà resa liberata e fraterna anzitutto dall’amore e dalla rinuncia alla soppressione fisica dell’avversario e del dissenziente, sempre persuasibile e recuperabile nel suo meglio, mai cancellabile con la violenza.
Di fronte a questo sforzo consapevole e ai modi stessi della sua attuazione e della sua configurazione precisa alcuni di noi possono essere anche dissenzienti o diversamente disposti e operanti, ma nessuno che abbia compreso l’enorme portata della lezione di Capitini può sfuggire a questo nodo centrale del suo pensiero, nessuno può esimersi di dare ad esso adesione o risposta, tanto esso è stringente, perentorio, come perentoria è insieme la lezione di intransigenza morale e intellettuale di Capitini, la sua netta distinzione di valore e disvalore, la severità del suo stesso amore, pur così illimitatamente aperto e persuaso del valore implicito in ogni essere umano.
Proprio per questo amore aperto e severo, questa nostra unione in lui e con lui - in presenza della sua morte - non può lasciarci così come siamo di fronte alle cose e di fronte a noi stessi, non può non tradursi in un impegno di suprema lealtà, sincerità, volontà di trasformazione.
Capitini fu un vero rivoluzionario nel senso più profondo di questa grande parola: lo fu, sin dalla sua strenua opposizione al fascismo, di fronte ad ogni negazione della libertà e della democrazia (e ad ogni inganno esercitato nel nome formale ed astratto di queste parole), lo fu di fronte ad ogni violenza sopraffatrice, in sede politica e religiosa, così come di fronte ad ogni tipo di ordine e autorità dogmatica ed ingiusta (qualunque essa sia), lo fu persino, ripeto, di fronte alla stessa realtà e al suo ordine di violenza e di crudeltà. Questo non dobbiamo dimenticare, facendo di lui un sognatore ingenuo ed innocuo, e sfuggendo così alle nostre stesse responsabilità più intere e rifugiandosi nel nostro cerchio individualistico o nelle nostre abitudini e convenzioni non soggette ad una continua critica e volontà rinnovatrice.
Forse non a tutti noi si aprirà il regno luminoso della realtà liberata e fraterna nei modi precisi in cui Capitini la concepiva e la promuoveva, ma ad esso dobbiamo pur tendere con appassionata energia.
Solo così il nostro compianto per la tua scomparsa, carissimo, fraterno, indimenticabile amico, diviene concreto ringraziamento e risposta alla tua voce più profonda: solo così non ti lasceremo ombra fra le ombre o spoglia inerte e consunta negli oscuri silenzi della tomba e proseguiremo insieme, severamente rasserenati - come tu ci hai voluto - nel nostro colloquio con te, con il tuo tu-tutti, attuandolo nel nostro faticoso e fraterno impegno di uomini fra gli uomini, come tu ci hai chiesto e come tu ci hai indicato con il tuo altissimo esempio.


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da Italo Viola, Critica letteraria del Novecento (gli studi dello stile e della poetica), Mursia, Milano 1969


Dal capitolo "Walter Binni".

La prima definizione della "poetica" si legge nell'introduzione dello studio sul decadentismo: è l'incipit del primo volume, e indica "essenzialmente" la "consapevolezza critica che il poeta ha della propria natura arttistica", l'"ideale estetico", il "programma" del poeta, "i modi secondo i quali si propone di costruire". Questa definizione assomma fatti essenzialmente culturali: volta, nello stesso proporsi, allo studio dei poeti, ritaglia nella realtà, diciamo pure nel "quadro storico", una natura letteraria: letteraria nel senso più ampio, è, ovviamente, la natura artistica di cui il poeta ha consapevolezza, letterari il programma e i modi operativi, letterarie le forme di cui si riveste l'ideale estetico. Beninteso che seguitiamo a parlare della "poetica", perché non vogliamo dire plateali ovvietà, come che letteraria è l'opera degli scrittori: vogliamo invece dire che la prima definizione di poetica elaborata dal Binni mette la poesia in rapporto con la storia attraverso lo spessore di questa che a quella è più prossimo, si dica pure che lo studio si applica a una materia contigua alla poesia, agli spazi superficiali della storia. S'intenda questo aggettivo, superficiali, in senso puramente morfologico. E' convenzione degli studiosi di psicologia rappresentare la psiche come una costruzione conica con molti piani sotterranei: i pochi emergenti sono quelli della vita cosciente, il subconscio e l'inconscio sono i piani affondati nelle cavità della terra. Si rappresenti con simile immagine anche la storia di un'attività e di un atto. Più vicini alla poesia, in evidenza, saranno gli atti culturali, "grammaticalmente isolabili": ideale estetico, programma e modi operativi. Orbene la definizione di poetica del Binni abbraccia ora i piani della coscienza che stanno in superficie: i piani della "consapevolezza critica"; e abbraccia i piani della storia corrispondenti: quelli morfologicamente contigui al valore. A parte i riferenti di subconscio ed inconscio, l'immagine ci pare efficace, anche perché consente di arguire uno sviluppo e un approfondimento della nozione e del metodo, o, in altri termini, non lascia supporre nel progresso superamenti o revisioni e smentite più o meno estese, centrali o marginali. Ci pare che la situazione sia proprio questa: il Binni ora vede il lavoro e la materia in una prospettiva, e avanza in questa prospettiva; naturalmente quello che tace o non rileva costituisce un limite obiettivo del suo lavoro; ma quello che dice e pone in evidenza non è astratto o irrelato: afferma, già nel porsi, parti e strutture lasciate in ombra: come particolare struttura o membro vivente, afferma in sé l'organismo che non si vede. Il progresso del metodo e del lavoro del Binni sarà soprattutto un collocare nella luce ciò che era nascosto, sotterraneo, un fare esplicito l'implicito, appunto un approfondire e uno sviluppare: che è praticamente incominciare e crescere nella "consapevolezza critica" o generare e maturare nella critica la coscienza di se stessa. Ora il limite contingente quanto naturale del lavoro che si fa discorso consiste soprattutto nel non vedere e quindi nel tacere e nel non realizzare alcune possibilità che appartengono al metodo essenzialmente, nel non distendere tutte le strutture del lavoro. Ma la situazione contraria sarebbe speciosa: la critica è ricerca che si fa giudizio e coscienza, se si vuole è modo di progredire nella conoscenza, "metodo", appunto: non è mai certezza totale, si oppone per natura all'immobilità del teorema filosofico e al dogmatismo. Tutta la storia della critica italiana dopo Croce può anche essere intesa come una storia di reazioni ed opposizioni alla fissità del sistema, che si oppone, senza tuttavia poterla negare, alla critica come continuo conoscere, e fonda la critica come teoresi, la quale si compie sostanzialmente e in modo definitivo nel giudizio di valore, cui seguono, ma non necessariamente, i momenti e i modi pedagogici della descrizione e spiegazione. Il Binni stesso asserisce che in quel suo primo volume si trovano le premesse del suo "successivo svolgimento"; noi prendiamo il discorso come ci pare che il Binni lo pensi nel pronunciarlo: alla lettera. Conosciamo lo sviluppo della nozione di poetica e dello studio, e ci pare che sia contenuto come possibilità nella prima enunciazione dell'una e nel primo aspetto o modo dell'altro.
In una pagina della dichiarazione metodologica più recente - che è anche la più costruita e l'unica fatta dal Binni al di fuori delle occasioni del lavoro e quindi non è momento chiarificatore e organizzatore di una ricerca, ma ripensamento di tutto il lavoro e del metodo - leggiamo una definizione rielaborata, per la quale la poetica si presenta come il "connettivo" che "raccoglie e commuta in coscienza, volontà e direzione artistica, la complessa vita personale-storica dei poeti e le spinte tensive vitali e culturali delle varie epoche letterarie". Anche la parola "dichiarazione" va presa alla lettera: nelle pagine è un continuo chiarire le strutture e i risultati del lavoro, così che anche il discorso definitorio continuamente varia e si arricchisce, mettendo a fuoco ora un aspetto o momento ora un altro. Insomma nella "dichiarazione" la nozione e il metodo sono guardati e interpretati da più punti prospettici: e accanto alle proposizioni definitorie sopra riportate ne potremmo mettere molte altre, lette in altre pagine dello scritto. Ma per ora ci basta la citazione fatta: rechiamo le proposizioni di questa in raffronto con quelle della prima definizione per fermare un'idea, sia pure approssimativa, del senso e delle misure assunte dallo "svolgimento". Si è compiuta una penetrazione della materia, tutte le dimensioni su cui opera la ricerca sono ingrandite, è ampliato lo spazio di questa e della conoscenza, è cresciuto e si è addensato lo spessore della storia connesso da un "vivo rapporto" con la poesia; insomma, lo schema dell'attività è più ampio e articolato: ma alcune sue linee continuano lo schema del primo lavoro, e le altre, quelle nuove, partono da punti compresi in questo schema. Il movimento dello studio, e del discorso metodologico che man mano lo riflette, dalle dimensioni culturali e storico-letterarie a quelle storico-sociali, il distendersi del metodo ad esplorare una materia sempre più vasta e più ricca comportano naturalmente innovazioni e correzioni: di fatto il primo schema ne ha subito. Ma ogni correzione e innovazione è maturata e si è determinata proprio come un aspetto dello sviluppo metodico: in prospettive più ampie alcuni luoghi e punti di riferimento rientrano in ombra, altri emergono e adunano e organizzano la ricerca, gli stessi problemi si presentano sotto nuovi aspetti. Quel che si vuol dire è che la correzione o l'innovazione si compie sempre per una naturale crescita del metodo nelle strutture e nelle possibilità operative, parallela al crescere dell'esperienza - come materia, come conosciuto e specialmente come forma, come conoscere - e parallela al crescere della consapevolezza critica: il metodo ha uno sviluppo e una storia, e presenta anche qualche aggiustamento e correzione opportuna, ma le istanze e le ragioni che l'hanno fondato non ricevono smentite, anzi si approfondiscono e si accertano in una organizzazione sempre più robusta e articolata del lavoro. A nostro parere il primo volume contiene "in nuce" lo studio di poetica del Binni: non nella forma di un discorso sull'essenziale o di un "progetto" dell'essenziale - non leggiamo infatti le pagine della ricerca storico-letteraria come applicazioni esemplari, intenzionate o meno, dei postulati teorici e delle enunciazioni metodologiche -, ma in concreto, come momento storico, come atto iniziale e fondazione. La ricerca è "in nuce" non nella sfera riflessa delle sintesi o delle proposte, ma nella realtà, che è rappresentata dal tessuto e dalle strutture embrionali di quel primo studio: nella concreta e parziale forma assunta per prima, nell'aspetto primamente prodotto, è sostanzialmente contemplata per intero.

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Una lettera a Eugenio Montale (5 giugno 1972)

Il 5 giugno 1972 Walter Binni scrive a Montale una lettera con cui lo ringrazia per la copia con dedica del Diario del '71 inviatogli dal poeta a Natale del 1971.

Lido di Camaiore, 5 giugno 1972

Caro Montale,
come scusarmi dell'enorme ritardo con cui ti ringrazio dell'invio di Diario del '71 e della dedica affettuosa, graditissima?
Il fatto è che le cose più care si rimandano tanto più a lungo delle faccende che non impegnano affetto e attenzione. E il tuo ultimo volume l'ho letto e riletto tante sono le implicazioni, tanti i suggerimenti che comporta in un ammiratore schietto e disinteressato (e cioè dunque "interessatissimo"!) della tua poesia, che è al centro, sempre, della mia riflessione sulla poesia contemporanea e sulla poesia tout court (insieme, lo sai, a quella di Leopardi, di Holderlin, di Vigny e di pochi altri maestri-compagni della mia vita modesta, ma inquieta: sì che potrei ripetere, scusandomi dell'avvicinamento, "mai fu gaio - né savio né celeste il mio saper".
Penso che nella nuova edizione, in lenta preparazione, del mio libretto Poetica, critica e storia letteraria utilizzerò molto il tuo Diario '71 sia per le pagine che in quella proposta metodologica dedicavo a te sia in generale per certe mie osservazioni sulla poesia e sui poeti (Il poeta, Positivo e Negativo, La mia musa, Lettera a Malvolio, Il dottor Schweitzer) e sull'intervento storico della poesia.
Insomma, il mio profondo interesse per la tua opera è sempre sollecitato da quanto pubblichi anche se le tue posizioni pratico-politiche (il tuo passaggio al gruppo senatoriale liberale) sembrano voler dar ragione (e certo, permetti, me ne dispiace) alle diagnosi del mio allievo Umberto Carpi, ma per me in un modo che va inteso in maniera tutta particolare, a suo modo intraducibile in "immediate" relazioni ed equazioni vita-poesia, ideologia-poesia.
Se non ti darò troppa noia, una volta che sia sicuro di trovarti al Senato, ti cercherò lì e ti verrò a fare qualche domanda anche su punti dolenti della posizione civile cui sopra accennavo: certo tu seguiti a rispondere con la tua poesia (e ciò è quello che più importa), ma sarò lieto se mi permetterai di essere con te - in un colloquio amichevole - anche un po' indiscreto e non illegittimamente interessato a qualche spiegazione tua; dato che non condivido l'opinione di un vecchio storico, Roberto Cessi, il quale a proposito del Foscolo e delle sue posizioni politiche affermava, senza ombra di dubbio: "xè un poeta; el pol dir, el pol far quel che vol, no m'interessa…"
Scusami per questa anticipazione di un interrogatorio (?) che - se ti infastidirà - potrà non aver luogo e prendilo per quel che è più veramente: prova di un interesse profondo di un tuo ammiratore, studioso ed amico.
Ancora grazie e saluti ed auguri affettuosi
dal tuo

Walter Binni


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"Professione reporter di Antonioni"

Articoli pubblicati nel numero 245, gennaio-febbraio 1977, della rivista "Cinema Nuovo" diretta da Guido Aristarco, poi raccolti nel volume Poetica e poesia (1999).


"Professione reporter di Antonioni"

L’autodistruzione sostanziale (pur nell’apparenza della ricerca di una diversa vita) in cui culmina l’"avventura" di Locke mi sembra ben interessante e attuale e vivamente sollecitante anzitutto proprio in se stessa, in quanto il viaggio verso la rinuncia dell’identità precedente e verso la morte è condotto con maturi moduli e ragioni interne della poetica di Antonioni nei suoi esiti ultimi, in una maniera di poesia conoscitiva e problematica propria di questo grande regista. Né poi, a ben guardare, e pur senza isolatamente ipervalutarli, mancano nel viaggio di Locke acuti segnali politici e sociali propri del nostro tempo, espressivamente risolti, e agganci a problemi su cui il fılm fa "riflettere" lo spettatore: i problemi propri del reporter e del suo "documentare" che la società capitalistica vuole neutro e a cui Locke si ribella, i problemi più fondi del rapporto fra solitudine e diversi raccordi dell’individuo con la società, voluti, non voluti, subiti, desiderati, i problemi dei rivoluzionari in cerca di armi, i problemi dell’Africa fra rivoluzione e tirannide, e i problemi di una Spagna desolata.
Ma il fondo del mio interesse di pessimista rivoluzionario per questo fılm, e in genere per la produzione di Antonioni - tanto intellettuale quanto artisticamente sapiente fıno a un’esasperata specificità - è proprio la maniera lucida e, ripeto, valida artisticamente, con cui questo intellettuale-regista fa vedere problemi propri dell’uomo attuale in una negatività risoluta, premessa, a mio awiso, di ogni vera possibilità di alternativa alla società-realtà in cui orrendamente viviamo. Alla fıne punterei decisamente sul "racconto del cieco" o meglio monologo (dato il rapporto così distaccato che Locke ha con la ragazza incontrata nel labirinto del palazzo di Gaudì, raffıgurato nel suo gelido furore fantastico-onirico), punta estrema delle dichiarazioni reticenti del reporter nel suo viaggio-abbandono a un’altra vita, in realtà diversifıcata da quella abbandonata proprio dalla coscienza di questa parabola-apologo. Locke stesso è il cieco che recupera la vista e perciò si "suicida", e il suo è l’"occhio" aperto che vede la società e la vita, in certo senso, l’"occhio" stesso dell’intellettuale-regista che a sua volta fa recuperare la vista allo spettatore.
E il suicidio del cieco, ora veggente, come il "suicidio" di Locke entrato in una vicenda che non può non condurlo alla morte, sono la sigla forte della insostenibilità dell’esistenza in questa società, in cui l’individuo che "vede" è costretto a desiderare di perdere la sua identità e di rifiutare la vita. Allo spettatore sta poi ricavare l’alternativa (essa stessa problematica e non trionfalistica e sicura): o la morte o l’abbietta rassegnazione. Ma la presa di coscienza, la vista dell’occhio aperto (prima chiuso nelle illusioni quotidiane e nella accettazione di falsi valori e del vitalismo qualunquistico) è momento essenziale anche e soprattutto per chi, solo a questo costo, può profılare la sua protesta e la sua alternativa rivoluzionaria priva essa stessa di ogni "ottimismo". A questo momento essenziale mi pare che porti forte contributo (e con la forza moltiplicatrice e conoscitiva dell’arte) anche l’"occhio" di Antonioni e del suo ultimo fılm.


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"Orizzonti di gloria di Kubrick"

In me è nettissimo il ricordo (già prova della sua consistenza e della sua forza espressiva) di Orizzonti di gloria (o meglio Paths of glory, sentieri di gloria, secondo il titolo originale) visto da me nel ‘58, in un periodo in cui un uomo di sinistra poteva anche ipervalutare, per la loro simile tematica, fılm come Ultima spiaggia di Kramer (ma forte resta di questo il fınale, prima con i cittadini in disciplinata fıla a ricevere la pillola mortale e con gli ingenui canti dell’Esercito della salvezza, poi con la città, deserta e mossa solo dalle foglie e dalle carte sparse dal vento) o Non uccidere di Autant-Lara, tanto inferiori per spessore ideologico e artistico. Ecco: il fılm di Kubrick resiste proprio perché la sua ideologia era più profonda, e risolta - al di là di qualche eccesso oratorio dovuto alla stessa esacerbata passione civile del giovane regista - con energia coerente a livello espressivo.
Ne sono tuttora testimonianza evidente l’immagine ossessiva del "formicaio", visto dalla trincea francese, i lividi colloqui fra i due generali tra stucchi e mobili antichi in un vasto salone gelido e aristocratico, o il conclusivo canto, innocente e dolente, familiare e popolare della spaurita ragazzina tedesca (esibita con lazzi volgari dal verboso organizzatore della rappresentazione "offerta" ai soldati), che di per se stesso e nella profonda umanizzazione che provoca nei soldati "proletari" divenuti strumenti di massacro di se stessi e dei loro awersari "compagni", è giudizio fermo, e risolto nel visivo e nel sonoro, sull’infamia della guerra in generale e di quell’orribile guerra in particolare.
Tale attacco antimilitarista e antibellicista non a caso ritorna, pur nel successivo svolgimento della politica del regista, nel caos-geometria delle battaglie settecentesche di Barry Lyndon (con un’accusa alla guerra che "macina" i soldati che si battono per gli interessi dei propri oppressori), ingiustamente limitato, con l’accusa di calligrafısmo, da certi settori della sinistra che, mentre giustifıcano i prodotti più scadenti e basso-decadentistici purché ammantati di falso trionfalismo "positivo", finiscono poi per non capire prodotti di ben diverso valore e di ben diversa profondità ideologica e problematica.

 

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Questo testo, inedito e pubblicato sul periodico umbro “Micropolis” nel numero di ottobre 2007, fu scritto da Binni nel dicembre del 1981, alla morte di Ferruccio Parri (8 dicembre). Nell'Archivio del Fondo Walter Binni sono conservate la scaletta con i punti da sviluppare, con il titolo “Un volto nobile fra tanti volti ignobili”, e la stesura del testo definitivo con un titolo modificato in “Un volto nobile fra tanti visi ignobili”. Un ulteriore intervento sul titolo è operato da Binni sul dattiloscritto della stesura: la parola “visi” è sbarrata e sostituita con “ceffi”.

Un volto nobile fra tanti ceffi ignobili
Ho conosciuto Parri nel 1938 a Milano (insegnavo a Pavia e da un paio di anni percorrevo l'Italia a diffondere le idee del ‘liberalsocialismo' soprattutto nella versione di Capitini e mia - il problema della libertà nel socialismo più socialmente radicale, non del socialismo nella libertà in senso socialdemocratico - e ad aggregare gruppi più vasti di antifascisti) e riportai da quell'incontro un'impressione indelebile di fermezza e coraggio nella semplicità e modestia, nell'ironia e autoironia dei modi nobilissimi e antiretorici e, a parte la sua storia precedente, sentii di aver conosciuto un uomo insolito e raro pur nella ricchezza di personalità diverse e ben notevoli nell'intellettualità militante antifascista. Poi quell'impressione si rafforzò quando - dopo le vicende della guerra e della lotta partigiana in cui Parri aveva preso il posto che doveva prendere - lo ritrovai nel '45 e con più lunga consuetudine alla Costituente (io non avevo aderito al Partito d'Azione ed ero entrato nel '43 nel Partito Socialista di cui ero deputato per l'Umbria) ed ebbi modo di apprezzare ancor più le qualità intellettuali e morali persino quando ad un violento attacco del separatista Finocchiaro Aprile rispose pacatamente e quasi sommessamente con un insolito tipo di eloquenza così antiretorico e spezzato; che tanto più mi colpì per la sua efficacia profonda, quando ne ascoltai a Lucca una commemorazione dell'eccidio nazista di Stazzema, impressionante per certe pause commosse, per certi improvvisi moti di sentimento profondo quasi in un incrinato e sommesso singhiozzo che mi faceva pensare al Kutuzov di Guerra e pace e dunque a una specie di capo e comandante così umano, così “antieroico”, così capace di far pensare e sentire senza travolgere con l'enfasi e la retorica. Né quei discorsi (come le conversazioni avute con lui specie in certe fasi della diaspora socialista, dopo la scissione del '47 e dopo la sua parentesi repubblicana, quando collaborammo in tentativi di formazioni politiche socialiste per una rifondazione della sinistra a cui Parri si era sempre più avvicinato) mancavano di rivelare le caratteristiche di un intellettuale non à la page, ma tanto più sostanzioso e rigoroso di tanti snob della sinistra di cui oggi si vede la vertiginosa perdita di tensione morale e ideale, ma tanto saldamente radicato in una cultura otto-primonovecentesca che trovava in De Sanctis una autorità intellettuale, intelligenza e cuore inseparabili per adoperare appunto parole desanctisiane, valida anche per il senso della storia e della letteratura di cui Parri si dimostrava cultore, ben orientato nei suoi giudizi e nelle sue domande a me, come professionista di critica letteraria, anche se la sua specializzazione era diventata sempre più l'economia e la politica. Ma anche proprio della politica egli dimostrava un senso tutt'altro che ingenuo e moralistico, ma certo impiantato in una salda e disillusa visione morale che rimandava ad un'altra politica ben diversa da quella puramente machiavellica, che veniva mostrando il suo pieno trionfo nella prassi del partito maggioritario con la sua bassa furberia, con i suoi intrighi, con la sua spregiudicatezza e corruzione che ha spesso contagiato anche i suoi avversari più risoluti.
Profondamente pessimista ed esperto dei vizi profondi del nostro paese e della sua classe dirigente, Parri opponeva la sua onestà, la sua instancabile caparbietà intransigente, estremamente consapevole della sua essenziale diversità.
Sicché quando - in occasione della incredibile elezione di Leone a Presidente della Repubblica - gli telefonai per sfogare la mia indignazione e gli dissi che solo un uomo come lui avrebbe dovuto essere il candidato dell'opposizione in sfida antitetica con il degno candidato della Democrazia cristiana, egli mi rispose “ma in che mondo vivi, in quale paese credi di essere?”.
Ripenso a quella risposta, ripenso a tanti suoi scritti, atti (la proposta di scioglimento del partito neofascista), a tanti colloqui e contatti anche per me personalmente importanti (quando pronunciai un discorso funebre per la morte dello studente Paolo Rossi, morto in seguito alle percosse dei fascisti e mi si scatenò contro un feroce attacco non solo dei fascisti, ma dei benpensanti di destra e di sinistra, mi ripagò di tutto un telegramma affettuoso e fermo di Parri), a tante telefonate fino a quando lo colpì l'arteriosclerosi, in cui il timbro leale ed amaro della sua voce mi portava ancora l'eco di una personalità così eccezionale, così diversa, così inquietante e sollecitante proprio nel suo pessimismo e nella sua ironia e autoironia (nell'ultima telefonata consapevole chiamò la sua eroica e amata compagna “la mia tiranna”) e tanto più mi indigno di fronte all'indifferenza generale (non parlo certo dei suoi veri amici ed estimatori: ma pochi rispetto ai suoi meriti altissimi) che ha accolto la notizia della sua penosa malattia, dei suo ricovero al Celio (addirittura, per colmo di amara ironia, mi si assicura, nella stanza che ospitò l'aguzzino nazista Kappler!), la sua morte (sommessamente onorata). Chi è Parri?
Ma poi mi dico che è giusto, che non c'era e non c'è posto, in un paese così degradato, per un uomo come Parri, che un volto nobile come il suo non può essere riconosciuto dove compaiono continuamente tanti visi ignobili quali sono quelli di tanti nostri reggitori democristiani agli occhi di un paese (e di un'opposizione) che hanno tollerato a lungo il viso risibile di un capo dello Stato che ballava la tarantella, che faceva le corna agli studenti che giustamente lo fischiavano, che coltivava l'amicizia dei Lefèvre, che parlava come un paglietta di infimo ordine e che tuttora tollera i visi dei sacrestani furbastri pseudo-scrittori di melensi libri di papi e di altre simili amenità, di mediocri corporativisti aspiranti pittori (cui non mancano gli elogi di intellettuali artisti dell'opposizione), di ministri che scrivono poesie o che si esibiscono in suonate al pianoforte (la cultura e l'arte sono finalmente al potere!), di politici che frequentano l'eletta compagnia dei Caltagirone, dei Sindona, dei nemici più neri della democrazia, e che sono dentro fino al collo in tutti gli scandali e in tutte le trame reazionarie. È giusto che un paese che tollera senza battere ciglio, quei visi, ignori o rimuova da sé il volto nobile di Parri, troppo acerbo rimprovero alla sua frivolezza e alla sua colpevole tolleranza in un tetro periodo in cui la stessa sinistra è attraversata dalla destra e persegue disegni abominevoli e assurdi di alleanze e compromessi con i nemici capitali della democrazia e della classe proletaria. Perché Parri non è un rivoluzionario, a parole, ma è la faccia onesta, severa, profondamente alternativa di un paese per tanti aspetti e per tante parti disonesto ed ignobile.


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Premessa al volume "Umbria", di autori vari, pubblicato dalla Regione Umbria, Uemme Editore, 1985

Stiamo preparando una nuova edizione ampliata del volume binniano "La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri", per la collana "Quaderni storici del Comune di Perugia". Tra i nuovi testi che saranno raccolti, questa "Premessa" di Walter Binni a un volume collettivo sull'Umbria, coordinato da Umberto Marini e pubblicato dalla Regione Umbria nel 1985. Risultano di particolare utilità per il momento che stiamo vivendo le considerazioni su un' "identità regionale" che "lungi dal risolversi in una semplice seppur ampliata prospettiva locale, contribuisca, con i propri caratteri, all'affermazione di una vasta e articolata prospettiva nazionale e mondiale che abbia per mèta, ideale e necessaria, una società umana e fraterna, rispettosa di realtà e ispirazioni diverse, pur tutte convergenti in una scelta di 'vera pace' e autentica promozione del bene comune di tutti gli uomini", sulla linea del capitiniano "potere dal basso".



Accolgo volentieri il cordiale invito a stendere una brevissima premessa a questo volume edito dalla Regione Umbria, invito rivolto a me, come perugino ed umbro profondamente legato alla mia città e alla mia regione (lo testimonia anche il mio recente volumetto La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, pubblicato dalla stessa Regione), da parte del Presidente della Regione, Germano Marri e dall'ideatore e da alcuni realizzatori del libro, tra i quali soprattutto Raffele Rossi, vicesindaco di Perugia e Presidente dell'Istituto per la Storia dell'Umbria Contemporanea, mio vecchio amico e compagno nella lotta contro la dittatura e nel nuovo sviluppo della vita democratica a Perugia e in Umbria, prima della mia ormai lontana partenza per altre città e regioni.
Questa brevissima premessa non intende tanto entrare nel merito delle singole parti della vasta e complessa materia trattata nel volume, quanto sottolineare l'utilità e la funzione che può avere questa iniziativa divulgativo-didattica destinata e rivolta ai giovani e giovanissimi che frequentano le varie scuole dell'Umbria, come strumento di avvio alla conoscenza della loro regione, come stimolo all'interesse per i vari aspetti della sua realtà, della sua storia, cultura e arte, della sua conformazione geografica, economica, delle sue tradizioni profonde e varie, dei suoi problemi attuali. E quindi non solo avvio alla conoscenza della regione, ma ad una presa di coscienza dell'appartenenza ad essa, in funzione di una partecipazione attiva al suo sviluppo e alla sua civiltà, di cui certo l'istituzione della Regione nel 1970 e la politica amministrativa e culturale delle giunte regionali che si sono susseguite fino a quella attuale, hanno costituito un rafforzamento della sua generale e articolata consistenza, favorendo una più dinamica armonizzazione della peculiarità delle varie zone che costituiscono l'Umbria, senza con ciò livellarne le irripetibili caratteristiche.
Spetta dunque ai giovani umbri ricavare da questa iniziativa non solo una spinta ad approfondire ulteriormente, secondo i personali livelli culturali, la conoscenza e l'interpretazione dei caratteri della propria terra, ma, ripeto, tradurre conoscenza in coscienza della propria identità regionale, sì che questa, lungi dal risolversi in una semplice seppur ampliata prospettiva locale, contribuisca, con i propri caratteri, all'affermazione di una vasta e articolata prospettiva nazionale e mondiale che abbia per mèta, ideale e necessaria, una società umana e fraterna, rispettosa di realtà e ispirazioni diverse, pur tutte convergenti in una scelta di "vera pace" e autentica promozione del bene comune di tutti gli uomini, opposta ad ogni ingiustizia e sopraffazione; proprio quel "potere dal basso" e "di tutti" e quella pace di cui tanto originalmente parlò, e per cui tanto attivamente operò, con inspirazione così inconfondibilmente umbra, la più complessa e alta personalità umbra di questo secolo, Aldo Capitini, riprendendo tra le sue più congeniali sollecitazioni profonde la prospettiva di Francesco d'Assisi e quella del supremo appello leopardiano della Ginestra, sempre più valido per gli uomini di un tempo posto di fronte ad una scelta decisiva fra uno scontro catastrofico e una totale collaborazione fraterna:

"… Tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor…"
Walter Binni


Roma 1 marzo 1985


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Roma, 23 gennaio 1990. Il funerale di Giorgio Caproni


"Italia ingrata dimentichi i tuoi poeti"

Articolo non firmato, "l'Unità", 24 gennaio 1990, sul funerale di Giorgio Caproni.

ROMA. I poeti, si sa, non amano i "potenti", e questi ultimi li ripagano della stessa moneta. Ieri a Roma, ai funerali di Giorgio Caproni, uno fra i più grandi poeti italiani non era presente neppure il più modesto fra i rappresentanti del governo e dell'Italia per così dire "ufficiali". Caproni non se non se ne sarebbe avuto a male: schivo e solitario in vita, anche in morte è rimasto coerente al suo stile scabro e austero. Ma l'assenza totale di "potenti", solleciti invece ad ogni benché minima apparizione spettacolare, è in sé medesima assai eloquente.
Nella chiesa di Santa Maria Madre della Provvidenza, a Roma, ove Caproni abitava da moltissimi anni, accanto ai figli Silvana e Mauro, c'era solo un gruppo di amici, estimatori, ex scolari del maestro elementare, quale il poeta era restato fino a tutti gli anni Cinquanta. Tra gli altri Walter Binni, Guglielmo Petroni, i poeti Elio Filippo Accrocca, Rossana Ombres, Bianca Maria Frabotta, Valerio Magrelli. Un breve rito funebre è stato officiato da un sacerdote, lontano parente del defunto, che ha voluto ricordare come Caproni fosse dotato di una grande cultura religiosa e spesso amasse discutere anche delle prediche che ascoltava.
L'assenza di esponenti ufficiali del governo e delle istituzioni è stata duramente stigmatizzata sia da Petroni, presidente del sindacato scrittori ("Se la cultura non fa anche spettacolo viene emarginata"), sia dal professor Walter Binni. Quest'ultimo ha commentato che "il fatto non è certo unico ma clamorosissimo" ed "è solo una conferma che chi lavora seriamente per l'arte e la cultura viene escluso dal cerchio".


Andrea Barbato: "Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti."

"Cartolina" di Andrea Barbato, trasmessa da RAI 3, 24 gennaio 1990, ore 20,25. Il testo della "cartolina" è stato inviato da Barbato a Walter Binni l'8 aprile 1991 con un biglietto di accompagnamento: "Gentile professor Binni, Le invio il testo di quella remota 'cartolina' che trasmisi in omaggio a Caproni (e un po' di sdegno al Potere). La ringrazio per la Sua attenzione. Con molta stima, Andrea Barbato". La cartolina era indirizzata al sacerdote che aveva officiato il rito funebre.

Caro don China,
ieri, nella sua parrocchia romana del quartiere Montesacro, Santa Maria madre della Provvidenza, ci sono stati i funerali di un poeta, Giorgio Caproni. Era un grande poeta, fra i maggiori del Novecento italiano. Così grande, che lei, don Pietro, ha pensato e temuto per un po' che la sua chiesa fosse troppo piccola per accogliere l'omaggio della prevedibile folla. Intorno alla bara di Caproni, c'erano Binni e Petroni, Accrocca e Ombres, Frabotta e Magrelli. Poeti e letterati come lui. C'era il sindaco di Roma Signorello. C'erano i familiari, naturalmente, qualche amico, qualche ex scolaro. Già, perché Caproni è sempre stato un maestro elementare, oltre che un poeta. Solo poche file di banchi si sono riempite, la parrocchia della Provvidenza è rimasta quasi vuota. Caproni aveva un carattere schivo, viveva appartato, e non si sarebbe rammaricato di quella solitudine. Un rito rapido, un amaro commento del professor Walter Binni sulle assenze del mondo ufficiale, poi tutto è finito. O meglio, tutto comincia ora. Perché un poeta vero - e Caproni lo era - malgrado le assenze oltraggiose, sopravvive. Il fatto che quella chiesa di Montesacro fosse semivuota è solo una minuscola notizia, in una giornata affollata di fatti, di votazioni, di polemiche, di riunioni politiche. La cronaca rimane indifferente.
Eppure, l'assenza di tutti è scandalosa. Dovrebbe far riflettere sul groviglio, sulla confusione di valori che abbiamo creato intorno a noi. Se non c'è lo spettacolo, ha detto Binni, si viene emarginati. La cultura seria non ha cittadinanza, non ha nemmeno onoranze funebri. Non si sa riconoscere neppure dopo la morte chi ha veramente onorato la sua terra. "La poesia di Caproni ha dato un senso alla nostra vita", aveva scritto Geno Pampaloni. Giusto: ma chi se ne è reso conto? Che l'Italia sia immemore e ingrata con i suoi poeti, lo studiamo nelle storie del liceo. Ed è anche vero che "carmina non dant panem" e che "chi vive di penna vive di pena". Certo, per un poeta appassionato, ironico, raziocinante come Caproni, è già stato difficile vivere. Ma, a quanto pare, è anche difficile morire.
Ho sotto gli occhi la cerimonia del funerale di Mariano Rumor. Lo stato italiano, praticamente al completo, era inginocchiato nel duomo di Vicenza. Corone, stendardi, corazzieri in alta uniforme. Il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il presidente del Senato, quasi tutti i ministri, le massime autorità dello Stato. Un omaggio funebre certamente dovuto all'uomo che è stato per cinque volte alla guida di un governo. Ma quelle solennissime immagini della diretta televisiva da Vicenza, facevano pensare ancor di più, con un'associazione forse impropria, alla sua chiesetta vuota di Montesacro, don Pietro. La morte, lo sapevamo, non è uguale per tutti.
Possibile, insomma, che non si sia trovato un sottosegretario, un viceprefetto, un funzionario della Camera o del Senato, che rappresentasse lo Stato nell'addio funebre a Giorgio Caproni? Eppure, i versi di questo poeta livornese saranno ancora letti, amati, studiati, stampati, quando il potere attuale sarà ridotto in polvere, e dimenticati gli uomini che lo detengono. Possibile che, al di fuori di quella pattuglia di amici e poeti, la grande schiera degli intellettuali italiani, quelli che si affollano a discutere sul nome del Pci ma anche sulla lana caprina, la gente delle giurie e dei premi, la mondanità culturale dei salotti e dei ninfei… possibile che nessuno abbia sentito l'obbligo di salutare Giorgio Caproni? Davvero conta solo il potere, la macchina spettacolare della politica, il modello del successo?
Era già accaduto. Ricordiamo, come unico esempio fra tanti, lo scandalo di quel funerale dell'87 a Montecarlo di Lucca, quando dietro al feretro di Carlo Cassola (che aveva arricchito con i suoi scritti editori e produttori cinematografici), c'era solo Mario Capanna. Caproni ha vissuto una vita senza potere, senza aneddoti. Aveva suonato il violino, fatto la Resistenza in Val Trebbia, insegnato ai bambini delle elementari. La sua poesia è stata definita un controcanto ironico, una straordinaria prova stilistica, la testimonianza di un laico appassionato. L'estate scorsa era venuto qui in uno studio della Rai, a ricordare il ventennio della Luna, che gli aveva ispirato dei versi. Certamente, non avrebbe voluto alcuna cerimonia solenne: ma la vergogna dello Stato assente non è meno bruciante per questo. "Sono giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento", scriveva Caproni. Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti. Un saluto da Andrea Barbato.


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Una dedica di Pietro Ingrao (1994)

Dedica del volume di versi L'alta febbre del fare, Mondadori, Milano, pubblicato da Pietro Ingrao nel 1994.

Caro Walter,
"La poetica del decadentismo" italiano è stato uno dei libri che mi ha aiutato ad avvicinarmi alla poesia del Novecento. E poi i tuoi studi, la tua ricerca, le cose bellissime che hai scritto su Leopardi, a tutti noi carissime. E' con questi ricordi e con l'antica, grande stima e amicizia che ti mando questo mio libretto. Mi piace che tu lo legga ... Un abbraccio, Ingrao.

 

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Da una lettera di Norberto Bobbio (31 ottobre 1994)

Questa lettera di Norberto Bobbio, che riproduciamo parzialmente per vincoli di copyright, è in risposta ad una delle molte lettere che Binni, negli ultimi anni della propria vita, angosciato e indignato per l'involuzione politica italiana, inviò ad amici e compagni di una lunga esperienza intellettuale e civile.

Torino, 31.10.94

Caro Binni,
sono tornati, ne sono convinto anch'io, e saranno applauditi. Non so se hai letto su "Il secolo d'Italia" un articolo contro "gli inverecondi ruderi che ammorbano il bel pensiero dell'italica saggezza", "i gerontocrati che sputacchiano sentenze", e poi una frase volgare che non scrivo per non sporcarmi.
Li abbiamo lasciati crescere, anche per i nostri errori, per la nostra impotenza di fronte al malgoverno di ieri.
Anni tristi, questi ultimi, anche per me, gli ultimi. Diceva Croce: "continuare a fare il proprio lavoro, come se vivessimo in un mondo civile". Come se…
Ma è difficile, almeno per me. Il corso della vecchiaia è sempre più rapido.
(…)
Affettuosamente,

Norberto Bobbio


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Carteggio Walter Binni - Sebastiano Timpanaro

Maria Augusta Timpanaro, vedova di Sebastiano Timpanaro, sta ricomponendo l'archivio epistolare dello studioso, depositato - insieme alla biblioteca - presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Alla dr.ssa Timpanaro abbiamo consegnato copia delle lettere inviate da Timpanaro a Binni tra il 1963 e il 1995. Riproduciamo in parte, per vincoli di copyright, l'ultima lettera di Timpanaro.


Da una lettera di Sebastiano Timpanaro (3 marzo 1995)

Carissimo Binni,
ho ricevuto e letto d'un fiato le tue Lezioni leopardiane. Non esiterei a dire che questo è il punto più alto da te raggiunto come studioso e "seguace" del Leopardi; ed è il tuo libro leopardiano al quale io mi sento più vicino.
Riceverai tra poco (o forse avrai già ricevuto) un mio ultimo libro ottocentesco, edito dal solito Nistri-Lischi. Dalla prefazione - e non solo da essa, se avrai voglia di scorrere tutto questo volumetto, uscito in ritardo (avevo consegnato tutto il materiale nel 1992, poi ho potuto fare solo alcune aggiunte e modifiche sulle bozze) - vedrai che il mio debito verso di te per Leopardi e per tutta l'amara e tuttavia non "rassegnata" visione della realtà che ci accomuna, è ancora una volta riaffermato. Ma quella prefazione la scrissi nella primavera scorsa, quando il "punto di approdo" dei tuoi studi leopardiani era La protesta di Leopardi. Se avessi potuto leggere prima queste tue lezioni, avrei dichiarato con gioia che alcuni punti di dissenso - sulla mia "sopravvalutazione" del Giordani, sulla contrapposizione globale tra classicisti e romantici - non compaiono in queste tue Lezioni, o compaiono in forma molto attenuata. Per questo dicevo che le Lezioni sono il tuo libro leopardiano al quale mi sento più vicino, e per questo mi dispiace molto di non averle ancora lette quando scrissi quella prefazione. Ero, senza saperlo, più vicino a te quando tenesti quei corsi universitari che più tardi, al tempo della Protesta di Leopardi! Ma, a parte ciò, quante osservazioni nuove per i lettori di oggi (che poi avrai dovuto in parte omettere per esigenze di spazio) vi sono in queste tue pagine degli anni Sessanta! (…)
A te auguro ogni bene, e così pure alla Signora. Il tuo

          Sebastiano Timpanaro


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"Questa lotta tra vecchio e nuovo" (1997)

Intervista di Eugenio Manca per "L’Unità" del 2 febbraio 1997. Il testo è stato quindi raccolto nel volume Poetica e poesia (1999).

E' allarmato lo sguardo di Walter Binni sul panorama che ci sta intorno. Definisce intollerabile il clima di "ottuso revisionismo" dentro cui scompaiono differenze storiche, responsabilità morali, riferimenti ideali. Italianista fra i nostri maggiori, elaboratore di un metodo storico-critico che ha profondamente innovato gli studi sulla nostra letteratura, membro dell’Assemblea Costituente, affıda a questa intervista le sue amare "impressioni di fine secolo".
In conclusione domando: professore, ma esiste un criterio oggettivo che ci aiuti a riconoscere ciò che è "nuovo" da ciò che non lo è? Risponde: "Mi orienterei così: è nuovo ciò che contiene elementi di promozione della vita sociale, civile, culturale di un paese; è vecchio ciò che quella vita ostacola e fa regredire. L’anagrafe da sola non basta. Un valore innovatore può avere molti secoli, e la conservazione può vestirsi di falsa modernità". E poi cita lo Zibaldone, il passo in cui Leopardi rammenta come "a un gran fautore della monarchia assoluta che diceva la Costituzione d’Inghilterra è cosa vecchia e adattata ad altri tempi e bisognerebbe rimodernarla, rispose uno degli astanti: "è più vecchia la tirannia"".
Indigesto, pericoloso, intollerabile appare a Walter Binni - italianista insigne, deputato alla Costituente, accademico dei Lincei e maestro di maestri - l’equivoco, che oggi teme dilagante, in forza del quale ciò che si presenta come inedito rechi in sé il segno dell’innovazione positiva, mentre ciò che viene dal passato sia irrimediabilmente regressivo: "Se così fosse - nota - dovremmo mettere in dubbio molti dei valori che hanno mosso il cammino dell’umanità. Hitler era considerato nuovo, e vecchi i suoi non molti awersari; in Italia i principî dell’89 erano giudicati vecchiume in periodo fascista; e mentre ancor oggi alcuni fondamenti della Magna Charta inglese sono da ritenersi nuovi, non potrebbe davvero considerarsi moderno chi volesse distruggerli. È un equivoco che mi riempie di sdegno, e temo che ad alimentarlo sia quel clima di ottuso revisionismo storico che tende ad annebbiare differenze e distinzioni, e induce persone insospettabili, anche nell’ambito della sinistra, ad equiparazioni assurde".
Binni non è uomo di nostalgie: di rotture, invece, di scoperte e di forti innovazioni. La sua nozione di "poetica", che s’è venuta articolando fin dal 1936 sulla base di un metodo storico-critico antitetico a quello di Croce, ha illuminato di luce nuovissima gli studi sull’intera letteratura italiana, da Dante a Leopardi. Né meno moderno e franco di pregiudizi è stato il suo itinerario civile di formazione liberalsocialista, la cospirazione antifascista in quella sua Perugia "dalla bellezza solenne e invernale", la Resistenza, la Costituente, il sodalizio col rivoluzionario nonviolento Capitini, la vivida presenza nelle battaglie culturali prima tra le file dei socialisti, poi - dal ‘68 - in posizione autonoma ma non isolata. E dunque gratuita e offensiva suona alle orecchie di questo precursore ottantaquattrenne l’accusa di conservatorismo che sembra riservata a chi oggi è dubbioso o dissenziente.

Ma, professore, non è forse legittimo obiettare che sempre le generazioni più adulte hanno guardato attraverso un velo di scetticismo se non proprio di sospetto al cosiddetto "nuovo avanzante", specie quando esso si poneva in posizione polemica nei confronti del "vecchio persistente"?

Non so quanto sia vero. Al tempo dei miei vent’anni tutto ci passava per la testa tranne una contrapposizione fondata sul semplice dato anagrafico. Ma andiamo al merito: che il nuovo sia rappresentato da questa nebbia in cui sbiadiscono i valori della democrazia, si attenuano ie differenze fra destra e sinistra, tutte uguali sono reputate le ragioni dei vivi e perfino quelle dei morti - tanto quelli che caddero per la libertà e l’indipendenza quanto quelli che perirono nel tentativo di ripristinare dittatura e nazismo-, ebbene che questo sia il nuovo io proprio non lo credo. Che sia nuovo il modello liberista, nuove le teorie del mercato, nuova una parola come "privato", nuovo lo scambio tra i concetti di "garanzia" e di "opportunità" in un progetto di revisione dello stato sociale, nuova un’ipotesi di affidamento presidenzialista, neppure questo sono disposto a credere. Li vedo piuttosto come pessimi segnali di involuzione, spie di un clima volto alla ricerca di "normalità" e "serenità" da cui vengano espunti non solo le ideologie ma anche gli ideali, cancellate le differenze, offuscate le responsabilità storiche, avallate tendenze culturali regressive. Lasciamo stare Popper, che ciascuno tira di qua o di là, ma dawero si può considerare nuovo il pensiero di Heidegger o di Nietzsche?

Non negherà che ogni transizione sia difficile. Studioso delle epoche di transizione e partecipe lei stesso di un drammatico passaggio della storia italiana, vorrà ammettere che il compito è immane...

Ne vedo tutte le diffıcoltà ma non posso nascondere la mia contrarietà al diffondersi di un clima denso di equivoci. Al sindaco di Reggio Emilia, che invitava anche me, coi pochi altri costituenti soprawissuti, alle celebrazioni per il Tricolore, ho scritto confermando il significato rivoluzionario, giacobino che per me assume il Tricolore, e il suo stretto legame con i valori della Resistenza antifascista. Il sacrifıcio umano merita rispetto, ma l’equiparazione dei fronti e perfino l’invito alla venerazione dei morti per qualunque causa schierati, questo mi pare inaccettabile. È questo clima, in fondo, che rende possibili episodi come quello che ha per vittima Sofri. Né per lui né per "Lotta Continua" ho mai nutrito grande entusiasmo, e l’approdo di quasi tutto quel gruppo a posizioni prestigiose legate al potere me ne offre conferma. E tuttavia sento come una grave, dolorosa mancanza di giustizia il fatto che da un lato venga comminata una condanna assoluta e definitiva 25 anni dopo e sulla base delle parole di un teste palesemente inattendibile; e dall’altro che un uomo come Licio Gelli se ne stia tranquillo nella sua villa e, se arrestato, venga rilasciato pochi minuti dopo e con tante scuse.

Lei insiste sul clima. Le pare davvero così infausto?

È un clima che sembra propiziare fenomeni preoccupanti: una sentenza aberrante che raccoglie il plauso dell’estrema destra; l’insistenza, in verità ben poco contrastata dal Pds, su forme più o meno spinte di presidenzialismo che molti temono foriere di rischi autoritari; i tentativi di smantellamento di "mani pulite", l’attacco ai giudici; il riproporsi degli appetiti privati sul sistema scolastico, laddove la Costituzione prevede sì la piena libertà della scuola privata, ma "senza oneri per lo Stato"
.
Che cosa pensa della possibile revisione del testo costituzionale?

Penso che la prima parte, contenente i principi fondamentali, vada considerata intangibile. So bene che per Cossiga e altri, tutta la Costituzione sarebbe da rivedere, mentre la "Bicamerale" non potrà che limitarsi a intervenire solo sulla seconda parte. Mi attendo che le forze democratiche si mostrino ferme e unite nella difesa di quei caratteri di libertà, giustizia sociale, laicità, che a suo tempo si vollero a fondamento della repubblica.

Non coglie anche lei, professore, la rilevanza, la novità della presenza di una grande forza di sinistra alla guida del Paese?

La colgo interamente ma temo che tale prospettiva venga messa in forse dalle concessioni che vedo profilarsi su vari terreni: la giustizia, la scuola, lo stato sociale, il presidenzialismo. Sarò franco: considero pericolosissimo oltre che illusorio pensare di poter procedere, insieme con minoranze composte di ex fascisti e di uomini che sono espressione di un partito-azienda, ad un raddrizzamento della situazione italiana. Pensare di poter operare una trasformazione - o come un tempo si diceva con troppo orgoglio "cambiare il mondo" - con interlocutori di questo genere non mi pare possibile.

E tuttavia in passuto lei stesso fu testimone di un grande sforzo unitario ad opera di gruppi e partiti di ispirazione la più diversua...

Non vorrà confondere il clima che si respirava cinquant’anni fa con quello dei giorni nostri ... Una tensione, una speranza fortissima animavano allora non solo gli uomini di sinistra ma i rappresentanti di ogni settore dell’Assemblea Costituente, dalla quale l’estrema destra era totalmente esclusa. Noi tutti avevamo l’impressione di collaborare ad un’impresa importante, e ciascuno vi partecipava portando le riflessioni maturate nella propria e spesso drammatica esperienza di combattente, di esule, di perseguitato. C’erano Parri, Terracini, Gronchi, Calamandrei, Concetto Marchesi, c'era Benedetto Croce ... Fu un anno e mezzo di eccezionale fervore. Lei trova possibile un raffronto tra quel clima, quegli obbiettivi, quello sforzo unitario, e ciò che accade oggi? Si è salutata con entusiasmo la fine delle ideologie, e certo i sistemi di pensiero rigidi e ossificati non meritano alcun rimpianto. Ma non trova anche lei che una società povera di valori forti, privata di punti di riferimento ideale, sia come un corpo senza spina dorsale? Capisco, sono vecchio, e forse vedo le cose con occhi troppo allarmati, ma aver consonanza in questo giudizio con uomini come Bobbio e Garin non allevia la pena.

Un altro severo osservatore della vicenda italiana, Mario Luzi, muove agli intellettuali il rimprovero della renitenza, quasi della diserzione civile di fronte all’incombere del disastro...

E mi par vero. Per lungo tempo ci fu l’intellettuale "impegnato", che non voleva necessariamente dire partiticamente schierato ma impegnato a un livello più profondo, più ambizioso. Oggi la parola impegno è diventata dispregiativa e ciò è molto grave: l’impegno, non certo in forma "zdanoviana", è importante: è importante dare una prospettiva al proprio lavoro, sono importanti l’impegno stilistico, la ricerca linguistica, la sperimentazione, la creatività. Confesso che se guardo alle nuove generazioni di scrittori, portatori di quella moda di porcheriole che si definisce "letteratura trash" e li raffronto alle generazioni precedenti, dei Gadda, dei Calvino, di Bilenchi, di Pratolini, di Cassola, diTobino, dello stesso Pasolini, sono dawero imbarazzato.

Professore, che cosa ci sulverà: la poesia, forse?

Io ho molti dubbi sulle virtù taumaturgiche della poesia, la quale del resto non sfugge a quel clima di ambiguità ed equivoco cui accennavo. Neppure il grande Leopardi è stato risparmiato da una revisione in chiave nichilista e persino reazionaria ad opera di Cioran e dei suoi seguaci italiani, in opposizione alla interpretazione, che è mia da gran tempo, di un Leopardi profondamente pessimista e perciò violentemente protestatario e ansiosamente proteso verso una nuova società fondata su di un assoluto rigore intellettuale e morale e su di un "vero amore" per gli uomini persuasi della propria miseria e caducità senza "stolte" speranze ultraterrene. Comunque la poesia da sola non basta, essa va innervata in ogni altra attività umana. Alla base c’è la vita civile che deve essere intessuta di democrazia. E c’è la scuola - la scuola pubblica, laica, che non si alimenta di alcun credo già fatto, strumento fondamentale di formazione delle nuove generazioni - che va difesa strenuamente, sottratta a qualunque patteggiamento, senza incertezze di antica o nuova origine.

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Perugia nella mia vita. Quasi un racconto (1997)


La prima stesura di questo profilo autobiografico, una sorta di bilancio esistenziale, risale al 1982; Binni vi ritorna più volte nel corso degli anni, con aggiunte e cambiamenti, finché lo "chiude" nel 1997 a pochi mesi dalla morte. Il testo è stato pubblicato nel 1998 a cura degli eredi, e quindi raccolto nella nuova edizione 2001 di La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri.

Quando qualche amico perugino che ancora mi rimane mi dice: "Perché vai tante volte a Lucca e vieni così raramente a Perugia?", rispondo: "Perché a Lucca ho ancora una casa, la casa della mia compagna. A Perugia ho solo la tomba dei miei. Finché sarò vivo mi servirà una casa. Quando sarò morto, mi servirà una tomba". A Lucca, dalla casa di Elena, vedo i rossi tetti della città, le sue mura alberate, la curva idillica dei monti pisani, il mareggiare petrificato delle Alpi Apuane. A Perugia dal luogo della tomba in cui dormirò il mio sonno ("sonno profondo e senza sogni", "via dagli affetti, via dalle memorie") accanto a mia madre (a mio padre, ai miei nonni paterni; gli altri miei antenati sono sepolti o in chiese di Perugia, Foligno, Rimini, Bologna, Fermo, Arezzo e Camerino o in cimiteri di quelle e altre città) accanto alla mia compagna, non potrò più "vedere", dal sommo del colle del nostro cimitero, il Subasio, Assisi, Monte Pecoraro, la valle del Tevere, che ancora vedo, con passione implacata, le rare volte che vengo a Perugia e mi reco a colloquiare (senza risposta, se non tutta immaginaria e sentimentale) con mia madre, o, più a destra, nella parte nuova del cimitero, con Aldo Capitini, mentre guardo dal luogo della sua tomba San Domenico, con il suo bosco, San Pietro, lo sprone del Muraglione, in cui mi si profila, a ricordo appassionato, la figura elegante, il volto ansioso e proteso di mia madre, che così spesso ci si recava solitaria e pensosa.
Con quell’amaro scherzo mi libero dalla domanda affettuosa dei rari e cari amici che ancora conservo a Perugia. Ma la verità vera è che Perugia (che sogno spesso di notte e spesso anche desto, ad occhi aperti) è ormai per me, nei rari ritorni e malgrado l’incontro con i vecchi amici rimastimi, una specie di discesa nel regno delle ombre, la visita dolente e stupita di luoghi cari, e per sempre vuoti della vita che amai, a cominciare dal vecchio Brufani in cui tutti i miei amici Bottelli e Collins sono scomparsi e dove sopravvivono solo i ricordi di una infanzia felice, quando ci venivo a giocare con Giorgio Bottelli e con tanti altri bambini e ricevevo, orgoglioso e affascinato, il bacio sorridente della bella Muriel Collins.
Perugia è ormai occasione di un duro confronto fra la vecchiaia che vivo, sorpreso, irato e mai rassegnato, e gli anni lontani della mia infanzia, adolescenza, gioventù, così gremite di vitalità e attività: dal periodo in cui abitavo nella casa paterna e natale, in Via della Cupa, sotto l’arco dei Mandolini nel palazzo omonimo (piena di care persone, fra cui le tenere e troppo laboriose "donne di servizio", piena di animali amati e rispettati da me come vere e proprie persone: gli eleganti e snelli "pointers" da caccia, i gatti d’angora come la deliziosa Chérie, il volpino Fifino, geloso di me e spesso beccato da un vecchio pappagallo che, iroso, gridava le sole parole apprese: "Guerra" e "Caffè", la coppia fedele dei minuscoli bengalini a cui mia madre affettuosamente paragonava certe giovani coppie di innamorati o di "sposini") a quello in cui, più tardi, vivevo con la mia giovane compagna lucchese – Elena, la "luminosa", la "splendente" secondo l’etimologia del nome greco: tale era allora, tale è rimasta e rimarrà per me "fur ewig" "in eterno", cioè finché avrò vita – e con i miei figli bambini in via Lorenzo Spirito Gualtieri, fuori Porta S. Susanna, sopra la Piaggia Colombata, protesa sulla vallata da Prepo fino a Monte Malbe e Monte Morcino.

Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé, ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato ancor tristo, e il dire: io fui,

mi ripeto con Leopardi, il poeta della mia vita. Appunto. Ormai il vecchio "pessimista rivoluzionario", il "vecchio capriolo" che (secondo le parole dell’amico Rigorni Stern nel suo ultimo libro) "pascola lontano dal branco, con fare sospettoso e irascibile", a Perugia si sente tanto più sottoposto al triste paragone con il passato infantile e giovanile, tanto più si sente sradicato che altrove, perché qui avrebbe voluto stendere le sue radici, mentre oramai le affonda solo nel ricordo e nell’impegno pertinace, ma più stanco, negli affetti rari e forti che gli rimangono, nella tenace volontà e proiezione utopica, e pur persuasa, di una società e realtà diverse (non garantite da nessuna legge meccanica o divina) e nei dolci-amarissimi ricordi, nelle larve del passato "per sempre". E qui più si sente nella situazione leopardiana dello scomparso o del presto destinato a sparire: "ad altri il passar per la terra oggi è sortito – e l’abitar questi odorati colli", colli e terra che per me sono sempre quelli di Perugia e dei suoi dintorni, paesaggi e luoghi cittadini e campestri, che sempre scattano nella memoria, mai cancellati da altri paesaggi e luoghi in cui la vicenda vitale mi ha portato a "passare" e vivere, a bruciare la breve fiamma di materia che sente e passa.
*
Mentre scrivo queste brevi pagine nella mia casa romana, davanti al giardino di Villa Torlonia, di colpo mi ritrovo nella mia casa natale, nel nulla da cui qui a Perugia uscii tanti anni fa’ piccolo e ingenuo bambino, in una giornata di neve e di tramontana, di prima mattina, caldo nel letto e protetto dalle cure materne, ad ascoltare rapito la voce festosa di un giornalaio, a me noto come eroico combattente nella grande guerra da poco finita, che gridava: "Corriere dei piccoli, piccoli, piccoli, brr: che freddo"; o mi ritrovo, ragazzo, a una finestra aperta sul Monte Malbe e Monte Lacugnana accanto a mia madre (era il 1929, l’anno del "nevone"), ambedue sorpresi e commossi dalla vista inattesa del cielo divenuto improvvisamente tutto sereno e della luna che illuminava la vallata e i tetti colmi di neve, o mi ritrovo, pure in quell’anno, in un’aula del Liceo, a leggere, sotto il banco, i romanzi di Svevo, gli Indifferenti di Moravia o gli Ossi di seppia di Montale, sottraendomi così alle noiosissime lezioni di un vecchio e dotto professore di greco ma viceversa pronto ad accendermi alla lettura che il preside, il toscano Chiavacci, ci faceva a volte delle poesie di Michelstaedter ("il porto è la furia del mare") o, adolescente, nella sala della Biblioteca Augusta (allora era nel palazzo comunale) a leggere antiche cronache perugine che alcuni vecchi inservienti mi portavano, riluttanti e brontoloni ("sono libri difficili per la sua età") e da cui traevo, oltre un esagerato orgoglio campanilistico, un rinforzo al mio nascente anticlericalismo (la rivolta antipapale del 1378, la guerra del sale contro Paolo III, la difesa repubblicana contro i sanfedisti aretini del ‘99, la trascinante narrazione del 20 giugno) sollecitato anche dai ricordi materni delle gesta del nonno garibaldino alle battaglie di Bezzecca, di Monte Rotondo e Mentana, o, già venticinquenne e sposato, sul balcone della mia casa di via Spirito Gualtieri, meditabondo e tristissimo per la morte immatura di mia madre (che alle mie stolte giovanili parole, affannate e impersuase, a lei morente: "Spera, abbi fiducia ... " aveva opposto le sue estreme nude parole: "In che?") improvvisamente sorpreso dal canto di due giovinette che salivano, tenendosi per mano, gli ultimi gradini della Piaggia Colombata, ritmando il passo sulla canzonetta di moda, stretto da una inattesa attrazione della vitalità giovanile, che intrecciandosi alle mie cupe meditazioni mi provocavano una rabbia profonda contro me stesso e gli inganni della vita (pur così autentici nella loro qualità di impegni e di affetti profondi come quello per la mia giovane compagna che attendeva il nostro primo figlio, nato sei giorni dopo la morte di mia madre). O, più tardi, nei giorni dopo l’8 settembre del ‘43, con altri antifascisti in una sala del comando della zona militare alle prese con un generale scettico e pronto a passare al nemico nazista, nel vano tentativo di organizzare una disperata e temeraria resistenza a Perugia contro i tedeschi giunti a Città della Pieve (tentativo replicato con una folla di popolani, uomini e donne, che invano richiedeva armi davanti alla caserma di S. Agostino) o, ancora più tardi, nella Piazza Matteotti, la vecchia piazza delle Erbe e prima di Sopramuro, il primo maggio 1945, impegnato in un comizio, illuminato dalle speranze di quegli anni indimenticabili, speranze illusorie, ma allora ben persuase (mi riferirono che un vecchio popolano socialista-massimalista diceva di me "quello è uno che ce crede": non ebbi mai più un omaggio così schietto e gradito). O infine sulla torre della porta S. Angelo (c’era uno dei molti circoli socialisti che io avevo contribuito a creare) alla fine del ‘48 (quando, finita la mia attività di deputato all’Assemblea Costituente e vinto un concorso universitario con cattedra a Genova, avrei lasciato Perugia il giorno sucessivo) solo e meditabondo a contemplare la città e il paesaggio scuro e montuoso fra Monte Ripido e Monte Tezio e a dipanare i tanti ricordi dell’infanzia, dell’adolescenza, della gioventù che con quella partenza mi pareva già finita (avevo trentacinque anni) o destinata ad esser ripresa tutta da capo in quella veste di "professore" che mi sembrava troppo stretta per la varietà intrecciata di impegni che avevo vissuto da Perugia, a Roma, Firenze, Pisa, Pavia, Milano e altrove, ma sempre con la primaria residenza e cittadinanza perugina. Ripensavo alle semplici, schiette feste che proprio su quel torrione intorno alla rossa bandiera con la falce, il martello e il libro si erano svolte con compagne e compagni socialisti e comunisti, con i loro cari volti a cominciare da quello soavissimo di Maria Schippa comunista a quelli fraterni di Bruno e Maria Enei socialisti, i più amati dalla mia compagna. E sentivo, fra attrazione e malinconia nostalgica, che quella era la svolta decisiva della mia vita di uomo maturo. La mia sorte mi portava altrove, non sarei più tornato a vivere e a lavorare a Perugia.
Poi mi riscuoto da questo sogno, mi ritrovo nella mia abitazione romana, e contemplo, fra stupore e fastidio, il mio ritratto di giovane ardente e malinconico, dipinto da Andrea Scaramucci a Perugia, nel ‘37, confrontandolo con il volto attuale, profondamente segnato dalla vecchiaia e appena ancora riconoscibile nelle pieghe della fronte caparbia, delle labbra serrate e sottili, del mento volitivo e spavaldo, del grosso naso, eredità non gradita del mio bisnonno paterno, perugino, Giustiniano degli Azzi Vitelleschi, testimoniata inequivocabilmente da uno sbiadito dagherrotipo di metà Ottocento che conservo ad una parete di una stanza gremita di oggetti provenienti dalla sua villa di Casaglia.
Egli era (come il bisnonno materno, Girolamo Barugi di Foligno e lo stesso più amato nonno materno garibaldino Francesco Agabiti di antica famiglia fermana e poi riminese-bolognese) un aristocratico: solo il ramo di cui porto il cognome è di origine borghese terriera, accomunata agli altri rami da un tracollo economico tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, causato da una pari inadeguatezza alle regole della civiltà industriale e capitalistica.
Così, disorganico alla classe borghese in cui mi ha posto assai marginalmente la mia situazione sociale, sradicato dalla vecchia classe giustamente battuta da cui sostanzialmente provengo, scomodo, ma pertinace e volontario alleato della classe proletaria (ormai in gran parte imborghesita e disgregata dal consumismo e dallo sviluppo economico tardo-capitalistico in gruppi sociali per ora mal definibili) e allontanatomi da tanto tempo dalle formazioni partitiche socialiste in cui ho militato sempre più con difficoltà e contrasti, ma non dalla "sinistra", vivo e soffro la condizione di un intellettuale assolutamente disorganico e sradicato, anche se ostinatamente proteso ed attento ad ogni segno di cambiamento rispetto alla società attuale in cui sono costretto a vivere. Ma, ripeto, fra tante ragioni di sradicamento mi pesa molto quella di essere ormai anche così realmente sradicato dalla città in cui sono nato e cresciuto (e di cui ho quasi dimenticato il dialetto, pronto però a vibrare se sento – come mi accadde una volta in treno nei pressi di Castiglion del Lago – una ragazza dire ad un’altra "Gliel’è ditt ta lia?", lo hai detto a lei?) a cui son pur legato da ragioni bioereditarie e, più, da ragioni di congenialità e di formazione, la città cui devo sostanzialmente l’etimo della mia personalità, dei miei gusti, della mia prospettiva etico-politica, l’inizio incancellabile della mia vicenda vitale, i primi incontri essenziali con luoghi, storia, usanze, persone, profonde amicizie, seppur debbo l’incontro essenziale della mia compagna alla civile Toscana (durante gli studi universitari a Pisa), di cui Perugia mi pare poi come una originalissima continuazione e propaggine, sia per la comune origine etrusca, sia per la sua storia medievale, quando Perugia era ancora considerata città toscana come la qualifica il novelliere trecentesco del Pecorone (del resto i Degli Azzi, il ramo perugino della mia famiglia, divennero perugini solo nel ‘600 e più tardi si imparentarono con i Vitelleschi e i Barugi di Foligno: prima vivevano dall’Alto Medioevo ad Arezzo).
Così, per ragioni familiari e ambientali, devo tutto a Perugia (o così mi piace pensare: il che è poi la stessa cosa) per le origini e la formazione della mia personalità e del mio carattere temerario ed impratico, cui contribuirono anche le prime tenaci impressioni del suo paesaggio, il retaggio dei suoi impeti protestatari e ribelli, la sua lezione di essenzialità che scaturisce da ogni aspetto della sua asciutta, petrosa natura che si rivela interamente e si esalta soprattutto nell’inverno duro e dominato dalla tramontana.
Qui si è svolta la mia infanzia felice e protetta, fra timida e altera di figlio unico, fra i dubbi ultimi bagliori della belle époque, segnata fin dal vestiario femminile (rivedo nel giardinetto dei carabinieri mia madre, alta ed elegante nel suo vestito, lungo fino ai piedi e protratto in alto nel "coprigola" di satin, con il vasto cappello infiorato, con il manicotto di pelliccia) e i segni della "grande guerra" (lo zio materno, lo zio ufficiale in guerra, lo zio "oppi-uno-due, no dui", il passo dei soldati, le mantelline azzurre degli ufficiali di artiglieria e i colletti rossi dei cacciatori delle Alpi, le uniformi grigio-verde con mostrine rosso-bianche del reggimento cecoslovacco che si formava e addestrava a Perugia, le notizie di mio padre dal fronte) e i primi indizi puerili di aggressività, come quando, ad una festa in maschera di bambini all’Hôtel Palace, mi picchiai con un ragazzo più grande e più forte per far coppia con una coetanea, dolce e bella, di nome Nerina, da tempo scomparsa.
Qui si svolse la irrequieta adolescenza ("du traumerische, ruhelose Jugend") quando collocavo i miei primi sogni di azione e di poesia sui colli e sui luoghi della mia città e del suo paesaggio (Dante nella selva tra S. Pietro e S. Domenico, Ariosto sul colle di S. Marino, Leopardi fra l’idillio di Monte Pecoraro e di Prepo e la severa bellezza di S. Bevignate, del colle del cimitero o lo slancio rupestre di Monte Tezio) e mi avvicinavo alla cultura fra il Liceo, le conferenze dell’Università per Stranieri (dove la cultura si personificava in modelli ammirati ed emulati nel desiderio – ricordo ancora Borgese, che tanto allora ammiravo, mentre contemplava fuori del Brufani la vallata umbra, pensoso e severo, con le mani ai fianchi-) fino alla scoperta essenziale di Capitini, nel suo studiolo nella cella campanaria del Municipio, fra i suoi libri che accrescevano e disciplinavano le mie precedenti letture disordinate e casuali (a lui soprattutto debbo l’abbandono definitivo degli inganni nazionalistici e corporativi del fascismo di "sinistra" e il decisivo passaggio all’antifascismo militante) mentre insieme mi educavano qui a Perugia la musica e il teatro, fra la Società degli amici della musica e il Pavone e il Morlacchi, e il cinematografo (fra il Turreno e il Minerva) mi forniva, in una frequentazione quasi quotidiana (iniziata fin da bambino con mio nonno e con mia madre) la sollecitazione dei drammi italiani con Francesca Bertini, delle comiche con Ridolini, Max Linder, Fatty e Charlot, dei films con l’ammiratissima Greta Garbo (il suo volto che si sfa sotto le dure parole del vecchio marito tradito in Maria Waleska ) e dell’espressionismo tedesco, fino alla sconvolgente scoperta della Dietrich in Angelo azzurro .
E qui a Perugia (nell’intreccio con le offerte di altre città e paesaggi naturali e culturali: il ricco ambiente culturale dell’Università di Pisa con la frequentazione delle "Giubbe rosse" a Firenze, quello di Heidelberg, di Pavia, di Milano, di Torino o di Bolzano, dove fui ufficiale di artiglieria e per sei mesi insegnante di italiano e storia prima di sposarmi e ritornare a Perugia all’Università per Stranieri) sono iniziati i miei impegni etico-politici nel gruppo di amici e compagni legati all’esempio e alla lezione di Aldo Capitini, prima nel gruppo liberalsocialista, intorno al ‘37, che il mio giovanile attivismo contribuì (come ricorda Capitini nel volume Antifascismo fra i giovani) a rendere appunto un movimento attivo e da Perugia propagato in tutta Italia, poi, nel ‘43, nel ricostituito partito socialista che rappresentai, per la circoscrizione Perugia-Terni-Rieti, all’Assemblea Costituente.
Qui a Perugia (nelle vacanze estive, natalizie, pasquali, durante l’Università a Pisa) ho ideato e iniziato i miei primi libri critici (La poetica del decadentismo) e soprattutto la nuova interpretazione del grandissimo Leopardi, qui a Perugia ho iniziato la mia vita di compagno e di padre (i miei due figli sono nati a Perugia). Qui a Perugia ho pur cominciato a comprendere la legge del "mondo" ("Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili contro i generosi" come scrive Leopardi) e ho compiuto scelte essenziali e mai smentite cercando di praticare la via ardua e quasi paradossale della "virtù" (vecchia ma sempre fondamentale parola: a un mio caro allievo che mi chiedeva che vale l’etica senza la politica risposi che vale la politica senza l’etica) fedele, a mio modo, alla grande parabola evangelica dei gigli dei campi "amate la giustizia e il resto vi sarà dato per sovrappiù" e mi sono persuaso, per sempre, che la vita val solo leopardianamente a "spregiarla", se ai falsi valori del potere e della ricchezza non si preferiscono quelli, veri, della lealtà ("bella come una pura fronte" scriveva ispirato Capitini), dell’autenticità, della giustizia, della verità, del "bene comune", senza di cui la vita non è solo, per sua natura, infelice (l’infelicità è parte e limite essenziale della condizione umana, e la vita alla fine è più "crudele che vana" per dirla con Montale) ma indegna poiché essa "vale" solo per usarla coraggiosamente per terminarla senza viltà e senza stolte speranze.
Certo l’ho imparato dai grandi, essenziali testi fisolofici e poetici, frequentati nel lungo corso della mia vita ("Fais ta longue et lourde tâche... et puis souffre et meurs sans gémer", "the reste is silent"), ma, mentre questi in gran parte li ho già assimilati per sempre nella mia gioventù perugina e mentre la mia dura esperienza del "mondo" l’ho appresa nell’attrito dell’esperienza qui a Perugia, tutto ciò me lo ha anche ispirato il senso profondo di una città scabra ed essenziale, antiretorica e intensa più che edonisticamente "bella", il senso profondo della sua storia, ricca di ribellioni e proteste, spesso temerarie e sconfitte, così come il mio stesso lavoro di intellettuale e di scrittore, il mio stesso metodo critico, fondato sulla tensione di forze e di impegni, commutati nella forza suprema della grande poesia, mi sembra ispirato alla struttura ascensionale e complessa della città, alla metafora tensiva della sua tramontana, che spesso mi è apparsa idealmente tradotta nelle più alte espressioni della poesia, "conforto" stimolo, moltiplicazione di sentimenti e pensieri e non abbietta "consolazione" e frivolo piacere nella lotta pertinace con la realtà ostile della natura e del "mondo": "come fiamma più arde più contesa – dal vento, così alta virtù che’l cielo esalta – tanto più splende quanto più è offesa" secondo la sublime isolata terzina di Michelangelo.
Quella fiamma, quella "tramontana" reale e ideale che hanno acceso dalle radici il mio essere personale e sociale si spengerà interamente solo quando il mio filo biologico (così resistente e così fragile, avviato quasi per ardita scommessa da mia madre, se figlio unico di un figlio unico sono nato fra due fratelli nati morti) si troncherà e io tornerò (si fa per dire) per sempre a Perugia (ma senza alcuna vita né presente né futura) nel Cimitero in cui desidero di essere sepolto accanto a mia madre e alla mia compagna. 4 novembre 1982-1997


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