In questo spazio del sito sono pubblicati materiali che fanno
parte dell'archivio del Fondo Walter Binni (inediti, lettere di
corrispondenti, fotografie, interviste, ma anche testi riproposti
per la loro emblematicità di tracce di un percorso
esistenziale, etico e politico) in un ordine apparentemente
casuale e invece attraversato dai fili sottili della
complessità e della multidimensionalità, e "voci" e
punti vista di interlocutori - ieri oggi domani - del critico e
dell'intellettuale; work in progress e luogo di incontri, questo
spazio risponde a criteri di interattività concettuale,
esplicita e implicita, accogliendo testimonianze, informazioni,
contributi critici, elaborazioni, eventuali connessioni con altre
pagine web. Per sviluppare percorsi di ricerca e relazioni. Si
cercano persone.
Menù principale
Carlo Michelstaedter, I figli del mare (1910)
"Per un commiato" (1934)
dalla recensione di Attilio Momigliano a La poetica del decadentismo italiano (1936)
Un inedito autobiografico: "Il mio incontro con l'Ariosto" (1938)
La prima lettera di Vasco Pratolini (maggio 1941)
Da una lettera di Carlo Emilio Gadda (27 febbraio 1943)
Aldo Capitini, Ricordi del movimento liberalsocialista a Perugia (1945)
Walter Binni, Uno strumento della nuova democrazia (1946)
Discorso all'Assemblea Costituente sulla scuola pubblica (1947)
Discorso commemorativo di Gandhi all'Assemblea Costituente (1948)
"... l'inconciliabilità (...) di una attività parlamentare e di un lavoro letterario ugualmente impegnativi..." (1948)
Giuseppe in Italia di Giuseppe Raimondi, con una lettera di Raimondi (1949)
Da due lettere di Eugenio Montale (6 novembre 1936, 16 ottobre 1950)
Editoriale della "Rassegna della letteratura italiana" (1953)
Da "Il XX giugno nel Risorgimento italiano" (1955)
"L'agitazione universitaria a Firenze" (1961)
Un dibattito de "L'Espresso" sulla scuola pubblica (11 febbraio 1962),
Da una lettera di Pietro Nenni (2 marzo 1965),
"Omaggio a un compagno caduto" (1966)
"Le giornate romane" (1966)
Un telegramma di Ferruccio Parri (1966)
"A sette mesi dalla morte di Paolo Rossi" (1966)
Da una lettera di Aldo Capitini (1967)
"Estremo commiato" (1968)
da Italo Viola, Critica letteraria del Novecento (gli studi dello stile e della poetica) (1969)
Una lettera a Eugenio Montale (5 giugno 1972),
" 'Professione reporter' di Antonioni" (1977)
" 'Orizzonti di gloria' di Kubrick" (1977)
" Un volto nobile fra tanti ceffi ignobili", inedito e pubblicato sul periodico umbro "Micropolis" nel numero di ottobre 2007, fu scritto da Binni nel dicembre del 1981
Premessa al volume "Umbria", di autori vari, pubblicato dalla Regione Umbria, Uemme Editore (1985)
Il funerale di Giorgio Caproni, con una "cartolina" di Andrea Barbato (1990)
Una dedica di Pietro Ingrao (1994)
Da una lettera di Norberto Bobbio (31 ottobre 1994),
Da una lettera di Sebastiano Timpanaro (1995)
"Questa lotta tra vecchio e nuovo" (1997)
Perugia nella mia vita. Quasi un racconto (1997)
Carlo Michelstaedter, I figli del mare (1910)
Una lettura della prima giovinezza, negli anni del liceo,
rimasta sempre presente nel percorso esistenziale e critico, e
riemersa con insistenza negli ultimi anni della vita.
Dalla pace del mare lontano
dalle verdi trasparenze dell’onde
dalle lucenti grotte profonde
dal silenzio senza richiami –
Itti e Senia dal regno del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro
dei mortali a vivere la morte.
Fra le grigie lagune palustri
al vario trasmutar senza riposo
al faticare sordo ansioso
per le umide vie ritorte
alle mille voci d’affanno
ai mille fantasmi di gioia
alla sete alla fame allo spavento
all’inconfessato tormento –
alla cura che pensa il domani
che all’ieri aggrappa le mani
che ognor paventa il presente più forte
al vano terrore della morte
fra i mortali ricurvi alla terra
Itti e Senia i principi del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro. –
Ebbero padre ed ebbero madre
e fratelli ed amici e parenti
e conobbero i dolci sentimenti
la pietà e gli affetti e il pudore
e conobbero le parole
che conviene venerare
Itti e Senia i figli del mare
e credettero d’amare.
E lontani dal loro mare
sotto il pallido sole avaro
per il dovere facile ed amaro
impararono a camminare.
Impararono a camminare
per le vie che la siepe rinserra
e stretti alle bisogna della terra
si curvarono a faticare.
Sulle pallide facce il timore
delle piccole cose umane
e le tante speranze vane
e l’ansia che stringe il core.
Ma nel fondo dell’occhio nero
pur viveva il lontano dolore
e parlava la voce del mistero
per l’ignoto lontano amore.
E una sera alla sponda sonante
quando il sole calava nel mare
e gli uomini cercavano riposo
al lor ozio laborioso
Itti e Senia alla sponda del mare
l’anima solitaria al suono dell’onde
per le sue corde più profonde
intendevano vibrare.
E la vasta voce del mare
al loro cuore soffocato
lontane suscitava ignote voci,
altra patria altra casa un altro altare
un’altra pace nel lontano mare.
Si sentirono soli ed estrani
nelle tristi dimore dell’uomo
si sentirono più lontani
fra le cose più dolci e care.
E bevendo lo sguardo oscuro
l’uno all’altra dall’occhio nero
videro la fiamma del mistero
per doppia face battere più forte.
Senia disse: "Vorrei morire"
e mirava l’ultimo sole.
Itti tacque, che dalla morte
nuova vita vedeva salire.
E scorrendo l’occhio lontano
sulle sponde che serrano il mare
sulle case tristi ammucchiate
dalle trepide cure avare
"Questo è morte, Senia" – egli disse –
"questa triste nebbia oscura
dove geme la torbida luce
dell’angoscia, della paura;.
Altra voce dal profondo
ho sentito risonare
altra luce e più giocondo
ho veduto un altro mare.
Vedo il mar senza confini
senza sponde faticate
vedo l’onde illuminate
che carena non varcò.
Vedo il sole che non cala
lento e stanco a sera in mare
ma la luce sfolgorare
vedo sopra il vasto mar.
Senia, il porto non è la terra
dove a ogni brivido del mare
corre pavido a riparare
la stanca vita il pescator.
Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò".
Così disse nell’ora del vespro
Itti a Senia con voce lontana;
dalla torre batteva la campana
del domestico focolare:
"Ritornate alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ritornate alla via consueta
e godete di ciò che v’è dato:
non v’è un fine, non v’è una meta
per chi è preda del passato.
Ritornate al noto giaciglio
alle dolci e care cose
ritornate alle mani amorose
allo sguardo che trema per voi
a coloro che il primo passo
vi mossero e il primo accento,
che vi diedero il nutrimento
che vi crebbe le membra e il cor.
Adattatevi, ritornate,
siate utili a chi vi ama
e spegnete l’infausta brama
che vi trae dal retto sentier.
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
nessuna forza vince la morte".
Soffocata nell’onda sonora
con l’anima gonfia di pianto
ascoltava l’eco del canto
nell’oscurità del cor,
e con l’occhio all’orizzonte
dove il ciel si fondeva col mare
si sentiva vacillare
Senia, e disse: "Vorrei morire".
Ma più forte sullo scoglio
l’onda lontana s’infranse
e nel fondo una nota pianse
pei perduti figli del mare.
"No, la morte non è abbandono"
disse Itti con voce più forte
"ma è il coraggio della morte
onde la luce sorgerà.
Il coraggio di sopportare
tutto il peso del dolore,
il coraggio di navigare
verso il nostro libero mare,
il coraggio di non sostare
nella cura dell’avvenire,
il coraggio di non languire
per godere le cose care.
Nel tuo occhio sotto la pena
arde ancora la fiamma selvaggia,
abbandona la triste spiaggia
e nel mare sarai la sirena.
Se t’affidi senza timore
ben più forte saprò navigare,
se non copri la faccia al dolore
giungeremo al nostro mare.
Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò".
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"Per un commiato" (1934)
Nel 1934 Attilio Momigliano lascia l’Università
di Pisa per passare all’Università di Firenze. Sulla
rivista pisana "Il Campano" (settembre-ottobre), Binni traccia un
profilo del "Maestro", alla cui lezione di stile critico
rimarrà sempre legato. Momigliano, colpito dalle leggi
razziali fasciste del 1938 e costretto ad abbandonare
l’insegnamento, morirà nel 1952; Binni ne
pronuncerà l’orazione funebre. Il testo Per un
commiato è anche particolarmente rivelatore della
"poetica" del giovane critico.
Vogliamo parlare brevemente della partenza di Attilio Momigliano
dalla nostra Università, perché non ci lascia un
professore, ma un Maestro che rappresentava per noi, in un raro
equilibrio di sensibilità e sicurezza metodologica, quasi
l’incarnazione di una finissima critica estetica. Se della
critica di Momigliano, in assoluto, non è questo il luogo
di discorrere, qui vogliamo dare alcuni accenni di quelle doti
del critico che già abbiamo notato nell’opera
scolastica del Maestro.
Una mano che dove si posa afferra vita, una moralità
artistica rigorosa che non permette mai l’indeciso, il
superfluo, il naturalistico, un passo formale che non perde mai
la coscienza di sé, al contatto delle varie
personalità poetiche, un modo di aderire all’arte
così schiettamente critico ed immediato da escludere in
modo assoluto ogni professorale retorica. E una capacità
di sceverare tutti i motivi di un poeta, di percorrere tutta la
geografia sentimentale di un’anima, senza mai l’ombra
di attaccamento ad una tesi. Qualità tutte che ci
riconducono ad una indole critica originale, nativa, non
avvizzita dalla cultura e superiore ad ogni elemento ambientale:
basti ricordare in proposito che il Momigliano cominciò a
fare critica estetica quando e dove non si faceva che critica
storica.
Quando arrivammo all’Università e sentimmo per la
prima volta una lezione del Momigliano, parve a noi diciottenni
di essere stati traditi, tanto ci colpiva un’apparente
differenza fra il docente e lo scrittore, tanto il docente ci
pareva, a paragone dello scrittore, raggelato, lontano, nemico
quasi: ci sembrava che non volesse donare nulla di vitalmente suo
e che fosse immensamente annoiato del contatto con gli studenti.
Ma bastarono poche lezioni perché ci accorgessimo quanta
reale ricchezza celasse quell’apparenza di freddezza, e
come una concreta passione critica, nel suo processo di
espressione, fosse la causa di quella dizione lenta, scrutantesi,
senza preoccupazione di oratoria. Allora comprendemmo il mondo
spirituale e la forma critica del maestro e cominciammo perfino
ad amare il suo modo di leggere, che in principio aveva tanto
urtato la nostra cattiva abitudine a dizioni poco formali e
prevalentemente psicologiche. Chi ci darà più certe
letture squisite, spirituali, che ci fecero entrare
immediatamente nel mondo poetico di alcuni minori settecenteschi,
degli stilnovisti, di molti passi del Filippo o della
Gerusalemme?
Ché la lettura del Momigliano, altamente critica
(c’è già il tono di rilievo e di ombra che si
spiegherà ragionativamente nella critica diretta) non ci
sembra priva di quella adesione umana, di quella cosciente
simpatia che ravviva e rende attuale l’opera
d’arte.
In realtà quella sobrietà piena cui abbiamo
accennato per la lettura, si ritrova ampiamente in tutte le sue
lezioni di commento, che costituirono il più deciso punto
di influenza del Maestro sulla nostra formazione.
Momigliano introduce alla parola definitiva, che non è poi
mai formula astratta, ma giudizio rivivificabile appunto nelle
membra del commento che la precede, con una sapiente
presentazione di motivi, con una spiegazione che sarebbe erroneo
ritenere superflua e scolastica in questo modo di fare.
Parlando di dati autori, adopera parole cavate intelligentemente
dai loro originali modi poetici, adatte così a rendere in
atto la loro presenza, e spiegando il testo, enuclea già i
particolari formali e li media con parole sue alla
sensibilità più comune mentre, d’altra parte,
risponde ad un’esigenza di onestà e di
anti-ermetismo che è fondamentale nella sua natura.
Per questa cura di sfuggire ogni involuzione, ogni processo non
pienamente realizzato nella forma, di esigere l’idea netta,
senza ganga sentimentale e senza aloni intellettualistici, ci fu
maestro soprattutto nei contatti personali (in verità
troppo meno frequenti di quanto avremmo desiderato), nei consigli
che a noi, suoi scolari più diretti, dava per i nostri
lavori.
Ci piace ripetere, in conclusione a questa breve nota, che non
abbiamo conosciuto nel Momigliano mai il professore, ma sempre il
Maestro: così nelle lezioni, così nelle
esercitazioni di seminario, in cui le sue osservazioni rare e
strategiche non erano imposte da un’autorità di
cattedra, ma da una reale superiorità critica.
Ora che il Maestro ci lascia, riaffiorano in noi i motivi della
sua personalità, i significati del suo insegnamento e
sentiamo, per quella illuminante comprensione di sentimenti che
è intima alla psicologia dei commiati, che era proprio un
contenuto affetto paterno quello che troppo spesso ci era apparso
un abito di noncuranza.
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Un inedito autobiografico: "Il mio incontro con l'Ariosto"
Negli ultimi anni Walter Binni si impegnò nella ricostruzione autobiografica del proprio percorso esistenziale e storico-critico. Di questi scritti, inediti, iniziamo a pubblicare un primo frammento, dedicato alla ricostruzione dell'incontro con la poesia di Ludovico Ariosto, nel 1938.
Il mio incontro con l'Ariosto (senza veri precedenti nella scuola e persino nell'Università in forma men che svogliata e ben poco congeniale) nacque da un'occasione offertami nella primavera del '38 (ero insegnante a Pavia all'Istituto Tecnico Superiore di italiano e storia) dal mio maestro Luigi Russo che ritenne interessante fare questa prova del mio "ingegno" (in cui credeva) nell'affidarmi l'antologizzazione e il commento del Furioso, delle opere minori per l'antologia I classici italiani da lui diretta. Fiducioso nelle mie doti di adattabilità e nella penetrazione della mia lettura critica, accettai: a Perugia d'estate mi comprai l'edizione critica del Furioso del Debenedetti e quella delle Opere minori del Fatini e me le misi in valigia andando con Capitini per un periodo di vacanza sulle Alpi, sul Renon, a Soprabolzano. E lì in un albergo che era una vecchia villa circondata da alberi, silenziosissima, mi lessi, con crescente entusiasmo tutto il Furioso, prendendo appunti per commento, tagli antologici, discorso introduttivo.
Poi nel '39, passato a Perugia (all'Università per Stranieri) con la mia giovane moglie che copiava a mano (poi divenne un'esperta dattilografa e batté a macchina tutti i manoscritti dei miei libri) i miei sgorbi, buttai giù il commento a una ventina di canti del Furioso e ad una scelta di opere minori. A novembre due avvenimenti diversi intrecciarono nel mio animo il dolore acutissimo per la morte di mia madre (appena cinquantenne) e la gioia per la nascita del mio primo figlio. Donde una spinta eccezionale all'attività (salvezza dal dolore profondo e legame alla gioia vitale) concentrato nella introduzione, getta giù rapidamente, al mio commento già pronto all'inizio del '40 (poi uscito, solo nel '41, nel volume dell'antologia russiana e in un volume separato solo nel'42, sempre da Sansoni, per difficoltà editoriali provocate dalla guerra). Nel commento (in realtà più ricco di spunti di valutazione degli elementi drammatici storici del Furioso che riscoprii e articolai più organicamente molto più tardi) prevaleva un'interpretazione in cui la scoperta di una "poetica" antinaturalistica di una fondamentale direzione artistica tesa a realizzare un "sopramondo" alimentato da un forte senso della realtà, ma fantasticamente "deformato", trasformato in dimensioni soprareali poteva "sbilanciarsi" in forme di "calcolo" eccessive e in equivalenze visive e musicali (e persino cinematografiche) in una fase della mia formazione che risentiva fortemente della teoria della "pura visibilità" (specie di Marangoni) e delle poetiche surrealiste ed ermetiche che si intrecciavano al mio fondamentale storicismo.
Tuttavia la freschezza giovanile di quella lettura e l'impostazione della "poetica" (contro un semplice "sognare" della fantasia ariostesca e una troppo generica "armonia cosmica") mi fruttò, mi sembra, notevoli risultati sia per quel che riguardava il riscatto di valore artistico delle opere cosiddette minori (specie delle Satire tanto più organicamente interpretate in un saggio del '46 su "Belfagor" e quindi in un capitolo del volume del '47) sia nei confronti del Furioso di cui venivano (già nel commento) rilevati episodi e aspetti meno tradizionalmente considerati e anticipata l'organica traduzione del "ritmo vitale" nel "ritmo poetico soprareale" che sarà al centro dell'interpretazione più solida del volume del '47.
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dalla recensione di Attilio Momigliano a La poetica del
decadentismo italiano (1936)
La pubblicazione del saggio La poetica del
decadentismo italiano nel 1936 è oggetto di numerose
recensioni, ed anche di attacchi politici da parte della stampa
di regime a causa della sua apertura culturale estranea agli
stereotipi nazionalisti. Attilio Momigliano recensisce il volume
sul "Corriere della sera" del 9 ottobre.
Possiamo dividere la storia della nostra lirica in due
epoche: dallo stil nuovo al Carducci; e dalla scapigliatura in
avanti. Le rivoluzioni letterarie anteriori al ‘60 sono
poca cosa in confronto con quella che si inizia ai tempi di Praga
e Betteloni, e continua tuttora. Il subcosciente si leva contro
l’intelligenza e la ragione; l’atmosfera e la musica
abbattono la costruzione e la linea. Il vero anticlassicismo e
antitradizionalismo non è quello dei romantici, ma quello
dei decadenti.
Queste sono verità acquisite, ma generiche. Si desiderava
una storia di questo che è il periodo più
complicato della nostra lirica, una storia in cui fossero sciolte
tutte le incertezze e le contraddizioni, segnati tutti i
trapassi, inquadrati i poeti apparentemente solitari. Esce ora,
con questo preciso intento, il libro di un giovanissimo: La
poetica del decadentismo italiano di Walter Binni (Firenze,
Sansoni).
Non è una storia di poesia, ma di poetica: e in questo
è il primo segreto dei suoi risultati. Binni non studia di
proposito i frutti della poesia, ma i programmi: i quali, ancora
tumultuari e rudimentali negli scapigliati, si fanno più
ricchi e più consapevoli in Pascoli e D’Annunzio, i
veri creatori della nuova tradizione, nei crespuscolari e nei
futuristi. Studiando, non la poesia ma la poetica, esplicita o
implicita, egli descrive come in questi lunghi decenni, dagli
scapigliati ai crepuscolari, si venga maturando il nuovo ideale
poetico, fa la storia della coscienza poetica dell’Italia
dal ‘60 ad oggi.
(...) Binni considera quello che va dagli scapigliati ai
futuristi come il nostro primo decadentismo e, mi pare, il solo
che si possa chiamare con questo nome di scuola. Alla soglia
dell’epoca seguente si ferma come se essa, assimilate del
tutto le esperienze europee e superatele, segnasse un periodo
diverso e originale. Forse anche questi limiti del lavoro, assai
discutibili, hanno contribuito a mettere in ombra certi lati di
Pascoli e D’Annunzio, i quali invece agiscono ancora come
fermenti sulla poesia e sulla prosa d’oggi. Direi,
particolarmente sulla prosa.
I dissensi non tolgono che si debba riconoscere a questo libro un
valore eccezionale. Una materia prima fluttuante vi è
sistemata, complessivamente, con una sicurezza di linee ed una
capacità di definizioni che io trovo in pochi dei nostri
critici provetti. Vi leggerete molte cose già dette, ma
non mai con un così chiaro senso dello svolgimento
ininterrotto e logico della storia della nostra cultura e della
nostra letteratura. Per esempio, la poesia di Gozzano – e
quindi dei crepuscolari – era stata definita "una violenta
inserzione di prosa nel Poema paradisiaco": Binni riprende
questo rapporto fra D’Annunzio e crepuscolari, ma riattacca
quell’inserzione di prosa al verismo e alla poetica
pascoliana del "fanciullino"; e quindi sottolinea risolutamente
l’origine italiana dei crepuscolari e non lascia, nella
storia di questi settant’anni, nessun movimento poetico
solitario e indipendente.
Binni è un esempio dell’approfondimento del senso
storico operatosi proprio in seno a quella nostra critica che un
tempo si chiamava estetica. Questa sua qualità è
aiutata da una precisa preparazione teorica e da una singolare
capacità di definire, distinguere e collegare le
personalità poetiche. Finissimo nelle rare analisi (vedi
come isola il decadentismo di Digitale purpurea), Binni
è però sopra tutto un critico sintetico e
intelligente. Non assapora la poesia, ma la giudica e la stringe
in una formula: Lucini, "quasi uno scapigliato ingigantito, fatto
più scaltro culturalmente e più esasperato
polemicamente"; crepuscolarismo, "poesia dell’umiltà
e dell’indifferenza dolente"; alla base del futurismo
c’è "una sfiducia nella parola e nel discorso come
organismo spirituale capace di espressione". Questa nativa
felicità si mescola ancora con la condiscendenza
all’approssimativo, alla parola accettata senza saggiarne
la necessità o la forza espressiva, e con
l’impazienza della composizione. Ma il complesso del libro
dice che questi difetti, assorbiti dalla critica deteriore, sono
potenzialmente superati.
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La prima lettera di Vasco Pratolini
Dall'Archivio del Fondo Walter Binni, pubblichiamo la prima lettera inviata da
Pratolini il 10 maggio 1941: una proposta di collaborazione al periodico "Domani",
"quindicinale dell'intelligenza e del lavoro" la cui direzione è a Roma in Via Frattina 99.
Questa lettera segna l'inizio di una lunga amicizia che si protrarrà fino alla morte di
Pratolini.
Carissimo Binni,
spero che lei conosca questo nostro giornale. Io vi curo la parte letteraria e artistica,
ed è nelle mie intenzioni di inquadrare il giornale il più seriamente e qualitativamente
possibile. La invito perciò a collaborare, nella speranza che lei accetti riconoscendo la
legittimità della mia richiesta. Mi proponga qualcosa. Da parte mia sarei a chiederle, per
il momento, una recensione alla ristampa del Verga. Che ne dice? Mi risponda presto dandomi
assicurazione. I manoscritti occorre che pervengano in redazione entro il l° e il 16 di ogni
mese. Se mi potesse assicurare il Verga per il numero venturo potrei aspettare fino al giorno
18. Il compenso per ora sarà limitato a 150/200 lire.
Con molti saluti dal suo
Vasco Pratolini
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Da una lettera di Carlo Emilio Gadda (27 febbraio 1943)
All'inizio del 1943, in coincidenza con la pubblicazione su "Primato"(febbraio) del saggio binniano Linea dell'arte di Carlo Emilio Gadda, Binni e Gadda si incontrano a Firenze; nell'occasione, Gadda fa omaggio a Binni del volume La madonna dei filosofi (Solaria, 1931), con una dedica affettuosa il cui 'riverbero' può notarsi nel tono autoironico ma anche sinceramente autoanalitico della lunga lettera del 27 febbraio, che non riproduciamo integralmente per vincoli di copyright. La lettera fa parte dell'Archivio del Fondo Walter Binni ed è inedita.
Mittente: Carlo Emilio Gadda. Firenze, Via Repetti 11. Li 27 febbraio 1943-XXI
Caro Binni,
ho letto subito e, naturalmente, con estrema attenzione ed estremo interesse, il suo studio così vasto, così documentato e così acuto, sul mio lavoro: e desidero manifestarle la mia gratitudine per la fatica a cui si è buttato, per la penetrante analisi a cui ha sottoposto la mia prosa.
A parte le conclusioni positive, è questo un saggio di inusitata attenzione verso un autore non sempre "simpatico", e devo credere a una grande fede nei motivi ideali che accomunano il nostro cammino, a una fede nella "chiesa invisibile", che abbiano sorretto la sua anima e la sua penna.
Le sono integralmente riconoscente. Il suo saggio mi è di conforto a perseverare in un momento tempestoso: a ultimare la stesura corazzata della "cognizione del dolore" di cui la stesura di abbozzo è già completa, in redazioni successive. Temevo delle mie forze, non mi rendevo esattamente conto dei loro limiti: lei mi dice "avanti".
Come in un campo ferroviario molto ingombro si dà il passaggio a un treno che avrebbe dovuto uscirne magari dopo d'un altro, così io ho voluto dare il passo ai "Disegni milanesi" (che usciranno da Le Monnier) e a un altro volume di Parenti, per togliermi d'innanzi il loro inciampo e, direi, la loro tentazione. (…)
Rinnoverò a voce il mio "grazie" vivissimo: spero a Perugia, dove tanti motivi intelligenti mi dovrebbero pur portare, un giorno o l'altro. Le angustie del lavoro, le scadenze tormentatrici sono state motivo a rimandare, rimandare…
Gradisca il mio saluto più cordiale. Le assicuro che non dimenticherò il conforto che lei mi offre; la serietà e il valore del suo studio superano "l'oggetto", ciò che conta, tuttavia, è la costruzione comune.
Mi creda l'aff.mo C. E. Gadda
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Aldo Capitini, Ricordi del movimento liberalsocialista a Perugia (1945)
Un articolo ritrovato (mai ripubblicato) di Aldo Capitini. Scritto nei mesi successivi alla Liberazione,
ricostruisce con tratti essenziali e con esemplare semplicità il clima politico-culturale nel quale si sviluppò,
da Perugia e su reti nazionali, l'esperienza del "liberalsocialismo".
Aldo Capitini, Ricordi del movimento liberalsocialista a Perugia
(da "Il Nuovo Risorgimento, 16 giugno 1945)
Per ciò che riguarda me, c'è un antefatto, ed è Pisa, la Normale del '32. Io ero segretario
della Scuola normale superiore ed assistente volontario di Attilio Momigliano. Stavo molto in
mezzo agli studenti: alcuni normalisti erano miei ex-compagni, di quando ero stato anch'io normalista
più anziano e poi perfezionando. Mai iscritto al partito fascista, in quell'anno presi una iniziativa
di propaganda, ma non dalla parte politica, bensì da quella che chiamavo religiosa: reazione allo
storicismo tra gentiliano e neocattolico conciliazionista che lì imperava, nonviolenza, nonmenzogna,
teismo a carattere ultrakantiano, di cui qui non ho il proposito di riferire la storia e i documenti.
Mio collaboratore fu Claudio Baglietto, che poi morì esule; e di lui sarà parlato degnamente. Io persi
il posto della Normale per aver rifiutato di tacere e d'iscrivermi al numero dei più. Venni a casa a
Perugia, studiai molto, davo lezioni.
Nel '34-'35 cominciai a radunare un po' di amici, filofascisti i più, semplicemente per discutere. La
libertà, il corporativismo, la politica estera, poi l'impresa etiopica, questi e simili erano i nostri
argomenti: le discussioni erano accesissime e risonavano nell'angusto studio di Bruno Enei. Cominciavamo
a rasentare il codice. Tra gli altri intervenivano Alberto Apponi, non iscritto al fascismo (ora capo del
Partito d'Azione in Umbria, e presidente del Comitato provinciale di liberazione nazionale), Walter Binni,
Giorgio Graziosi, Mario Frezza, Franco Maestrini, Augusto Del Noce, Averardo Montesperelli. Venivano amici
da fuori, e specialmente da Pisa. Io stesso mi recavo qualche volta a Pisa, a Firenze, a Roma. "Far pensare"
era il mio primo proposito; che quei giovani, e tutti intelligenti e intellettuali, si staccassero di dosso la
seduzione psicologica operata dal fascismo e vedessero la genericità e la falsità delle formule e degli
espedienti. Molto insistevo sulla "non collaborazione". In occasione di quelle discussioni e per loro stimolo,
misi insieme, svolgendo le idee "religiose" della propaganda pisana del '32, una serie di capitoli ordinati,
che mi portai a Firenze nel novembre del '36 per lasciarli a un gruppo di amici intorno ad Emanuele Farneti.
Conobbi in quei giorni, lì a Firenze, il Croce, presentatomi da Luigi Russo. Era con me Walter Binni. Gli
parlammo dello stato d'animo dei giovani, ed egli fu molto contento. All'ultimo momento pensai di fargli
vedere quel dattiloscritto che avevo portato per gli amici, e siccome dovevo partire per Milano col Binni
e Giansiro Ferrata, lo lasciai al Russo, pregandolo di mostrarlo al Croce. Questi mi propose poi di stamparlo;
e così uscirono da Laterza gli "Elementi di un'esperienza religiosa" nei primi giorni del '37. Il Croce parlava
di noi a Napoli, portò la notizia anche a Parigi.
Nel '37 sorse più precisamente il nostro movimento liberalsocialista. Io, Apponi e Binni, tra Perugia ed Assisi
(dove Apponi, pur non iscritto al fascismo, era pretore) combinammo l'iniziativa di promuovere un vero e proprio
movimento etico-politico; ed io scrissi il manifesto, che ancora in Italia non è stato pubblicato, ed uscirà fra
breve in un mio volume "La nuova socialità". Una copia di questo manifesto andò all'estero, e fu pubblicato anonimo
nel primo dei "Quaderni italiani" negli Stati Uniti da un gruppo di italiani: Aldo Garosci, Bruno Zevi, Lamberto
Borghi (che mi aveva conosciuto in Italia) ed altri.
A Firenze avevo conosciuto Guido Calogero, e la nostra amicizia e la nostra vicinanza crebbe sempre più: ci
accordammo per lavorare. Cominciò ad intervenire ai nostri convegni, molto ristretti per sfuggire alla polizia,
che si tenevano in casa mia o ad Assisi. Vennero anche Umberto Morra, Norberto Bobbio, Giuseppe Dessì, Mario Alicata.
A Perugia facemmo il possibile che fu: stare frequentemente con persone del popolo in conversazioni, passeggiate,
diffusione di scritti, di libri; così vincevamo la diffidenza per gl'intellettuali, davamo nuova onda di certezza ai
tenaci popolani ex-socialisti, e costituivamo una specie di sottocittà, nota a noi soli, con tutti gli antifascisti
coscienti.
Io, poi, prendevo spesso il treno, e tenevo i contatti con Milano (gruppi intorno a Parri, Lamalfa, Alfieri, Segre),
Vivenza (gruppo Giuriolo), Bologna (gruppo Raggianti), Ferrara (gruppo Bassani e Dessì), Firenze (gruppo Tristano Codignola,
Enriques Agnoletti, Calamandrei, Ramat), Pisa (la Normale da Russi a Patrono), Siena (gruppo Delle Piane, Bortone), Roma
(gruppo Calogero, Comandino, Muscetta), Bari (gruppo Fiore), e molte altre città. A Perugia e da Perugia molto lavorarono
Luigi Catanelli, Agostino Buda, Antonio Borio, Gianni Guaita, ad Assisi Franco Mercurelli. Ma non posso elencare centinaia
e centinaia di nomi.
E le idee? quali erano le direttive ideologiche? Ho voluto qui fare una storia piuttosto esterna. Delle idee, in succinto,
dirò questo. Volevamo insegnare la libertà ai socialisti, il socialismo ai liberali. Il nostro movimento doveva essere il
luogo di questo incontro, di questa nuova elaborazione. Ma l'assimilazione dei due termini, socialismo e libertà, doveva
essere assoluta; e perciò ricordo lo sforzo che dovevo fare, d'accordo con Calogero, per conservare la denominazione di
"liberalsocialismo", che a qualcuno spiaceva. Pensavamo non ad una mescolanza moderatrice, ma ad una intrinsecità vitalissima,
che salvasse dai due pericoli resi evidenti dall'esperienza: il socialismo come statalismo dittatoriale, la libertà come privilegio.
Vedevamo il socialismo come elemento di sviluppo della libertà che aveva prima combattuto l'assolutismo, poi l'imperialismo, ed ora
doveva combattere la struttura capitalistica. Volevamo, insomma, una libertà concreta, che risolvesse i problemi circostanti. E perciò
in un'antologia che facemmo, con pezzi di libri (molti di Laterza), mettemmo anche passi di socialisti; e il titolo generale era
"Antologia della libertà".
Sorgevano dei gruppi nelle città, e dai gruppi altri gruppi. Essi esploravano la situazione antifascista di ogni città, si tenevano
a contatto con persone di altri partiti. Con l'estero nessun contatto continuo, perché sarebbe stato difficilissimo, e il pericolo
non compensato dal vantaggio. Qualcuno di noi affermava la nonviolenza, nella forma di un rinnovamento più profondo e di una
noncollaborazione attivissima. Ma sempre meno si discusse di quella, ed io la consideravo un'aggiunta personale di chi volesse.
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Walter Binni, Uno strumento della nuova democrazia (1946)
Enrico Lorenzetti, nipote di Enrico Pea, ha riscoperto un documento importante di Walter Binni, che
ci ha inviato con questa nota: "Lucca, 18.XI.04. Caro Lanfranco, ti invio questo articolo di tuo padre
che penso tu non conosca. E' importante perché dice dei suoi rapporti con Aldo Capitini a Perugia. Il
quindicinale socialista lucchese durò poco. Questo è il suo ultimo numero. Era orientato nella linea della
Critica Sociale, e vi scriveva, oltre che Capitini, anche Paolo Rossi." L'articolo, dal titolo Uno strumento
della nuova democrazia apparve sul periodico "Democrazia Socialista", "quindicinale indipendente di politica,
economia e storia", direttore responsabile Mario Frezza, A. II, n. 1, Lucca, 20 gennaio 1946, p. 5. Ringraziando
Enrico Lorenzetti per aver ritrovato un documento significativo delle idee di Binni nel periodo immediatamente
successivo alla Liberazione, riproduciamo il testo in questa sezione del sito, e nella sezione "Tracce e documenti".
Uno strumento della nuova democrazia (gennaio 1946)
Di fronte alla cosiddetta democrazia liberale del primo novecento italiano (quella a cui Parri negava il diritto del nome e del contenuto democratico) esercitata dai prefetti, dai questori, dai carabinieri, a tutela di un ordine reazionario e capitalistico, l'esperienza tragica del fascismo, che dovrebbe aver tolto ogni illusione sulla vera natura delle forze conservatrici e distinto con brutale evidenza i fatti dalle parole, ha fatto sorgere negli elementi intellettuali migliori e nel popolo l'esigenza vigorosa (già viva nel socialismo) di una vera democrazia, diretta, basata sulla reale partecipazione di ogni cittadino alla amministrazione, al controllo della cosa pubblica. Mai come ora dopo un'orgia di sciocco centralismo, di oppio conformistico, di esecuzione indiscussa degli ordini "romani" si è sentito in Italia il bisogno essenziale di organismi popolari che non siano d'altronde semplice espressione di particolari interessi di categoria chiusi come compartimenti stagni e accanto ai quali gruppetti di intellettuali diano vita a discussioni accademiche, a esercitazioni teoriche sradicate dalla realtà viva di ogni giorno. E la stessa formula dei Comitati di Liberazione, che tanta vitalità ha avuto nella lotta clandestina e nella prima fase della vita democratica, non è riuscita ad assolvere quella funzione di autoeducazione popolare e di periferico autogoverno che il mondo moderno, avviato alla soluzione socialista, pone in termini così precisi ed impellenti.
In una città dell'Italia centrale, Perugia, cadevano ancora i proiettili dell'artiglieria nazista quando già nella sala della Camera del Lavoro, alla luce fantomatica di una lampada a gas si radunavano operai, impiegati, studenti, donne non per ascoltare una conferenza, ma per discutere liberamente tutti i problemi immediati e lontani, amministrativi e politici che la situazione poneva a loro come abitanti di quella particolare città, come italiani, come uomini e donne di un mondo assetato di una concreta, precisa libertà. Altre donne, altri uomini, di strati sociali "più alti" preparavano ricevimenti e balli per gli ufficiali dell'A.M.G., politicanti di altri tempi preparavano combinazioni adatte a mantenere quella protezione di vecchi interessi e di vecchi privilegi che con nuove parole fa corrispondere ad un'illusoria libertà una sostanziale oppressione.
La riunione affollata di popolo era stata promossa da un intellettuale di notorietà nazionale, figlio del popolo e vissuto in mezzo al popolo, Aldo Capitini, perseguitato e incarcerato dai fascisti, ma la sua idea precisa della nuova istituzione, del Centro di Orientamento Sociale, aveva trovato una immediata adesione tra i giovani dei partiti di sinistra che in gran parte erano stati destati alla vita politica proprio dalla sua parola e dalla sua opera. E la simpatia che circondò subito il nuovo organismo, la sua rapida diffusione in città e nella provincia, malgrado la naturale ostilità e lo scherno inevitabile di tutti coloro che diffidano del popolo pur tra le platoniche promesse di riforme e di progressismo, dimostrano subito la attualità e la concretezza dei C.O.S.
Il carattere essenziale dei C.O.S. è infatti la corrispondenza ampia e minuta a questo bisogno di libera discussione calata in problemi vivi che è il più significativo segno di un antifascismo costruttivo, di una volontà democratica non astratta. Nel C.O.S. si discutono con una libertà e una tolleranza reciproca, che tanti presunti amici del popolo credono privilegi di pochi eletti, anzitutto i problemi dell'amministrazione locale, varianti da città a città, da paese a paese, da rione a rione: l'alimentazione, i trasporti, l'epurazione, la disoccupazione, la scuola, e a queste assemblee popolari vengono invitati volta a volta i responsabili delle varie branche dell'amministrazione, che devono fornire spiegazioni, ascoltare miglioramenti e proposte, condotti inevitabilmente ad un attenzione e ad una sollecitudine esecutiva, ad una coscienza della loro vera natura di funzionari pubblici, che capovolge la triste abitudine che faceva di ogni burocrate un gerarca , un indiscusso "superiore". Si attua così un vero controllo democratico e i cittadini si abituano a considerare come propri interessi gli interessi della città e del paese, del rione, rompendo così il tradizionale atteggiamento di passività, di assenteismo che permette il cattivo funzionamento amministrativo, le ingiustizie piccole e grandi, alla lunga la dittatura e la servitù.
Ma accanto a queste discussioni spesso e nella stessa seduta e con gli stessi partecipanti, anche i problemi politici sono all'ordine del giorno dei C.O.S.: i programmi dei partiti vengono illustrati e criticati dai competenti e da qualsiasi convenuto, portando ad una chiarificazione, ad un orientamento che supera l'ambito dei comizi, della propaganda unilaterale; i problemi della Costituente (repubblica, socializzazione, riforma agraria, bancaria, autonomie regionali) vengono esposti da ogni punto di vista, ed ogni problema che l'assemblea ritenga interessante ed attuale forma oggetto di sedute esaurienti, spregiudicate.
Da una semplice esposizione del funzionamento dei C.O.S. che mercé l'opera di Aldo Capitini e di molti collaboratori si sono diffusi ormai in Umbria, in Toscana, nel Lazio, nelle Marche, può apparire chiara la loro enorme importanza e l'interesse che essi hanno già destato e destano in seno al nostro Partito, che ovunque se ne è fatto attivissimo promotore.
Se il Socialismo ed il Partito socialista rappresentano gli interessi vivi e concreti del popolo lavoratore e operano per una rivoluzione radicale che come sua mèta ha quella società libera ed eguale in cui, secondo le parole di Marx "il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti", è naturale che una simile istituzione possa apparire uno strumento efficacissimo di lotta e di educazione che noi, democratici e rivoluzionari, concepiamo inscindibili, continue, inesauribili.
Accanto alla struttura sempre più organizzata e combattiva delle sezioni che lottano per la conquista proletaria del potere, questi organismi aperti significano un aumento di azione dell'idea socialista, una sua realizzazione concreta e fin d'ora attuale che porterà su di un piano sempre più preciso e sempre più umano la formazione della nuova civiltà socialista.
WALTER BINNI
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Discorso all’Assemblea Costituente sulla scuola pubblica
(1947)
Eletto deputato del Partito Socialista all’Assemblea
Costituente per la circoscrizion e Perugia-Terni-Rieti nel 1946,
Binni è tra i protagonisti, insieme con Piero Calamandrei,
Concetto Marchesi, Tristano Codignola, della lunga battaglia
sugli articoli 27 e 28 della Costituzione (che poi diverranno gli
articoli 33 e 34 nel testo definitivo) fra sostenitori della
scuola pubblica e sostenitori della scuola privata.
L’intervento che segue fu pronunciato nella seduta del 17
aprile 1947.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole
Binni. Ne ha facoltà.
BINNI. Onorevoli colleghi, il mio intervento, fatto evidentemente
non come giurista, quale io non sono, ma dal punto di vista di un
uomo di cultura, si limita solamente a una rapida discussione del
problema trattato negli articoli 27 e 28, cioè del
problema della scuola, problema di tanta serietà e di
tanta importanza che, giustamente, in un recente suo articolo,
Guido De Ruggiero poteva scrivere che gli italiani non potranno
dire di aver iniziato la loro ricostruzione nazionale se non
avranno posto questo problema in primo piano, se non tenteranno
di risolverlo coerentemente.
Due grandi principi vengono affermati nei due articoli 27 e 28; e
se anche la loro formulazione può essere in qualche modo
emendata o trovata forse generica e un po’ retorica, questi
due grandi principi, cioè la libertà
d’insegnamento e la possibilità per tutti di entrare
in qualsiasi grado della scuola, evidentemente corrispondono al
punto storico della nostra società, corrispondono alle
esigenze interne del mondo moderno, corrispondono alle esigenze
cioè di portare il maggior numero di persone al possesso
dell’istruzione, della tecnica ed alla consapevolezza
conseguente di questo possesso; a quello sforzo di
profondità e di vastità che, secondo uno scrittore
francese, André Malraux, rappresenta il dramma e
l’esigenza del mondo moderno: dare al numero maggiore
possibile di persone il possesso di cognizioni, ma insieme dare
ad esse la possibilità e la consapevolezza della loro
destinazione umana.
Naturalmente, sul principio dell’afflusso di forze nuove,
di forze fresche, di forze popolari nella scuola credo che il
consenso sarà facilmente ottenuto da parte di tutti, anche
perché si potrebbe dire con qualche malignità che
forse, anche quelli i quali non ammettono questo ingresso delle
masse, delle moltitudini sul terreno della cultura e della
scuola, non avrebbero certamente il coraggio di esprimersi
diversamente. Su questo principio sarebbe facile evidentemente
per un socialista fare della demagogia, fare della retorica; ma
in questo caso ogni demagogia, ogni retorica è annullata
dalla realtà stessa dei fatti, dalla necessità che
il nostro Paese ha in questo momento di rinsanguare in ogni modo
la sua stanca classe dirigente. Credo perciò che su questo
punto non occorra spendere troppe parole. Tutti sentiamo
egualmente questo problema che non è soltanto un problema
di giustizia sociale, ma, come già un oratore precedente,
mi pare l’onorevole Giua, ha detto, è un problema di
utilità nazionale, riguarda un bene di tutti.
Molto più delicato invece è il principio che
afferma la libertà d’insegnamento; molto delicato,
anche perché questo afflusso che noi desideriamo e
vogliamo di forze fresche, questo criterio unico del merito che
noi vorremmo garantito nella Costituzione con la più
energica sottolineatura (e perciò nell’emendamento
all’articolo 28 sosterremo che si debba dire "solo i capaci
i meritevoli anche se sprovvisti di mezzi ecc."), porta con
sé un particolare problema nel creare nella scuola le
condizioni adatte per accogliere queste nuove forze che vi
entrano. Questo punto della libertà d’insegnamento
è uno di quei punti e di quei principi in cui la grande
parola "libertà" è suscettibile di troppo diverse
determinazioni. Può essere qualche volta perfino, come si
dice in certi stili nisi mendacium, non altro che
menzogna, può essere un tranello, può essere
pericoloso tranello. Evidentemente proprio su questo punto si
può spiegare il contrasto e vorremmo dire che non ci si
dolga se in casi di tanta importanza, si verrà a svolgere
un contrasto nei suoi veri termini, specialmente di fronte ad una
società come quella italiana, in cui troppo spesso
l’uso tendenzioso e antitetico delle stesse parole ha
generato una strana confusione.
Molti equivoci sono sorti intorno a questa parola e
particolarmente intorno a questo principio della libertà
d’insegnamento. Il mio intervento vorrebbe avere
l’effetto di sgomberare possibili equivoci da parte nostra.
E, poiché io credo di parlare non solo per me e per il
Gruppo che rappresento, ma anche per le sinistre in genere, e per
tutte quelle forze democratiche di origine schiettamente e
profondamente liberale e democratica che si trovano in questa
Assemblea, penso che in questo caso noi tutti almeno, vorremmo
sgomberare da possibili equivoci questo principio: e con
ciò renderemo più facile anche il combattimento,
anche la battaglia che certamente avverrà su questo punto.
Infatti quando si parla di libertà di insegnamento, da
parte di alcuni si vuole arrivare a conseguenze che noi non
possiamo accettare e che sono in contrasto con lo stesso
principio da cui dovrebbero derivare. Voglio chiarire che si
comincia a dire da parte di alcuni che se c’è una
scuola libera, che se c’è libertà della
scuola, su questa strada si incontra come ostacolo la scuola di
Stato, la scuola che alcuni dicono monopolistica; e secondo
alcuni si arriverebbe perfino ad una equazione del tutto
inaccettabile fra scuola libera e scuola privata. E questo io
trovo proprio in una pubblicazione recente di un cattolico, Dante
Fossati, che dice: "Non parliamo più di scuola pubblica e
scuola privata; parliamo di scuola di Stato e scuola libera".
Vedete dunque, onorevoli colleghi, a quale punto di
contraddizione si può arrivare: a negare il carattere di
scuola libera proprio a quella scuola che secondo me e secondo
molti altri e perfino secondo alcuni colleghi democristiani,
è invece la scuola veramente e, in senso superiore,
unicamente libera. La scuola in cui tutti quanti senza tessera e
senza certificato di fede possono entrare; la scuola in cui il
merito dei discenti e dei docenti è misurato soltanto
sulla loro buona fede e sulle loro capacità; la scuola per
cui già un grande socialista, della cui democrazia nessuno
dubita, cioè Turati, diceva che, in senso più
stretto, di libertà della scuola, di scuola libera si
può parlare solo nella scuola di Stato, "campo aperto a
tutte le concezioni della vita, onde il dovere assoluto del
rispetto incondizionato della libertà di coscienza". E un
altro scrittore socialista, Rodolfo Mondolfo, rivolgeva un invito
che noi qui vorremmo ripetere e rivolgere a tutti i colleghi di
qualsiasi partito e di qualsiasi fede; l’invito a non
considerare mai le giovani coscienze, quasi come colonie di
sfruttamento; di rispettare profondamente in loro la
possibilità appunto di questa libera formazione che si
può trovare solo nella scuola di Stato.
Né occorre fare lunghe disquisizioni su questo; è
la nostra esperienza che parla a favore della scuola di Stato;
è il fatto che tutti, o quasi tutti noi siamo insieme
cresciuti in questa scuola di Stato, eppure siamo diventati in
casi diversi, cattolici e buoni cattolici; socialisti, e buoni
socialisti; comunisti, e buoni comunisti.
Ma che cosa abbiamo trovato in quella scuola - anche se molti di
noi l’hanno frequentata nel suo periodo più triste -
che cosa abbiamo trovato che ce la fa sentire così cara e
così unicamente libera? Abbiamo trovato lì dei
professori che potevano portare voci diverse, e gli scolari
venivano educati secondo i meriti, la capacità, la buona
fede. Si può dire che una simile garanzia di
libertà, di lıbera formazione, venga data dalla
scuola privata?
Io non credo. Tutti sappiamo bene che ci sono scuole private e
scuole private. Ci sono scuole private di origine commerciale, di
origine di guadagno, scuole private in cui il limite più
evidente, più serio, più immediato è appunto
questo: che non è tanto uno scopo educativo che esse si
propongono, quanto piuttosto uno scopo di guadagno, uno scopo di
iniziativa industriale. E in verità, per queste scuole, se
noi ammettiamo che ci siano a volte delle persone che le creano
con uno scopo più alto, dobbiamo dire che lì non si
tratterà tanto di una preoccupazione educativa, di libera
formazione, quanto piuttosto di una preparazione utilitaristica,
di una preparazione in vista di esami di una preparazione per
rendere più facile il conseguimento di certi diplomi e,
diciamolo pure, per istruire gli scolari nelle gherminelle
più astute per poter poi frodare gli esaminatori, per
conseguire un diploma.
Non è per questa scuola certamente che noi possiamo
scaldarci, non è per questa scuola di iniziativa privata
che gli zelatori della libertà della scuola nella sua
forma più ampia possono sentir battere il loro cuore.
Ma c’è un altro tipo di scuola privata, che è
la scuola di parte o la scuola confessionale. E questi due
termini, io li uso in questo momento senza particolari
riferimenti, perché evidentemente è di parte anche
una scuola che dipenda da autorità religiose, come
è confessionale anche una scuola che dipendesse da un
partito: sono, direi così, confessionali o di parte nel
senso più vasto della parola, in quanto esse non mirano a
formare una persona completamente libera e cosciente della
dignità di tutte le varie verità, ma mirano
piuttosto a formarla secondo un modello prefissato, secondo un
figurino; e noi uomini moderni lottiamo proprio contro i modelli,
proprio contro i figurini; lottiamo per uomini che siano
coscienze aperte ed animi liberi, credendo fermamente che
sarà un miglior cattolico, o un miglior socialista, o un
miglior comunista colui che, nella sua infanzia o nella sua
gioventù, avrà avuto questa educazione più
larga che non piuttosto colui che sarà stato nella sua
infanzia e nella sua gioventù come una monade chiusa ed
ostile.
Noi, in omaggio ad un principio più vasto e formale,
possiamo ammettere ed ammettiamo che alcuni individui desiderino
una formazione chiusa (noi la qualifichiamo così).
Possiamo ammettere un’aspirazione, che è per noi
sostanzialmente illiberale, e antidemocratica, ma non possiamo
ammettere che la forza di queste scuole di parte possa ad un
certo punto diminuire l’efficienza o addirittura far
decadere completamente la scuola di Stato, la scuola libera e
capace di realizzare una libera formazione.
È su questo punto che, senza equivoci e con la
lealtà, e rendendo omaggio ai nostri avversari proprio in
quanto consideriamo che essi sanno quello che vogliono, come noi
sappiamo quello che vogliamo, è su questo punto che noi
sosterremo la nostra battaglia, perché sull’equivoco
della libertà dell’insegnamento non si venga a
negare la vera libertà della scuola e la vera libera
formazione delle coscienze.
È su questo punto che io vorrei dire - e lo dico
specialmente rispetto ai democristiani per quanto possa
dispiacermi che sempre dalla sinistra ci si debba rivolgere
proprio ai democristiani - che in sostanza questa scuola di parte
viene ad insidiare, viene a limitare la scuola pubblica; che
questa scuola di parte sta dando in questo momento un assalto
sfrenato alla scuola dello Stato.
Essa è soprattutto, infatti la scuola di una parte, la
scuola di una confessione. Non ci si venga a dire che noi dicendo
ciò, mostriamo di essere degli adoratori dello Stato, che
in noi c’è una sfrenata statolatria; non ci si venga
a dire che noi ci contrapponiamo alla tesi "liberale", mettendo
in contrasto il principio liberale con il nostro pensiero,
perché, secondo noi, invece la tesi "liberale" più
genuina è proprio per la scuola di Stato.
E qui ci conforta non solo la nostra esperienza storica, non solo
l esperienza della scuola italiana, ma ci confortano
altresì le dichiarazioni che abbiamo fatto sopra. Non si
tratta di un’esigenza liberale contro gli adoratori dello
Stato, ma, se mai, si tratta di utilizzazione della tesi liberale
che viene fatta per uno scopo che è tutt’altro che
liberale, da parte di una confessione che per lo meno trae le sue
origini da dottrine che non hanno alcuna comunanza con la
dottrina liberale, dottrina squisitamente e profondamente nata
dal pensiero moderno.
Possiamo dire a questo proposito, quando si fa questa
contrapposizione, che dovremmo non pensare ad un contrasto fra
coloro che adorano lo Stato - che saremmo noi della sinistra - e
coloro che adorano la libertà: ma piuttosto riferirci
all’immagine di coloro che adorano il monopolio e lo
cercano per la strada della libera concorrenza.
Questo criterio è un criterio assai utile per distinguere
quelli che sono profondamente liberali e democratici da coloro
che liberali e democratici non sono.
Quando un partito, quando una confessione, ha dimostrato in altri
tempi e condizioni - e lo può dimostrare tuttora - di
essere pronto ad esercitare un monopolio e viceversa ricorre alla
libera concorrenza quando non può esercitare questo
monopolio, è evidente che la seconda linea, quella della
libera concorrenza è puramente sussidiaria, è una
linea di ripiego tattico.
Quando noi pensiamo a questa tesi della libertà di
insegnamento nel suo equivoco di libertà per la scuola di
parte, vediamo che questa è una tesi che è nata con
l’utilizzazione di idee liberali da parte della tesi
cattolica. Non farò una lunga dimostrazione storica. So
già che altri colleghi sono pronti per questo. So, ad
esempio, che il collega Bernini, che ha dato prova di una
particolare competenza in un suo recente libro
sull’argomento, parlerà su questo tema. Ma
basterà ricordare che la Chiesa cattolica, dopo avere
largamente usufruito dei regimi assoluti in Francia, dopo
l’avvento di Luigi Filippo, nel 1831, non potendo
più sfruttare le posizioni di privilegio nel campo
scolastico, ripiegò su questa nuova linea con tale
discordanza, che in quel periodo molti cattolici francesi
rimasero sbandati e stupiti, tanto più che in quello
stesso periodo una enciclica di Gregorio XVI ribadiva la
scomunica, la condanna di ogni tesi liberale. E questa tesi di
origine liberale, ma sfruttata con scopi non liberali, coesisteva
con le tesi di carattere assoluto in quegli Stati assoluti, come
i principati italiani, in cui la Chiesa nello stesso periodo si
guardò bene dal fare campagne per la libertà della
scuola e dell’insegnamento. E senza spingerci troppo in
questo esame di carattere storico, vogliamo anche dire che quando
da parte di polemisti cattolici si dice che quella è la
vera tesi della libertà, che lì c’è la
vera libertà d’insegnamento, noi vogliamo ricordare
loro che questa libertà dell’insegnamento trova
subito in campo cattolico un grosso e naturale limite che nasce
dalla dottrina cattolica. Quando noi pensiamo ad alcuni testi
autorizzati, o magari alle pubblicazioni della "Civiltà
Cattolica" o di "Vita e pensiero" o di "Etudes", quando
noi leggiamo testi ufficiali come alcune encicliche papali,
vediamo che da parte cattolica, mentre si proclama la
libertà d’insegnamento, nello stesso tempo si porta
una distinzione che viene a minare quella stessa libertà
tanto conclamata.
Si fa distinzione infatti fra verità ed errore. I1 padre
gesuita Barbera, in una sua notevole pubblicazione sulla
"Civiltà Cattolica", nel 1919, diceva:
"Libertà per tutti naturalmente, però non possiamo
ammettere, per esempio, una scuola anarchica". E poi ancora:
"Perché tutto ciò? Perché la verità
assoluta è una sola, e solo ad essa in linea assoluta
spetta di comparire nell’insegnamento".
E nell’enciclica di Pio XI, già citata questa
mattina dal collega Preti, a proposito dell’educazione
cristiana della gioventù (che fu emanata dal Papa quasi a
commento del Concordato), si viene a dire che dal momento in cui
Dio si è rivelato nella religione cristiana, non vi
può essere nessuna perfetta educazione se non quella
cattolica; e poi si precisa - usufruendo di due pericolosissime
parole inserite nel Concordato, e che mediante l’articolo 7
ci ritroveremo di nuovo davanti: "fondamento e coronamento della
educazione è l’insegnamento della dottrina
cattolica" - che questo coronamento e fondamento si possono
intendere sul serio solo se tutta l’educazione viene
saturata da princípi cattolici.
Non vi è dunque possibilità di equivoci su questo
punto; quando si fa distinzione fra verità ed errore, e
per errrore s’intende inevitabilmente tutto ciò che
si scosta dalla precisa linea cattolica, evidentemente è
ben difficile proclamare poi la libertà piena
d’insegnamento per tutti.
Sono dunque i colleghi democristiani che in qualche modo, e non
so esattamente in quale forma, porteranno la loro discussione su
questo punto, cercheranno di far prevalere la tesi della scuola
libera nel senso della libertà della scuola di parte. Se
la libertà della scuola di parte potesse avere il suo
pieno sviluppo, porterebbe inevitabilmente alla distruzione della
scuola libera, porterebbe all’urto delle diverse
concezioni, porterebbe, secondo noi, alla fine di ogni formazione
veramente libera e veramente democratica. È per questo che
noi crediamo che la scuola di Stato vada difesa e che chi difende
la scuola di Stato non fa opera di parte, ma fa gli interessi del
Paese e gli interessi della democrazia.
Ed è per questo anche che ci si preoccupa quando vediamo
che da alcune parti si chiede la parità tra scuola privata
e scuola di Stato. Bisogna intenderci bene chiaramente su questa
parità. Noi abbiamo detto - e lo dimostreremo anche in
sede di emendamento - che non neghiamo il principio della
libertà di insegnamento, non neghiamo affatto che, se
alcuni cittadini lo desiderano, si facciano da loro una scuola di
un certo tipo, una scuola di forma "chiusa", ma noi non vogliamo
che alla scuola di Stato vengano strappate concessioni che la
metterebb ero in condizioni di assoluta inferiorità.
Quali sono i punti sui quali noi non possiamo cedere, i punti su
cui noi siamo disposti a dare battaglia? Sono tre punti che sono
stati portati questa mattina in discussione da altri
colleghi.
Anzitutto lo Stato solo ha diritto di concedere diplomi allo
Stato solo compete il diritto degli esami. E su questo punto
vorrei illuminare i colleghi, perché bisogna guardare che
cosa si intende per esame di Stato, dato che questa precisa
formula "esame di Stato", comparve in quella carta della scuola,
in quella carta Bottai che ha poi rovinato la scuola italiana,
perché ha ridotto gli esami di Stato ad una triste burla,
in quanto non è più una commissione governativa che
esamina, non è più presso la scuola di Stato che si
fanno gli esami ma tutto si è ridotto all’invio
nelle varie scuole di commissari che purtroppo, il più
delle volte, vengono anche facilmente influenzata
dall’ambiente in cui improvvisamente ed isolatamente
vengono a trovarsi. Così ogni dignità, ogni
controllo è tolto alla scuola italiana. Noi intendiamo
invece gli esami di Stato nella loro forma originaria o in una
forma che si possa studiare, ma che garantisca la dignità
della scuola.
Ma, oltre gli esami, c’è un altro punto importante a
cui noi teniamo. Compare e non so come mai ci sia entrata -
compare nel progetto della Costituzione, ad un certo punto, la
parola estremamente equivoca di "parificazione". I colleghi
sapranno che in Italia attualmente, oltre alle scuole
governative, oltre alle scuole che non chiedono che una generica
autorizzazione, ci sono le scuole pareggiate e quelle parificate.
E vorrei far notare la grande differenza che c’è tra
queste due forme: la forma più seria, più anUca, la
forma del pareggiamento, la forma che garantisce la
dignità della scuola in quanto i suoi insegnanti
provengono da concorsi e la parificazione che è un
po’ come un’etichetta che viene posta su una
bottiglia, convalidandone il contenuto senza conoscere di che
contenuto si tratti. Ed è di questo ultimo istituto che le
scuole private si sono awantaggiate dopo la carta Bottai, anche
se il decreto di istituzione della parificazione risale al 1925.
Ebbene, io vorrei far osservare che anche in questo caso chi ha
approfittato, chi ha utilizzato soprattutto la parificazione sono
state le scuole di parte, quelle uniche scuole di parte che
possono esistere in Italia. Perché anche su questo punto
bisogna ben chiarirci. Non ci si venga a dire che questa
parità della scuola di parte può interessare i
comunisti, i socialisti o i repubblicani, perché noi
sappiamo, e lo dicono i fatti, che in Italia, nelle nostre
condizioni storiche, non c’è possibilità se
non da parte cattolica di avere delle scuole confessionali.
Orbene le scuole confessionali sono quelle che più hanno
cercato di ottenere la parificazione. Le statistiche parlano
chiaro. Mentre fra le scuole pareggiate quelle che dipendono da
autorità religiose sono soltanto 12, e quelle dipendenti
da enti morali sono 300, quando si passa al capitole scuole
parificate, in cui si contano 400 o 450 scuole dipendenti da enti
morali, le parificate dipendenti da enti religiosi salgono a
1160. Il che permette di pensare che ci sia comunque una strana
preferenza dell’autorità religiosa per questa forma!
Quando verremo alla proposta degli emendamenti noi proporremo
dunque che questa formula equivoca della parificazione sia
esclusa, e che si adotti la formula più seria del
pareggiamento.
Un ultimo punto su cui non potremo non scontrarci con i
rappresentanti della Democrazia cristiana è la questione
della concessione di sovvenzioni. Stamane ho sentito qualcuno di
parte democristiana osservare: ma nessuno le chiede! Io sarei
lietissimo che nessuno le chiedesse, ma temo che questo mia
speranza non si realizzerà (Interruzioni).
MORO. Non le abbiamo chieste e non le chiediamo!
BINNI. Naturalmente siamo abbastanza ben preparati per saper
distinguere la forma più rozza dalla domanda di queste
sovvenzioni, la forma cioè diretta della sovvenzione alla
scuola, dalla forma più elegante, per cui la sovvenzione
è data alle famiglie, agli scolari, o va alle scuole
mediante la cosiddetta "ripartizione scolastica". Ma noi terremo
in ogni caso fermo che sovvenzioni a scuole private non si devono
dare. Noi non accetteremo e credo di interpretare il pensiero di
molti, non accetteremo la richiesta di alcuna sovvenzione a
scuole private, perché queste sovvenzioni hanno
l’unico risultato di dare maggiore forza alle scuole
private diminuendo l’efficienza delle scuole di Stato.
Basta pensare, per ricordare l’argomento più umile,
che molto spesso i fautori della scuola privata vengono a mettere
in dubbio la forza della scuola pubblica, dicendo che la scuola
pubblica gode di un piccolo bilancio, e che, quindi, è
molto bene, nell’interesse nazionale, che la scuola privata
possa integrarla nelle sue deficienze. Ma se la scuola di Stato,
che ha già tante difficoltà e ha un così
magro bilancio, dovesse spartire questo magro bilancio con le
scuole private, decadrebbe anche dalla situazione in cui
attualmente si trova a causa di tutte le concessioni che lo Stato
delittuosamente ha fatto al momento della guerra e della carta
Bottai.
Non possiamo ammettere questa ripartizione scolastica,
perché nella situazione attuale - ed è inutile
riferirsi a condizioni di là da venire - noi sappiamo che
di scuole confessionali non ci sono altro che le cattoliche,
sicché la scuola statale se dovesse dividere il suo
bilancio con esse finirebbe per essere liquidata del tutto, a
loro unico favore e non a favore della "libertà".
È perciò che io credo nella possibilità di
un contrasto e termino il mio intervento senza far troppi di
quegli inviti, che abbondano in questa Assemblea, senza quegli
allettamenti che secondo me qualche volta diminuiscono il
rispetto dei nostri avversari.
Io, però, devo dire due cose ancora ai colleghi
democristiani.
Da una parte, che, in verità, quando sento come ho sentito
stamane l’onorevole Colonnetti dire che anch’egli ha
voluto che i suoi figli andassero nella scuola pubblica e che per
lui la maggior libertà è nella scuola pubblica,
provo veramente enorme simpatia e gioia; sento che in questo caso
potrei dirvi: colleghi democristiani, non rifiutate questo
terreno comune, così importante per la democrazia
italiana.
Vorrei dirvi che la scuola pubblica ci unisce e la scuola di
parte ci divide.
Se penso ai miei figli ed ai figli di alcuni miei amici
democristiani, non vorrei che essi fossero separati e desidererei
che, come noi siamo stati educati insieme, così anche essi
lo fossero.
Vorrei che non fosse rotta quella solidarietà,
quell’unità, formatasi anche nell’esperienza
dura della lotta contro il tedesco oppressore, vorrei che non si
venisse ad infrangere, perché c’è bisogno
assoluto di questa comprensione democratica; la quale non si
può avere, se formiamo gli individui secondo un modello,
secondo una linea, secondo un criterio inevitabile di parte.
Questo è l’unico invito, che facciamo non solo come
uomini di scuola, ma come uomini liberi, che tengono senza
sottintesi alla democrazia.
D’altra parte, voglio dire che, se la battaglia che
potrebbe nascere nella Costituente dovesse andare fuori dalla
Costituente e dovesse diffondersi nel Paese - come mi pare che si
accenni attraverso certi appelli, che pervengono anche a noi,
attraverso certe pubblicazioni d’un Fronte della famiglia,
con tante firme, con milioni di firme (e direi, fra parentesi,
che non mi pare di buon gusto portare qui dentro il peso di
firme, che saranno certamente sincere, ma qualche volta sono del
tutto ignare) - se questa battaglia dovesse uscire dalla
Costituente, allora la combatteremmo, con la certezza di non
essere stati noi a scatenarla.
Noi non portiamo un attacco, ma una difesa; non andiamo
all’assalto dell’altrui posizione, ma vogliamo
difendere la posizione della libera formazione.
Su questo punto saremo irremovibili, e lo dico senza nessuna
retorica e senza nessun astio, ma con la coscienza di difendere
non una parte, bensì l’unica possibilità di
una formazione di persone aperte, capaci di una lotta
democratica.
Senza questo, la nostra Nazione non può risorgere e non
potrà gettare le premesse d’una società degna
di questo nome, e resterà invece in quel ruvido mondo di
rapporti ostili e diffidenti da cui dobbiamo al più presto
liberarci. (Applausi a sinistra - Congratulazioni).
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Discorso commemorativo di Gandhi all’Assemblea
Costituente (1948)
Nell’ultima seduta dei lavori dell’Assemblea
Costituente, il 31 gennaio 1948, a Binni è affidato il
compito di commemorare la morte di Gandhi, a nome
dell’intera Assemblea.
BINNI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BINNI. Credo di interpretare l’animo concorde di tutti i
deputati italiani e di tutti quegli italiani che si sentono, nel
senso più ampio e pieno della parola, veramente "cittadini
del mondo", ricordando qui tra noi quell’altissima vita che
ieri una mano folle o prezzolata ha voluto delittuosamente
troncare; ricordando che se, in India, turbe infinite di uomini e
donne piangono ancora oggi la scomparsa del loro capo spirituale,
anche in altre parti del mondo, anche nell’Europa
occidentale, altri uomini hanno provato ieri, all’annuncio
di quel triste avvenimento come un improvviso crollo,
un’improvvisa, un’infinita tristezza.
Un’immensa tristezza, e vorrei dire in queste brevissime
parole, anche quasi un senso di infinito orgoglio:
l’orgoglio che si prova noi uomini quando, nella nostra
condizione umana, fra lotte e vergogne infinite, sentiamo delle
voci pure ed altissime elevarsi, vediamo atti di sacrificio e di
abnegazione; perché io credo veramente che, se la cosa
più difflcile per un uomo è l’accordo tra
un’azione rinnovatrice ed efficace e il rispetto assoluto
per ogni vita umana, questo accordo è stato veramente
raggiunto dal Mahatma Gandhi. Egli ci ha dato
l’esempio che vale meglio convincere che vincere; egli ci
ha dato l’esempio che è cosa più alta essere
martire che assassino.
Quando noi vediamo ciò che accade nel nostro mondo
sconvolto, quando sentiamo ancora le vecchie apologie dei
risultati e dei successi della forza, ebbene, noi, di fronte a
quest’uomo, così modesto che addirittura era
diventato, per certi cinismi occidentali, quasi una figura
grottesca, noi sentiamo invece che il valore più alto che
l’umanità può raggiungere non sono tanto gli
imperii sanguinosi e fastosi, non sono le grandi costruzioni,
spesso edificate sulle lacrime e sul sangue, ma è invece
il gesto più intimo e più solitario, più
assoluto, il gesto dell’eroica e sublime bontà, di
cui egli, veramente "grande anima", ci ha voluto dare
l’esempio. (Applausi).
PRESIDENTE. Credo che l’onorevole Binni abbia
interpretato il pensiero e - più che il pensiero - il
sentimento di tutta l’Assemblea, pronunciando le parole a
ricordo di Gandhi e ad esecrazione dell’orribile tragedia,
nella quale è stata spenta una vita che era preziosa non
soltanto per il popolo indiano nel suo complesso, ma per tutti i
popoli del mondo.
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"... l'inconciliabilità (...) di una attività
parlamentare e di un lavoro letterario ugualmente impegnativi..."
(1948)
Conclusi i lavori dell'Assemblea Costituente, nella primavera
del 1948 Binni decide di dedicarsi totalmente al lavoro di
critico letterario, motivando le ragioni di questa scelta in una
lettera aperta ai compagni socialisti. Sono evidenti i
riferimenti alla battaglia politica che sta attraversando il
P.S.I. dopo la scissione socialdemocratica del 1947 e sul terreno
del confronto complesso, tra "autonomismo" e "fusionismo", con il
Partito Comunista,
Voci riferitemi tardivamente da varie parti della nostra regione
mi hanno fatto ritener necessario un chiarimento pubblico circa
la mia posizione politica. Quando, ad esempio, si risponde da
parte di alcuni propagandisti ai compagni che chiedono di me, che
io mi sono ritirato dalla vita politica, si apre la via ad
equivoci a volte innocenti, a volte interessati, comunque
bisognosi di una interpretazione sicura.
Il fatto che io non abbia accettato di essere presentato nella
lista di Unità Socialista, malgrado le insistenti
preghiere di amici quali I.M.Lombardo, T.Codignola, A.Apponi,
deriva soprattutto dall'inconciliabilità, da me prevista
quando accettai con moltissima difficoltà la candidatura
per la Costituente, di una attività parlamentare e di un
lavoro letterario ugualmente impegnativi e praticamente
escludentisi. Nulla di strano dunque in una scelta di questo
genere, specie per chi alla politica è spinto da ragioni
morali e non da amore tecnico dell'attività politica:
nulla di strano se non per coloro che nella attività di
partito vedono solo una "carriera", una possibilità di
potenza, di sfogo ambizioso e magari una sistemazione non
disprezzabile.
Ma la mia rinuncia ad una attività parlamentare non
implica affatto l'abbandono di posizioni ideali a cui non
mancherà mai la mia adesione attiva e disinteressata.
Posizioni ideali di socialismo democratico, capace di una propria
politica che non si può confondere con quella di nessun
altro partito, a cui rimasi fedele dopo la scissione del
P.S.I.U.P. lavorando insieme ad Ignazio Silone, alla Costituente
e fuori, per la riunione di tutte le forze autenticamente
socialiste.
Questo lavoro è poi culminato all'inizio dell'anno nella
creazione dell'Unione dei Socialisti il cui segretario è
I. M. Lombardo, e nella presentazione di una lista di
Unità Socialista a cui partecipano il P.S.L.I. e l'Unione,
ed a cui va la simpatia di molti compagni rimasti nel P.S.I. ma
sempre più in dissenso con la politica liquidatoria della
direzione nenniana. E' a quella lista che ho dato il mio appoggio
ed è soprattutto alla Unione dei Socialisti (la quale deve
costituire la premessa aperta e non settaria di un vero grande
partito socialista di cui l'Italia ha estremo bisogno) che io do
la mia attività, sicuto che molto presto tutti i compagni
sinceramente socialisti si ritroveranno insieme con noi nella
costituzione di una forza veramente socialista e progressiva,
veramente pacifica, libera e rinnovatrice che si può
servire soltanto con una lotta generosa e dura, ma senza gusto di
violenza, di menzogna, di sopraffazione, o di tattica
compromissoria.
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Giuseppe in Italia (1949) di Giuseppe Raimondi
Riteniamo significativo riprodurre la recensione che Walter Binni scrisse nel 1950 sul da poco pubblicato Giuseppe in Italia di Giuseppe Raimondi, scrittore quasi dimenticato oggi. Il libro è molto bello e, come tante memorie personali troppo casualmente incontrate nel cammino storico di questo paese, molto lucido sul versante personale e su quello pubblico-politico della storia novecentesca d'Italia. In anni come quelli in cui costrittivamente siamo tenuti a vivere e in cui la retorica doppiamente infida del nazionalismo "politicamente corretto" richiama spettri letali di un "rappel à l'ordre" del "sentirsi italiani", libro e recensione sono doppiamente istruttivi.
Alla recensione, pubblicata in "Letteratura contemporanea", n.1, gennaio-febbraio 1950, mai raccolta in volume, segue una lettera inedita di Giuseppe Raimondi che aggiunge un livello di tragica serenità che non esclude la lotta contro le menzogne già vive e vegete nel 1950.
Recensione (1950) a Giuseppe in Italia di Giuseppe Raimondi
Mentre si deve subito riconoscere la provenienza squisitamente letteraria di questo bel libro di Raimondi in una direzione ben dichiarata dai riferimenti e dai ricordi dell'autore e da sicuri segni stilistici, tanto che "Giuseppe" diventa un testimone ineliminabile della nostra letteratura fra le due guerre e quasi una introduzione preziosa agli anni letterari fra la preistoria della Ronda, l'esaurimento di Solaria e un certo coté di Letteratura; è anche contemporaneamente doveroso indicare la radice non vistosa, ma sicura della vitalità e dell'originalità di queste pagine legate in un ritmo denso e continuo che supera il più comune limite di saggista rondista pur risentito in tanti particolari costruttivi.
Nella pagina stipata di impressioni, di sottili evocazioni d'immagini, di rapprese allusioni critiche (autobiografia poetica e appoggio critico di testi illustri ed esemplari è tipico procedimento rondistico), l'estrema ricchezza di temi, che potrebbero apparire uniti per semplice accostamento, è sorretta da un motivo unitario di esperienza e sofferenza vitale che non può scadere a semplice pretesto di calligrafiche variazioni; se non come in senso assoluto ogni esperienza di vita nel farsi poesia diventa pretesto di una nuova vita di segni puri, di coerenza nuova. Non è tanto il particolare mito dell'artigiano, dello specialista in "chauffage central" che è pur così bene in accordo con il tecnico di personaggi (Domenico Giordani, Signor Teste), quanto la viva sostanza del popolano sviluppatosi alla letteratura dentro una particolare storia, dentro un tempo e una città e persino dentro una passione non finta, non astratta.
E quindi come il libro è ben più di un documento politico e la vittoria è indubbiamente del letterato, del prosatore teso a risultati di stile, esso è vivo e quei risultati son tanto più puri e liberi senza diventare rabeschi decorativi, propri nella sua profonda e naturale storicità. Vita per la letteratura e vita in una speciale e sincera società si aiutano nella poesia della memoria che esplicitamente Raimondi invoca in questa sua prova fondamentale che riassume e supera i precedenti acquisti di saggista.
Mi pare che a togliere il particolare fermento, diciamo così "socialista" al motivo del tempo e della memoria che sorregge nel suo ordine fantastico e storico una serie così rara di pagine riuscite di intelligenza e di gusto, si finirebbe per accentuare il pericolo di un eccessivo sapore, di afa quasi in quella scrittura fitta, insistente, lucidamente minuta e granulosa che si rivela tanto più efficace quanto più si appoggia ad una continuità sentimentale di storia personale, e immersa nella storia di un tempo concreto.
Gli avvenimenti in relazione con la sofferenza e l'esperienza di tutta una società non funzionano solo come possibilità di battute di distacco nel pigri fluire della memoria e come richiami della letteratura a una realtà più urgente ("Era di cattivo gusto continuare in un gioco di allusioni letterarie, d'ironia, di finzioni dell'intelligenza. Si parlava di guerra. E fu ancora la Guerra"), ma serrano coerentemente una ricerca di prosa si di una esperienza letteraria e vitale. Dichiarazioni come questa "L'artista, anzi l'uomo, è in cerca di una verità fondata sul reale e sull'umano…
L'uomo non ha che le proprie mani. Con queste, e con qualche fatica, egli tende a fermare le sue emozioni nel tempo e nello spazio, in modo preciso, materiale. Una collocazione di sentimenti in un mondo di materia. L'arte consiste nel cogliere un rapporto stabile, fisico, tra la sua emozione e il corso della materia", aiutano a capire (e son naturalmente più aspirazioni di poetica che pretese di teoria) il nesso che il lettore è sollecitato a sentire fra la sensibile ricerca artistica di pagina assoluta e la volontaria presenza di testimonianza di vita.
E certo per la storia dell' "umile Italia" popolare e moderna, onesta ed umana, nel colpo di arresto brutale inferto dal tradizionalismo e dal capitalismo conservatore e violento, questo libro di un letterato di estrema élite val più di tanti documentari di politici puri, come il risultato artistico generale guadagna nei suoi pericoli di presunzione non ingiusta, ma troppo letteraria ("L'Italia, questa vecchia Italia, se diventerà Europa un giorno, tra popoli e uomini nuovi, ritroverà nella polvere i nostri miserabili saggi…") dall'appoggio (profondamente narrativo e non episodico) di una precisa storia di sentimenti e di vicende: "Quel giorno, con mio padre, eravamo in Piazza. Dal Bar Ponzio uscirono, diretti in Palazzo, i capi socialisti. Salutammo Zanardi. Con mio padre, come inchiodati da un presagio di tristezza, restammo seduti al tavolino di marmo. Passarono le musiche, e i canti degli operai. Sfilarono, nella luce incerta dell'autunno, le rosse bandiere, su cui l'ombra metteva qualcosa di grigio e di giallo. Quel giorno non risplendeva il rosso della Rivoluzione. Trascorse un lento tempo; finché, tra grida, s'intesero i colpi sordi delle armi. Incominciava il fascismo."
E quale fascino in tutto il primo tempo del libro (sino alla morte del padre), in cui le esperienze del giovane letterato, letture e amicizie, sorgono senza sforzo nell'aria mite e seria della vita popolana, dei ricordi di gioventù in pagine di rara complessità e di equilibrio sicuro fra racconti, riflessioni sulla poesia della memoria, occasioni di accenni critici senza che si cada nell'olla podrida del pezzo di bravura o dell'esercizio a mosaico. In quella prima parte la figura poetica del padre (il personaggio antieroico ed umano di una generazione generosa e civile) campeggia e si alterna senza stridore con i ritratti vivissimi di Campana o Binazzi, con le evocazioni liriche della madre e del dialetto bolognese sentito come persona, in un'unica atmosfera in cui la poesia della memoria si inibisce ogni esplicita dolcezza nostalgica che semmai si addensa nell'evidenza di alcuni particolari fra realistici e simbolici. "Recava infine, dai fornelli sfrigolanti, il tegame blu di smalto. - Senta, senta; sono le cotolette, le ho fatte io; se sono buone - . Col braccio grosso, invadente, disponeva le fette di carne, in un sugo arancione, sul piatto bianco. Si mangiava, in un silenzio mormorato di inezie; era già notte. Nella stanza, l'odore del tabacco e delle vivande. Le arance erano nella terrina di porcellana. E questo fu il tempo felice della mia vita." Quegli oggetti, tutta luce e colore, senza sforzo (anzi poco brillante, alla Morandi), son come il riscatto concreto di movimenti più insistenti e aggrovigliati, in una prosa sempre minutamente densa di allusioni e di riferimenti critici, tramata a piccoli punti accostati.
Dentro quel cerchio sicuro, in quell'onda poetica di ricordo più distaccato ed intero è più facile comporre un'ideale antologia di personaggi, di piccole scene (la madre e l'operaio Calisto), di rapidi paesaggi sensuosi e lirici ("Ecco l'autunno; la luce è fatta più matura. Come un frutto prossimo a cadere, e che si fa tenero, anche se essa si macchia e si tinge, come le foglie gialle… L'estrema luce del giorno aumenta il cupo e carnale rosso delle case, delle torri, delle infinite tegole di Bologna. Le mura e il cotto, immersi in un'aria tiepida, respirano una specie di sensuale inquietudine…"), di interi capitoli in cui, nel generale procedimento di assiepare i temi quasi senza passaggio in superficie (così come nella tecnica del periodo i brevi membri e le immagini si accostano più legati verso l'interno che in una costruzione orizzontale), preziose citazioni di versi portano aria e una musicalità esplicita che rinforza quella più difficile e interna della pagina: come nel capitolo XI l'inizio incantato del Campiello goldoniano.
Nella seconda parte (dopo il crollo della Bologna socialista, la morte del padre e la fine della Ronda) il libro appare meno continuo, quasi più distratto da una memoria che sappia davvero creare profondità e dimensione poetica ai singoli ricordi. Il senso degli anni della dittatura e della solitudine non ha più la fusione sicura di prima e le pagine stesse della prigione o del mitragliamento del trenino (assai belle quest'ultime, ma troppo isolate) o quella della liberazione mancano di quella impressione di continuità senza nesso esteriore in cui si erano staccate e immerse le immagini e i sentimenti nella prima parte. Quella specie di risurrezione agli impegni di una Italia popolare che riprende il suo sviluppo e a quelli di una letteratura spregiudicata e ricchissima di coscienza letteraria, che pare implicita nelle ultime pagine, nel ritorno alla vita politica e alla speranza, non porta in concreto la freschezza e la continuità poetica di prima.
Una limitazione che ci conferma l'impressione che la fortuna di questo libro sta proprio nel singolare incontro di una esperienza letteraria estremamente scelta e tecnica (l'esperienza di un rondista arricchito di ulteriori letture "europee") e di una esperienza di vita fortunatamente continua, storica nella duplice direzione di una carriera di letterato e di una vicenda di figlio del popolo nella compatta età del socialismo prefascista. Sui limiti calligrafici di una letteratura viva soprattutto fra le due guerre, "moderni" e "antifascisti", secondo l'intonazione polemica dell'agente della ferriera aspirante industriale di una bella pagina raimondiana, sono appunto due termini che in quel libro indicano una esperienza italiana essenziale, una direzione di gusto e di moralità a cui Raimondi deve la sua vivacità anche se naturalmente è proprio in forza del suo stile educatissimo e originale che egli ci ha dato una misura così piena del suo ingegno di scrittore.
Dai saggi di "Raccolta", dai volumi rondisti, dai pezzi di critica di Giornale, un cammino di stilista senza tentazioni si è svolto sino a Giuseppe, ma qui la sua arte è maturata in strati più fondi, in un calore poetico e umano più intero e più fortemente controllato.
Da una lettera di Giuseppe Raimondi (febbraio 1950)
E' la risposta di Raimondi alla recensione di Binni. Il documento, inedito, fa parte dell'Archivio del Fondo Walter Binni.
Bologna, 15 via Santo Stefano 20 febbraio 1950
Carissimo Binni,
non so come ringraziarla della recensione che lei ha scritto per il mio Giuseppe. Ho riletto già tre volte questa sua cosa; e le confesso che al di sopra delle ragioni e delle sottigliezze di critico (pure molto utili per l'intendimento di questo mio lavoro; utili anche per me), sono stato preso dal modo affettuoso con cui lei lo ha letto, e segnato. E credo che come sempre, l'affetto o almeno la sincerità giovino molto anche all'intelligenza. La sua recensione è tra quelle che più mi hanno fatto pensare, in modo retrospettivo, e veramente distaccato, al mio libro, che ormai è quello che è, con tutti i suoi difetti, i suoi mancamenti. Io non vorrei più scrivere un libro, come questo. E' difficile spiegarmi; cerchi di indovinare. Io sono stanco di mettere troppo di me (specie di certe cose che bisogna decisamente seppellire dietro di noi) nelle cose che scrivo. Noi dobbiamo, caro Binni, diventare degli uomini veramente sereni.
Ma forse lei non ha l'obbligo di capire questi miei sfoghi verso me stesso. E io so scrivere molto male lettere del genere di questa.
Spero di poterla incontrare un giorno, non so dove; ma a voce mi riuscirà forse di spiegarmi meglio, sono certo che con lei potrò spiegarmi meglio. Volevo anche dirle solo: lei doveva, oltre la parte positiva del mio libro, mettere in luce maggiormente la parte negativa di esso. Lei poteva farlo; e ne sarei stato contento. Ma non è un rimprovero…
Mi scusi se uso della macchina per scrivere; ma faccio meno fatica che usare la penna; sono stato piuttosto malato, durante questi mesi, e mi stanco molto facilmente, anche solo a scrivere poche pagine a mano. Così adopero la macchina. Difatti vengo scrivendo alcune cosette, che spero di poter condurre a termine. Anzi le manderò presto una raccolta di mie prose, sono il lavoro dell'ultimo mezzo anno. Ma poi a costo di rompermi la testa voglio scrivere una cosa di cui ho ritegno a dirle cos'è. E' una tragedia; proprio così. E adesso penserà male di me. Addirittura è un Macbeth. Sarà quello che Dio vorrà.
Ma lei non passa mai da Bologna? oppure non capita qualche volta a Firenze? ci si potrebbe vedere (un'oretta) presso l'amico Bonsanti?
Mi scusi questa lettera imbrogliata. Mi scriva e creda in ogni modo alla mia sincera gratitudine.
Con una cordiale stretta di mano sono il
suo
Giuseppe Raimondi
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Da due lettere di Eugenio Montale (6 novembre 1936 e 16 ottobre 1950)
Le due lettere, la prima su carta intestata della direzione del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, la seconda su carta intestata de "IL NUOVO Corriere della Sera", riprodotte parzialmente per ragioni di copyright, sono inedite e fanno parte dell'Archivio del Fondo Walter Binni.
6 nov. 1936
Caro Binni,
voglia scusare il breve ritardo. Le ho mandato dei bollettini. I cataloghi sono in vendita a prezzi vari, e costituiscono dei "veri" volumi; ma non sono recenti. Quale le interessa? (…)
Ho letto con vivo compiacimento la Poetica del Decadentismo. Dia un'occhiata alla rivista nuova di Carocci e Noventa e vedrà a che punto può arrivare anche oggi lo spirito reazionario.
Mi creda con cordiale simpatia
suo aff.mo
Eugenio Montale
16 ottobre 1950
Caro Binni,
la tua lettera (una delle poche che mi siano pervenute in questa occasione) mi ha fatto un grande piacere. Sono rimasto un po' bambino e mi fa un certo effetto che un 'professore universitario' mi testimoni tanta stima. Si vede che non so liberarmi da un grande rispetto per la cultura
ufficiale!
Io ben difficilmente potrò venire a Lucca prima della prossima primavera, e nemmeno son certo di questo… Il tema sarebbe 'Poeta suo malgrado', pasticcio autobiografico e pretesto per recitare qualche poesia.
L'ho già fatto in Svizzera e a Torino. Ho debuttato molto tardi come 'dicitore' e provo sempre molta vergogna. Le 47 poesie le pubblicherò più in là, magari aumentate. E' verosimilmente il mio ultimo libro e ci terrei che non fosse inferiore agli altri due. Oggi però mi sento lontanissimo da ogni interesse poetico, e ciò mi dà un certo spavento perché altri attacchi alla vita non ne ho. (…)
Credimi, caro Binni, con affetto
Il tuo
Eugenio Montale
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Editoriale della "Rassegna della Letteratura Italiana"
(1953)
Binni dirige la rivista "La Rassegna della Letteratura
Italiana" dal 1953 al 1992, curando personalmente la rassegna
bibliografica settecentesca. Nell’editoriale del numero
doppio 1-2, gennaio-giugno 1953, definisce le funzioni e gli
obiettivi della rivista fondata da Alessandro D’Ancona nel
1893 e diretta da Achille Pellizzari fino al 1948. La rivista
riprende appunto le sue pubblicazioni sotto la direzione di
Binni. Dal 1992 la "Rassegna della letteratura italiana" è
diretta da Enrico Ghidetti e da un comitato di direzione composto
da Franco Croce, Giulio Ferroni, Giorgio Luti, Giovanni Ponte e
Gennaro Savarese.
PREMESSA
La rivista che riprende oggi, dall’anno della morte del
suo ultimo direttore, la propria attività, iniziò
la sua vita esattamente sessant’anni fa, nel 1893, a Pisa.
"La Rassegna bibliografica della letteratura italiana" usciva
sotto la direzione di Alessandro D’Ancona (il vigoroso
autore della Poesia popolare italiana e delle Origini
del teatro in Italia), e si poneva accanto al "Giornale
storico della letteratura italiana" in un’opera di
informazione critica, essenziale ad un’epoca di singolare
fervore di studi eruditi e storici (se non precisamente, ove si
tolga il Carducci, di critica), di severo impegno nel "lavoro
d’indagine e d’illustrazione che mira a ricostruire
sopra solide fondamenta l’edificio della storia letteraria
nazionale". Come appunto scriveva il D’Ancona nella mezza
paginetta, così modesta e signorile, di "programma"
premessa al primo numero della "Rassegna". A quel lavoro di
erudizione, in cui i singoli studiosi sentivano fortemente il
bisogno di reciproca collaborazione, la necessità "di
essere sempre e senza indugio ragguagliati del molto che, anno
per anno, (e, potrebbe dirsi, mese per mese) aggiungono alle
cognizioni già acquisite alla scienza i nuovi libri ed
opascoli, i periodici e gli atti accademici", la "Rassegna" si
proponeva di contribuire appunto, su di un piano di alta e
consapevole informazione, con un "rendiconto coscienzioso,
imparziale" della nuova produzione erudita e critica
"giudicandone con urbana, ma schietta veracità". E questo
programma, che traeva il suo particolare valore da una generale
utilità di notizia e di consapevolezza e dalle particolari
condizioni del metodo "scientifico" della scuola "storica" nel
suo più sincero fervore di indagine, nel suo più
genuino e nuovo entusiasmo per "i dati di fatto", per la
"verità della scienza" venne facilmente e abbondantemente
attuato sotto la direzione del D’Ancona, con la
collaborazione di studiosi insigni, come il Rajna, il Monaci, il
Barbi, il D’Ovidio, che vennero arricchendo
progressivamente la rivista di preziose "comunicazioni", di
discussioni erudite, di rassegne unitarie e specializzate, mentre
non mancarono, specie da parte del D’Ancona, precisazioni
dettate dal suo vigoroso "buon senso" (giustamente riconosciuto
anche dal Croce), criticamente valide contro le esagerazioni
delle correnti più avventate del periodo storico, come nel
caso della interpretazione "veristica" del Mestica o di quella
patologica del Sergi e Patrizi nei riguardi della poesia
leopardiana.
Ma, se più tardi sotto la direzione di F. Flamini (che
dal 1894 era stato redattore e condirettore della "Rassegna"), la
rivista acquistò nuove rubriche e una sistemazione sempre
più chiara ed utile del materiale hibliografico
(presentato secondo problemi e periodi), essa venne anche
perdendo il più fresco fervore iniziale e lo stesso
criterio erudito, divenuto più sterile e gretto nelle mani
degli epigoni della scuola storica, divenne sempre più
inadeguato al giudizio della nuova produzione critica ispirata ai
nuovi motivi estetici dello storicismo crociano (e si pensi al
caso estremo della recensione assurda di C. Chiarini alla
Storia della letteratura inglese di E. Cecchi misurata con i
più angusti criteri di una estetica arretrata e di una
miope completezza bibliografica). La feconda ricerca filologica,
l’entusiasmo per la ricostruzione storica del periodo
danconiano scadevano in rifiuto di ogni originalità
personale, in oggettività da bibliografia, in ricerca del
piccolo particolare erudito. Sicchè un sensibilissimo
mutamento, pur nella prosecuzione dei compiti originari della
rivista, si potè ben sentire quando la direzione della
"Rassegna" passò nel 1916 dalle mani del Flamini,
onestissimo ricercatore, diligentissimo informatore, ma troppo
chiuso alle nuove esigenze culturali e critiche, a quelle di
Achille Pellizzari (anch’egli scolaro della Normale pisana)
ben diversamente vivace ed aperto, capace di avvertire ed
interpretare, pur nella sua posizione di "educato empirismo", la
nuova problematica culturale e critica. Con successivi
cambiamenti di testata (che dal 1939 divenne semplicemente "La
Rassegna") e con successivi arricchimenti di rubriche, di spogli
bibliografici, di note, di veri e propri articoli (dal 1939
più direttamente rivolti allo studio delle varie
letterature straniere), la rivista si mantenne utile ed attiva
sino al periodo della seconda guerra mondiale e, senza voler dare
un esagerato giudizio di un lavoro diverso spesso per la
qualità diversa dei collaboratori, svolse
un’efficace opera di informazione critica in Italia ed
all’estero, dove essa ebbe larga diffusione e
contribuì alla conoscenza della nostra produzione
filologica e critica.. La guerra, l’attività
politica del direttore (combattente partigiano, rettore
dell’Università di Genova dopo la liberazione,
deputato alla Costituente) e poi la sua malattia limitarono
naturalmente l'attività della rivista che cessava nel 1948
(con un ultimo volume redatto da L. Fontana) le sue pubblicazioni
al suo 56° anno di vita..
***
Nel riprendere ora a Genova (dove essa segui da Pisa il
Pellizzari nel 1919) la sua attività, la nostra rivista,
mentre ritorna all’iniziale limitazione del proprio campo
di studio, a quello della letteratura italiana, (alle letterature
straniere son dedicate altre autorevoli riviste sorte in questi
anni), crede opportuno abbandonare la dizione "bibliografica",
non per rifiutare la onesta umiltà di "informazione" a cui
rimane sostanzialmente fedele, ma per adeguare tale funzione alle
esigenze critiche attuali, per legarla esplicitamente alla viva
esemplarità ed all’impegno di articoli critici e
culturali, come contributi della rivista
all’attività critica, filalogica, in questa fase di
sviluppi importantissimi nel campo della nostra cultura a base
storicistica, ma ricca di esigenze che sempre meglio tendono a
precisare la loro validità e a rivedere il loro reciproco
rapporto. Cosi, accanto ai notiziari di articoli, alle rassegne
di studi di letteratura italiana all’estero (legate alla
nostra volontà di contribuire ad un migliore rapporto fra
la nostra cultura e quelle straniere), alle recensioni ispirate
al desiderio di rilevare i nuovi contributi critici e filologici
nel campo dei nostri studi e i motivi metodologici che in questi
potranno esprimersi, terremo ad offrire ai lettori esempi di
critica, di storia letteraria, di metodo filologico e storia
della critica, nonchè, secondo le possibilità,
esposizioni autorevoli di tendenze critiche e storiografiche
attuali, esami aperti e sereni della complessa situazione dei
nostri studi. Ci sembra infatti che, mentre sempre più
forte si avverte l’esigenza di un lavoro informatissimo e
storicisticamente sicuro, lontano dalle improvvisazioni
impressionistiche, dall’arbitrarietà (aprioristica,
avrebbe detto il De Sanctis) e dalla tendenziosità
incontrollata, sia insieme sempre più chiara la
necessità di un largo esame delle varie correnti
metodologiche nelle loro esigenze peculiari e nella
possibilità di un loro dialogo efficace e stimolante. Non
si tratta certo di una assurda proposta di "concordantia
discordantium canonum" (ché anzi è fin troppo
chiaro il rischio di un eclettismo senza impegno personale e
senza il rischio generoso della ricerca nuova e coraggiosa), ma
si accenna invece al vantaggio di una conoscenza sempre
più individuata dei problemi più vivi e
consistenti, di una valutazione di quanto, in una cultura aperta
e consapevole, anche diverse tendenze possano utilmente offrire
ad un lavoro caratterizzato ma non settario. E basti indicare
come, anche in critici tutt’altro che incerti sia da tempo
visibile un avvicinamento tra filologia e critica, tra senso
storicistico e ricerca di stile e come, pur nei diversi
orientamenti, la conoscenza del problema critico nella sua storia
e delle condizioni storiche in cui un’esperienza artistica
si è svolta, costituisca da tempo comune presupposto di
ogni studio critico.
Perciò la Rassegna terrà ad accogliere, su
di una sicura base di serietà e di rilievo critico non
generico, contributi che rappresentino vive esigenze della nostra
cultura critica e mirerà nelle recensioni e nei notiziari
a dare chiaro rilievo alle posizioni critiche, storiografiche e
filologiche implicite nelle opere esaminate sperando di
collaborare cosi ad un chiarimento oltre che ad una accurata
informazione.
La nostra rivista riprende la sua rinnovata attività in
un periodo assai ricco di operosità, dopo gli anni che
condannarono tanti studiosi al silenzio e privarono gli studi di
tante forze giovanili che la guerra e le sue tragiche conseguenze
allontanarono da ogni ordinato e impegnato lavoro. E se non
oseremmo certo adoperare accenti di idillio per una realtà
che non può non lasciarci insoddisfatti e per
un’epoca che può apparire più di speranze che
di conclusioni, non vorremmo neppure privare questa nostra
modesta iniziativa in un campo tecnico-culturale del suo
significato di fiducia nella serietà e continuità
della cultura e del lavoro, sempre intimamente legata alla
fiducia nella serietà e continuità della vita.
Così come il vuoto terribile lasciato, nel tristissimo
1952, con la scomparsa di grandi critici e di studiosi insigni
(da Croce a Momigliano, da Pancrazi a Calcaterra e Borgese, per
citare solo i maggiori) non ci induce tanto al compianto di cosi
valide forze perdute, quanto al concreto omaggio ad esse del
nostro lavoro e dello stimolo che la nostra rivista vuol
rappresentare nel campo in cui quegli amici e maestri dettero
alta lezione di cultura e di umanità..
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da "Il XX giugno nel Risorgimento italiano" (1955)
È il testo di un discorso celebrativo tenuto a
Perugia, nella Sala dei Notari, il 20 giugno 1954, pubblicato nel
1955 sulla rivista "Perusia", e poi raccolto in La tramontana
a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri (1983). Un esempio
significativo del forte e costante legame tra Binni e la sua
città, luogo centrale di affetti e memoria.
Ho ancora vivissima l’impressione che, negli anni della
fanciullezza e della prima adolescenza, destava in me la giornata
del XX Giugno: il suono mesto e virile del Campanone, il
passaggio della carrozza che recava la giunta comunale a deporre
corone al monumento e al Cimitero, svegliavano in me una confusa
ma profonda commozione, una suggestione fantastica che certe
vecchie stampe, rievocanti la battaglia e l’ingresso in
città degli Svizzeri, vennero poi precisando in immagini
di eroismo tanto più affascinante perché
sfortunato, di violenza tanto più ripugnante perché
esercitata in nome di segni a cui il mio giovane cuore associava
le idee più alte del sacrificio e dell’amore fra gli
uomini. E quelle immagini, quell’emozione di tristezza e di
orgoglio, quegli impulsi combattivi e quella pietà per le
vittime inermi, incisero profondamente in me una istintiva
simpatia per i ribelli, per i combattenti senza divisa, per le
insurrezioni popolari, un primo sentimento della celebrazione
della vita civile mediante gesti di eroismo e di protesta
collettiva e naturalmente lo sdegno per la violenza ammantata
sotto le insegne del diritto militare, per l’abuso del
potere politico da parte di una istituzione religiosa che aveva
mostrato in quel caso di usare la violenza (e poi lodarla e
premiarla) in maniera anche peggiore di quanto non facessero
istituzioni mondane e solamente politiche.
E mi sembrava bello essere perugino soprattutto per merito di
quella data gloriosa, di quell’avvenimento che tuttora mi
appare pieno di civilissimo significativo: quello di una
città che abbandonato a se stessa, tiene fede
all’impegno preso insorgendo e si espone in nome dei propri
ideali civili alle conseguenze di una battaglia inevitabilmente
perduta e che poi, sotto l’occupazione, si comporta con
tanta dignità e serena fierezza.
E, d’altra parte, ai miei ricordi di adolescente,
appartiene anche quello di una ripetuta visita ad una lapide che,
nel nostro bellissimo Cimitero, aveva sempre attirato la mia
curiosità e su cui fantasticai a lungo, a mano a mano che
crescevano le mie cognizioni storiche e la mia possibilità
di interpretarne il significato: una lapide in francese,
sormontata da uno stemma gentilizio, dedicata al conte Abyberg,
capitano del primo reggimento estero al servizio della Santa
Sede, caduto alla presa di Perugia. Implicava forse quella lapide
una smentita alle care stampe del saccheggio e delle stragi, il
principio di una rivalutazione in me dei combattenti
dell’altra parte? Invece sotto quello stemma e
quell’epigrafe cavalleresca e bellicosa non c’era
neppure il dubbio fascino di un’ultima prova eroica di
forze battute e sconfessate dalla storia, di quei pittoreschi
residui del feudalismo e del legittimismo europeo, che sotto il
Lamoricière si raccolsero nel’60 a Roma e fecero
prova non ingloriosa a Castelfidardo.
Il governo pontificio nel 1859 non aveva ancora fatto appello
alle forze più retrive e più antiquate della
nobiltà occidentale e a Perugia si erano battuti solo dei
mercenari, anche se ornati di stemmi e di titoli svizzeri
savoiardi tedeschi. E non potei non provare una certa delusione
quando appresi che il cavalleresco guerriero "caduto alla presa
di Perugia al servizio della Santa Sede", sarebbe (così
pare) rimasto ucciso da una palla il moschetto rimbalzata da una
casa di cui egli stava guidando il saccheggio!
Così quello stemma e quel titolo, quell’epigrafe
cavalleresca coprivano una realtà squallida e miserabile e
la lotta dei perugini assumeva sempre più ai miei occhi il
valore di una lotta fra uomini liberi e vivi nella storia, e
poveri avventurieri senza scrupoli, a cui l’orpello
dell’inquadramento militare, la nobiltà degli
ufficiali e l’insegna delle chiavi di San Pietro, non
aggiungevano che una decorazione sfacciata, un pretesto di
dignità ad un’impresa che la resistenza perugina
ebbe il merito di rivelare nella sua vera natura.
E infatti - volendo passare dai ricordi ad un concreto omaggio a
quell’avvenimento, omaggio che non può essere che la
rapida ricostruzione di esso e la valutazione del suo significato
nella storia del Risorgimento italiano - bisognerà dire
che il XX giugno fu soprattutto la chiara dimostrazione di una
essenziale differenza fra le forze vive, reali del Risorgimento,
e quelle fittizie antistoriche del dominio temporale dei Papi,
fra gli ideali nuovi e concreti anche se diversamente profondi e
capaci di sviluppo, che davano vigore alle forze progressive,
moderate o mazziniane che fossero, e l’assurdità di
una organizzazione politica artificiosa, senza necessità
ideale o sociale o economica, bisognosa per difendersi di
ricorrere (nell’epoca delle nazionalità!) a truppe
mercenarie e straniere.
L’eroica difesa e soprattutto il saccheggio e la violenza
degli Svizzeri a Perugia costituirono così, in quella fase
delicatissima del nostro Risorgimento, un elemento di grande
importanza nella definitiva condanna italiana ed europea del
governo pontificio, la cui assurdità e
artificiosità storica appariva tanto chiara quanto la sua
immoralità proprio da un punto di vista cristiano: che era
poi l’impressione di sdegnata meraviglia che, in maniera
piuttosto enfatica e tutt’altro che poetica, voleva rendere
il giovane Carducci nel suo sonetto, Per le stragi di
Perugia, quando trovava esecrando il fatto che Cristo fosse
stato come ideale capitano al "reo drappello" degli Svizzeri:
Cristo di libertade insegnatore,
Cristo che a Pietro fe’ ripor la spada,
Che uccidere non vuol, perdona e muore.
(G. CARDUCCI, Juvenilia, in Opere, ed. Naz.,
Bologna 1950, vol. II, pp. 209).
Cosicché si può ben dire che la riconquista di
Perugia, se fu fruttuosa immediatamente al governo pontificio in
quanto fermò quella che poteva essere una frana del suo
dominio nell’Umbria e nelle Marche già nel
‘59, importò un decisivo passivo per quel governo
che, a causa di quel gesto di forza male impiegata, di violenza
sproporzionata (gesto lodato e premiato dallo stesso Pontefice,
compiuto da truppe mercenarie straniere nel momento stesso in cui
il culto del principio di nazionalità era nel suo massimo
fiore), si trovò coperto di discredito in tutto il mondo
civile; tanto più che, a causa dell’accennato
saccheggio dell’Albergo di Francia e delle perdite
finanziarie subite dall’americano Perkins, quel governo,
che prima aveva tutto negato, fu obbligato dalla diplomazia
americana ad ammettere quanto era stato testimoniato da
quell’inopportuno ospite straniero, e apparve così
pubblicamente insieme bugiardo e vile.
Ma le reazioni più interessanti furono proprio quelle
italiane, anche se allo sviluppo del nostro Risorgimento, nei
riguardi del governo pontificio, giovò moltissimo il quasi
unanime coro di proteste che si levò sui giornali di ogni
parte d’Europa. L’azione degli Svizzeri pose davvero
in crisi la coscienza di una gran parte di cattolici italiani e
come si possono facilmente trovare testimonianze di sdegno e di
commozione (in cui coincidevano una cristiana sollecitudine per
quel sangue innocente versato, con la coscienza nazionale e
liberale ferita dall’impiego degli Svizzeri e
dall’imposizione violenta dell’autorità a una
città che si era pacificamente liberata) anche in
sacerdoti come il canonico Chelli di Grosseto che "piangeva al
racconto di una strage di innocenti e di inermi fatta nel mezzo
d’Italia, si può anche indicativamente citare una
lettera del Ricasoli al Lambruschini (21 giugno 1859) in cui alle
esitazioni del noto pedagogista cattolico circa l’azione
unitaria del governo provvisorio toscano si oppone, come prova
della necessità di agire e di non credere più alle
vecchie illusioni federali neoguelfe, il fatto decisivo che "il
papa manda gli Svizzeri a far assaltare Perugia". E lo stesso
Ricasoli, in una lettera del 5 luglio al fratello Vincenzo,
elencando alcuni avvenimenti che impegnano tutti
gl’italiani ad agire concordemente e a disperdere ogni
illusione sulla utilizzazione dei vecchi príncipi e sul
compromesso con lo stato pontificio, metteva in primissimo piano
"i fatti di Perugia", che han rivoltato la coscienza più
grossolana contro il Papa e il suo governo.
Il sacrificio perugino cooperava così in maniera decisiva
ad aumentare la provvidenziale frattura che permise indubbiamente
la più facile realizzazione dell’unificazione
italiana e della prima costruzione del nuovo stato unitario, e
impedì pertanto alla Chiesa di inquadrare politicamente i
suoi fedeli a cui essa aveva troppo recentemente offerto una
linea politica così assurda e reazionaria e macchiata
dalle forme estreme dell’autoritarismo e della violenza
oppressiva.
E d’altra parte l’episodio del XX giugno diveniva nel
periodo tra ‘59 e ‘60 un potente stimolo al
proseguimento dell’azione liberatrice e unificatrice, una
fortissima arma sentimentale nelle mani dei partiti patriottici
anche se, si può ben immaginare, adoperata diversamente (e
motivo persino di polemica aspra) dai mazziniani e dai
cavouriani.
Allo spirito del XX giugno si educarono generazionı di
uomıni liberi e si ispirò a lungo la vita della
nostra città con quelle libere amministrazioni comunali
che proprio a quel nome simbolico intitolarono spesso le loro
opere più civili (scuole, asili, istituzioni di
beneficenza pubblica) e che, onorando solennemente ogni anno
quella data, rinnovarono un impegno solenne a mantenere la
città sulla via del progresso civile e sociale, nel
rispetto della democrazia, della libertà e di una severa
fede laica: valori ed ideali a cui, pur nel mutarsi delle
condizioni storiche e nel precisarsi sempre più concreto
delle esigenze sociali, la democrazia perugina rimase lungamente
ed attivamente fedele.
E da quell’impegno lontano, da quella lezione di eroismo e
di civiltà attinsero pur forza molti dei perugini
combattenti contro la dittatura fascista e di
quell’episodio molti si ricordarono anche per condannare la
conciliazione fra lo stato fascista e la chiesa romana e,
più tardi, il piccolo ed inutile machiavellismo che
accettò l’inserimento dei trattati lateranensi nella
nostra costituzione repubblicana, la quale ne venne in tanti
punti fondamentali snaturata e messa in dubbio.
Ed ancora adesso, quando i termini della lotta politica sono
tanto cambiati da quelli del Risorgimento e impegnano gli uomini
in posizioni di valore universale e legano sempre più
necessariamente la libertà e la democrazia alla soluzione
del problema sociale, noi possiamo pure guardare con reverenza ed
affetto a quella data gloriosa che rende ai nostri occhi ancora
più bella la nostra città, ci fa lieti di esserne
cittadini e ci impegna ad onorarla con la nostra attività
più seria, con il nostro servizio alla causa di una
umanità libera e fraterna.
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L’agitazione universitaria a Firenze (1961)
Articolo pubblicato sulla rivista fiorentina "Il Ponte",
giugno 1961. Gli avvenimenti che Binni, docente ordinario di
letteratura italiana alla Facoltà di Lettere
dell’Università di Firenze, ricostruisce con una
dettagliata analisi "dall’interno", provocarono uno dei
primi episodi della contestazione studentesca
all’organizzazione universitaria; il Rettore
dell’Ateneo fiorentino fu costretto a dimettersi. Verso la
conclusione dell’articolo, Binni sottolinea la positiva
novità di un primo significativo collegamento tra studenti
e operai sul terreno della complessiva riforma della
società.
La situazione di crisi dell’Università italiana,
su cui aveva già richiamato la pubblica attenzione la
giornata dell’università del 27 gennaio scorso, ha
avuto una manifestazione clamorosa nella prima metà di
questo giugno quando l’agitazione dei professori
incaricati, che proclamarono la loro astensione dagli esami a
causa del loro insopportabile trattamento economico e giuridico,
ha dato il via ad una serie di avvenimenti i quali hanno scosso
profondamente le strutture universitarie e richiamato
l’attenzione di tutto il paese su di un problema che solo
gli interessati al mantenimento di ogni forma dell’attuale
situazione della società italiana possono minimizzare o
presentare come effetto fittizio e interessato dell’azione
antigovernativa dell’opposizione di sinistra.
Già la stessa agitazione degli incaricati mostrava la
gravità della situazione dell’università
italiana in cui il rapporto fra insegnanti e studenti raggiunge
ormai le punte inverosimili di 1 a 110 (tale cioè da non
permettere in alcun modo lo svolgimento di un lavoro che
presuppone, e sempre più, un diretto contatto fra docenti
e discenti) e la maggior parte dell’insegnamento di materie
spesso fondamentali ricade appunto sugli incaricati pagati con
stipendi di fame e privi di ogni minima garanzia giuridica. E se
alcune delle richieste di questa categoria possono apparire non
accettabili (come quella secondo cui essi potrebbero ottenere,
dopo un certo numero di anni di incarico, l’assegnazione,
senza concorso, di una cattedra nelle scuole medie superiori), si
può essere molto ragionevolmente d’accordo sul fondo
delle loro rivendicazioni e sul giudizio severissimo da dare
sulla insensibilità ai problemi universitari da parte dei
governi succedutisi in questo dopoguerra, in una fase cioè
che doveva segnare un generale rinnovamento sociale e democratico
del nostro paese.
Ma l’agitazione degli incaricati (agitazione del resto
già chiaramente inquadrata in richieste generali di
riforma dell’università) ha perso tanto più
il suo carattere settoriale quando ad essa si è aggiunta
quella degli assistenti (altro settore dell’insegnamento
universitario profondamente bisognoso di nuovi provvedimenti e di
un accrescimento di proporzioni massicce: ricorderò quale
esempio dell’assurdità di tale situazione come la
mia cattedra di letteratura italiana nella facoltà di
Lettere di Firenze sia tuttora priva di un assistente di ruolo!)
e quando sono entrati in azione gli studenti nella guida
responsabile delle loro organizzazioni sindacali.
A questo punto tutto il mondo universitario si è trovato
coinvolto nell’agitazione e se l’associazione dei
professori di ruolo non ha preso immediata e chiara posizione
(aspetto su cui non si può tacere un giudizio di biasimo e
che mostra come proprio al vertice dell’insegnamento
universitario si avverta più fortemente il permanere di
una più scarsa sensibilità universitaria), gruppi
di professori di ruolo più avanzati e coscienti hanno ben
sentito il loro dovere di partecipare all’agitazione in
corso.
Ciò riguarda tutta l’università italiana, e
va detto che l’atteggiamento nelle varie università
andrebbe distinto anche per quanto riguarda le autorità
accademiche, se si volesse qui delineare un consuntivo generale
dell’agitazione in tutta Italia. Ma qui sono stato
richiesto di testimoniare sulla situazione dell’Ateneo
fiorentino dove l’agitazione ha avuto un carattere
più grave e sin drammatico e che infatti perciò ha
occupato le pagine dei quotidiani e provocato reportages e
interviste.
Ne traccerò dunque anzitutto una cronaca breve, ma sicura,
perché a parte i pettegolezzi locali e le speculazioni
politiche di alcuni giornali di destra, non sempre le relazioni e
le interviste anche su organi ben intenzionati sono state del
tutto soddisfacenti. Il fatto più vistoso
dell’agitazione fiorentina è consistito anzitutto
nella pmresa di posizione delle organizzazioni studentesche e
nella reazione del Senato accademico che, dopo un primo
comunicato, non privo di un’assicurazione di platonica
solidarietà con gli incaricati, ma fermo a sostenere la
necessità dello svolgimento regolare degli esami e della
illegalità di ogni spostamento di questi (e come fare
regolari esami nell’assenza degli incaricati presenti non
solo nelle proprie commissioni, ma in quelle degli ordinari?), fu
attratto soprattutto dall’agitazione degli studenti e
dall’occupazione da parte di quesi di alcune
facoltà: occupazione simbolica intesa a sostenere
l’agitazione degli incaricati e a sottolineare la
situazione di disagio in cui gli esami si sarebbero svolti.
Né occorrerà rilevare, tanto essa è
evidente, la generosità dell’azione degli studenti
il cui interesse più egoistico sarebbe stato solo quello
di sostenere gli esami nelle date prestabilite, mentre esso
cedeva di fronte ad un interesse più profondo per
l’Università e per il suo funzionamento in
condizioni più eque di trattamento degli insegnanti.
Invece il Senato accademico e il Rettore preferirono addossare la
colpa del "disordine" agli studenti stessi e imboccarono una
strada autoritaria e ministeriale (né si dimentichi il
fatto che a questo punto appare sulla scena un ispettore del
Ministero) che li condusse ad atti progressivamente sempre
più gravi. E sia chiaro che l’occupazione delle
facoltà non implicò di per sé
l’impedimento o l’interruzione dello svolgimento
degli esami da parte di quei professori di ruolo che intendevano
farli. Il Senato accademico e il Rettore si decisero invece alla
chiusura dell’Università e non (come altrove
è stato fatto) per sostenere gli incaricati e sottolineare
di fronte al Ministero e all’opinione pubblica lo stato di
crisi dell’Università, ma per rispondere in maniera
punitiva e autoritaria all’occupazione studentesca delle
facoltà.
Tuttavia, in un primo momento, si pensò ad una chiusura a
tempo determinato e a garanzie sui modi di ripresa degli esami
che gli studenti richiedevano e credevano di avere ottenuto.
Tanto che essi decisero di interrompere l’occupazione,
ripeto ordinatissima e simbolica, come di fatto fecero nella
mattina del 6 giugno. Ma il comunicato del Senato accademico,
pubblicato nel pomeriggio dello stesso giorno, aveva
tutt’altro tenore da quello sperato e immaginabile. Non
faceva parola delle giuste ragioni dell’agitazione degli
incaricati, degli assistenti, degli studenti e della presa di
posizione autorevole di un gruppo di professori di ruolo della
Facoltà di Lettere i quali, in mancanza di una decisione
da parte dell’ANPUR (Associazione Nazionale Professori
Universitari di Ruolo, ndr), si erano visti costretti (per
solidarizzare con gli incaricati, non danneggiare gli studenti e
non agire illegalmente con commissioni parziali o rimaneggiate
illegalmente) ad agire per proprio conto rinviando di una
settimana l’inizio dei propri esami. Con una dichiarazione
che resero pubblica e che portava le firme del sottoscritto, di
Roberto Longhi, di Eugenio Garin, di Glauco Natoli, di Giacomo
Devoto, di Cesare Luporini, di Alessandro Perosa, di Ernesto
Sestan, di Andrea Vasa, di Giovanni Pugliese-Carratelli.
Vi fu anzi nel Senato accademico un preside che chiese
provvedimenti disciplinari contro questi professori che con la
loro azione responsabile salvavano per primi (altri poi in altre
facoltà fecero dichiarazioni simili e si comportarono in
maniera analoga) il vero prestigio e la vera dignità dei
docenti fiorentini. E alcuni di essi, più attivamente
presenti negli svolgimenti successivi, influirono indubbiamente
sulla condotta degli studenti e rafforzarono la responsabile
prudenza con cui gli organismi rappresentativi studenteschi
evitarono atti più impulsivi suggeriti
dall’esasperazione prodotta dal comportamento del Senato
accademico. Il quale, nel suo comunicato, tendenziosamente
disconosceva il carattere organizzato e totale
dell’agitazione studentesca (parlava solo di "alcuni gruppi
di studenti") e chiudendo l’Università a tempo
indeterminato dava carattere punitivo alla sua decisione, mentre
deferiva al Rettore poteri che, in simile situazione, esso era
tenuto a gelosamente conservare e ad esercitare direttamente.
La risposta degli studenti fu l’occupazione del Rettorato,
il quale non è un sacro altare intangibile, ma un luogo
dove i rettori esercitano il loro ufficio di capi elettivi
dell’Università trattando direttamente, dove
occorra, anche con la categoria degli studenti che bizzarramente
alcuni considerano solo come elementi disturbatori e fastidiosi e
non, come sono, parte essenziale dell’Università e
senza di cui l’Università non avrebbe ragione di
esistere.
Invece di trattare con le organizzazioni studentesche e di far
valere il principio fondamentale dell’autonomia anche
disciplinare dell’Università, il Rettore (ma con lui
l’intero Senato accademico, cioè i presidi di tutte
le facoltà, che a lui avevano conferito poteri
straordinari e avevano già contemplato
l’eventualità della richiesta d’intervento
della polizia) ritenne di ricorrere alla forza pubblica che
difatti intervenne la sera stessa nell’Università,
ne fece uscire i circa duecento studenti di ogni facoltà
che vi si trovavano prendendone il nome e rivolgendosi poi alla
Procura, che sta ora esaminando la possibilità di
configurare contro di loro il reato di occupazione di luogo
pubblico.
Non occorrerà insistere sulla gravità del gesto del
Rettore e del Senato accademico (fra l’altro nessuna delle
autorità accademiche credé di dover esser presente
all’atto dell’intervento della polizia quando si
potevano temere anche atti di resistenza da parte degli studenti
e quindi conseguenze tutt’altro che impossibili ed anzi ben
immaginabili): atto che ha aperto una ferita non facilmente
sanabile sia fra le autorità accademiche e la massa
studentesca sia dentro lo stesso corpo accademico dimostrando
come le autorità accademiche fiorentine non siano state
all’altezza dei propri compiti e come nel loro
comportamento si siano manifestati una mentalità ed un
costume che sono fra le prime cause interne della crisi
dell’Università.
È questo infatti, insieme alla insensibilità
governativa su cui sarebbe inutile o ingenuo qui insistere, o che
porterebbe a troppo lungo e amaro discorso, il primo elemento di
riflessione che emerge dalla cronaca degli avvenimenti fiorentini
e che riporta ad una severa diagnosi dei mali interni che
affliggono l’Università. Cioè lo spirito non
democratico, autoritario e erratamente legalistico di molti
professori in cui la competenza scientifica e tecnica non
è sostenuta e avvalorata da una adeguata consapevolezza
dei propri doveri democraticamente educativi. Vecchio male
italiano, come il conformismo e l’acquiescienza ai poteri
ministeriali (tanto più grave in persone che non hanno
neppure il dovere del giuramento di fedeltà allo stato,
che sono inamovibili e non hanno alcuna ragione di timore):
vecchio male che si associa ad un singolare egoismo della
cattedra e ad una posizione di vera e propria inimicizia verso
gli studenti che ha avuto modo di manifestarsi di nuovo anche in
questi ultimi giorni quando in una facoltà (nota del resto
per idee destrorse dei suoi professori di ruolo), alla ripresa
degli esami, il preside ha sentito di inviare una lettera
poliziesca ai professori invitandoli a vigilare sulla condotta
degli studenti, a denunciare al preside ogni minima scorrettezza,
"anche di lieve natura", degli studenti, a isolare i pochi
"mestatori" (che sarebbero i rappresentanti delle organizzazioni
studentesche e i responsabili dell’agitazione recente).
Pofessori con cui nessuna colleganza può indurci a
superare il dissenso profondo, culturale ed umano, che da loro ci
divide.
Ma altri elementi positivi ci inducono a ritenere molto
importante e promettente l’agitazione degli scorsi giorni.
Non solo il fatto che quanto è avvenuto non potrà
non portare modificazioni nei rapporti fra il corpo accademico e
le autorità accademiche (già tre facoltà
hanno condannato il comportamento delle autorità
accademiche) e che comunque si è rotta una situazione di
passività in molti professori e si è giunti ad una
coscienza migliore in loro di certe situazioni interne e dei
rapporti fra Università e governo, ma soprattutto la
constatazione della esistenza di docenti veramente democratici e
di una maturità molto notevole da parte degli
studenti.
È quest’ultimo il fatto che metterei in primo piano,
non per una facile demagogia (sono notoriamente un professore
severo e dall’esame contraddistinto da un materiale assai
cospicuo, e qualche studente meno studioso non mi
perdonerà certo queste colpe per le mie belle parole!), ma
perché sono profondamente convinto che gli studenti sono
l’apertura verso il futuro e che nelle loro mani è
l’avvenire della nostra scuola e della nostra
università e, in parte, del nostro paese. E il vederli
così permeati di un vero spirito democratico, così
desti agli interessi che li riguardano, ma ancor più a
quelli che potrebbero parer da loro più lontani,
così sensibili ai rapporti fra l’università e
la scuola pubblica e la società, mi rallegra e mi fa
sperar bene: così come ho sempre sentito conforto nel
contatto con l’intransigenza morale, con l’entusiasmo
e la serietà appassionata che salgono dalla loro calda e
giovane vita, e da quella di tutti i giovani, studenti o no,
più liberi dalla contaminazione del conformismo e del
tatticismo furbesco, dai compromessi avvilenti che paiono
più apesso aggravare il peso degli anni maturi e senili.
Ma qualità in loro già consapevoli e rafforzate da
una coscienza matura ed aperta che mi pare essenziale e tipica
della vita organizzativa, della scuola pubblica (di cui è
parte cospicua l’università, per fortuna, nella sua
quasi totalità, pubblica) e della spinta democratica, che
malgrado tutto opera fortemente nella zona più delicata e
viva dei giovani.
Chi, come me, non ha disdegnato per un malinteso decoro
accademico di assistere e partecipare alle assemblee tenute dagli
studenti fiorentini in questi giorni, ha ben avvertito la
maturità delle dichiarazioni fatte dai vari rappresentanti
delle diverse organizzazioni studentesche e nelle diverse
impostazioni ideologiche ha sentito quasi sempre un grado di
serietà, di preparazione, e soprattutto di
democraticità che avrebbero assai sorpreso i fautori dello
studente che deve solo studiare e che deve essere trattato solo
come un oggetto di cui, un po’ curiosamente e un po’
dispettosamente, verificare l’incasellamento nel punto di
esame.
E soprattutto da quelle dichiarazioni derivava una considerazione
molto importante: non solo la risposta a chi ha parlato di
"gruppi di studenti" o di chi ha tentato di scoprire in tutta
l’agitazione una manovra interessata di partiti politici,
ma la garanzia dello spirito democratico degli studenti.
Democratico da ogni punto di vista. Perché quella che
risultava dalle diverse dichiarazioni (specie
nell’assemblea più imponente nella notte
dell’occupazione dell’Università da parte
della polizia) era un’unità democratica consapevole
ed articolata. Cioè, il fondo democratico comune delle
posizioni degli studenti, delle ragioni della loro lotta, delle
prospettive di essa, delle richieste di rinnovamento
dell’università, della scuola, della società
italiana, risaltava entro una gamma diversa di impostazioni
ideologiche e queste a loro volta erano superate dal comune
riferimento democratico di quei discorsi. Naturalmente con
diversi accenti, con diversa profondità di tono, con
diversa complessità di implicazioni politiche e sociali,
ma con una radice comune che assicurava la concordia nella lotta
e la possibilità di un dialogo ulteriore ed attivo.
Ancora un altro punto positivo: alle assemblee studentesche (cui
parteciparono alcuni assistenti, incaricati e professori di
ruolo) furono presenti anche alcuni giovani operai e la loro
presenza fu intesa dagli studenti nel suo senso giusto: non
quello di una piccola manovra politica, ma quello più
profondo (e che avrebbe superato comunque anche
l’intenzione di una manovra politica) di una comunanza di
interessi al rinnovamento della società italiana in ogni
suo aspetto.
Concluderò infine constatando come l’agitazione
studentesca sia stata nettamente inquadrata entro la più
generale lotta per il rinnovamento non solo
dell’Università, ma di tutta la scuola italiana e
che concorde fu da parte degli studenti la consapevolezza
dell’insufficienza e del carattere confessionale del Piano
Fanfani, mentre da un punto di vista pratico, numerose e concrete
furono le proposte di nuovi modi di inserimento
dell’Università nei vivi interessi culturali,
economici, sociali del paese e degli enti locali.
Su questi risultati, e contro le speranze dei conservatori di
ogni tipo e grado, si è venuta così formando una
promettente intesa fra tutti i settori universitari nelle loro
forze più rappresentative e una più larga intesa
con altri settori attivi della vita italiana. E non sarà
facile fermare l’azione di forze che nelle giornate scorse
hanno compiuto un’essenziale prova di compattezza e di
decisione ed hanno meglio chiarito gli obiettivi da perseguire e
la natura e la consistenza degli ostacoli interni ed esterni da
superare.
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Da una lettera di Pietro Nenni (2 marzo 1965)
Nel marzo 1965 Nenni è vicepresidente del Consiglio dei Ministri, nel primo governo di centro-sinistra. La scuola pubblica è uno dei principali terreni di scontro tra la sinistra e la Democrazia Cristiana. La lettera è riprodotta parzialmente per vincoli di copyright.
Roma, 2 marzo 1965
Caro Binni,
il problema della scuola è di tutti il più difficile. Chi ha voluto o dovuto collaborare coi cattolici ha dovuto trovare un compromesso (Austria, Belgio, gli stessi Stati Uniti), un compromesso che in questi paesi si è risolto a favore della scuola di Stato.
Non averlo trovato fu in Francia una delle cause del rapido crollo della Quarta Repubblica.
So quanto il problema sia difficile per noi, presi con il fondo clericale della DC anche nelle sue forze socialmente più avanzate e il retaggio anticlericale che è non un capriccio ma un prodotto della nostra storia.
Comunque ci sono per noi posizioni irrinunciabili e che dovremo difendere ad ogni costo. Le leggi di riforma strutturale della scuola attualmente in elaborazione non sono tali da rendere impossibile una convergenza.
Io le ho passate a Codignola. Manca quella per l'Università ma ho l'impegno del ministro di presentarla al più presto.
S'è pensato anche ad una commissione interpartitica che la esamini prima del Consiglio dei ministri. Al consiglio (se sarà possibile restarci giacché giudico la situazione molto difficile anche per errori nostri) difenderò strenuamente le nostre posizioni di principio dovessimo, su di esse, aprire una crisi.
(…)
Cordialmente,
tuo Nenni
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"Omaggio a un compagno caduto" (1966)
Nell’aprile 1966 alla Facoltà di Lettere
dell’Università di Roma muore in seguito
all’aggressione di una squadraccia fascista lo studente
socialista umbro Paolo Rossi. Contro quest’assassinio e le
collusioni del rettore Ugo Papi con gli ambienti neofascisti,
l’Università viene occupata. Il 30 aprile è
Binni – che ha svolto un ruolo centrale nella reazione
all’assassinio di Paolo Rossi partecipando attivamente
all’occupazione dell’Università con il
movimento degli studenti e con altri docenti antifascisti –
a tenere l’orazione funebre nel piazzale della Minerva,
davanti al feretro del compagno ucciso. Nei giorni successivi il
rettore Papi è costretto a dimettersi.
Il testo, pubblicato sul n. 4, 1966, della rivista
"Mondoperaio", è stato poi raccolto nel volume Poetica
e poesia (1999).
Abbiamo accompagnato la salma di Paolo Rossi nel suo ultimo
percorso verso la tomba, abbiamo già vissuto e sofferto il
momento del distacco delle sue spoglie, il momento del "mai
più" che lascia ogni uomo incredulo, e impersuaso, colmo
di dolore di fronte alla cesura inesorabile della morte, alla
perdita della persona irripetibile, fonte del nostro inesausto
rimpianto, della nostra non accettazione di un "fatto" di cui
nessuna saggezza, nessuna fede possono effettivamente,
interamente dar ragione e consolare.
Paolo Rossi non è più qui con i suoi amici, con i
suoi compagni, con i suoi genitori, con la sua sorella. Non
sarà più, come poteva e doveva essere, per la sua
età e vitalità, diretto promotore di incontri, di
amore, di colloquio, di opere, di atti di vita.
Egli scompare dalla terra nell’età della primissima
gioventù, quando egli più ardentemente si apriva
alacre e puro, originale e creativo, agli impegni più
intensi della cultura, dell’arte, della società, a
cui era chiamato, e già partecipava, dalle sue native
qualità e dall’educazione alta, esemplare, aperta, e
serenissima che aveva avuto dai suoi genitori. Enzo e Tina,
artisti e persone di altissima sensibilità intellettuale e
morale, i miei cari amici degli anni di una gioventù
tormentata e illuminata dalla Resistenza al fascismo e al nazismo
(quando essi furono combattenti per la libertà) e dalle
indimenticabili e brevi speranze della Liberazione, nella nostra
città di Perugia, alla cui bellezza profonda e severa, al
cui paesaggio spontaneo e luminoso la mia mente commossa non
può non associare quei ricordi lontani, e l’affetto
per quel giovane umbro.
Dalla città natale Paolo era venuto ancora bambino a Roma
e qui era cresciuto fra i primi studi e la scelta decisiva dello
studio dell’arte e dell’architettura che lo
portò, all’inizio di questo anno accademico, sui 19
anni, ad iscriversi alla Facoltà di architettura, dove
frequentava, con avidità di cultura e con rigore
intransigente di appassionato e lucido giudizio, le lezioni di
Zevi, e di Quaroni, che sarebbero stati i suoi maestri liberi e
congeniali e che ora lo piangono insieme agli amici e agli
estimatori di lui e dei suoi genitori.
Paolo, a Roma fın da ragazzo, aveva associato allo studio,
all’amore profondo dell’arte di cui avidamente
seguiva tutte le manifestazioni, nella letteratura, nel teatro,
nella musica, anche l’amore per l’attività
sportiva che aveva contribuito a rendere particolarmente vigoroso
il suo corpo snello ed elegantissimo, e che aveva variamente
esercitato insieme al suo bisogno di vita associativa nello
scoutismo cattolico. Così come lo ricordano anche quei
padri canadesi della sua parrocchia e della sua associazione, i
quali hanno voluto spontaneamente e pubblicamente ricordare, in
questi giorni tristissimi, accanto alle sue qualità morali
e intellettuali, anche la sua robustezza e prestanza, di contro
ai turpi tentativi di spiegare la sua tragica morte come dovuta a
malattia e a debolezza fisica e nervosa, assurda in chi, sciatore
e rocciatore, sarebbe stato colto da capogiro e vertigine su di
un muretto alto pochi metri.
Forte e padrone delle sue forze fisiche e morali, Paolo viveva
intensamente il frutto della sua natura e della sua educazione
familiare, in un costurne di lealtà assoluta, di chiarezza
mentale e morale, di volontà e coraggio di verità,
su cui egli aveva fondato anche la sua religiosità aperta
e spregiudicata. Né questa, in lui così autentica e
ricca di prospettive di svolgimenti e di ampliamenti culturali,
gli aveva in alcun modo precluso scelte politiche decise nel
campo democratico di sinistra fino alla sua iscrizione alla
Federazione Giovanile Socialista, in cui egli intendeva portare e
realizzare - anche con salutare e giovanile impazienza e
irrequietezza - il suo bisogno di lotta per la giustizia sociale
di tutti e per tutti, per la libertà di tutti e per
tutti.
In questi ultimi mesi, nel contatto con l’università
e con le offerte culturali più valide e aperte, egli si
veniva rapidamente maturando sempre meglio, unendo e articolando
le sue esigenze di impegno culturale e politico che lo avevano
coerentemente portato a prendere subito posizione nelle
associazioni studentesche democratiche coerenti alla sua
prospettiva socialista, a partecipare ad una lotta decisa - pur
nel suo bisogno profondo di apertura, di persuasione, di rifiuto
di ogni forma di violenza e faziosità - contro le forze
dell’incultura, della rozzezza mentale e morale, del
terrorismo teppistico, con cui egli si trovò subito in
netto, intransigente contrasto.
Ora, nell’apertura più luminosa della sua giovane
vita, nell’impegno dell’esercizio più attivo
ed intero della sua purezza morale, della sua intelligenza, della
sua fantasia fervida, egli è stato violentemente,
bruscamente, drammaticamente, strappato alla vita, al futuro,
agli amici, ai compagni, ai maestri, ai genitori.
Nulla ci può ripagare della sua scomparsa, della perdita
della sua presenza sensibile, su cui, chi lo conobbe e anche chi
solo lo ha, in questi giorni, "conosciuto" nelle fotografıe
e nella descrizione degli amici, ha lungamente e tristemente
fantasticato, vagheggiando affettuosamente i tratti puri,
l’inclinazione e il taglio del suo volto lieto e pensoso,
intelligente e intensamente serio.
Ora egli e noi siamo stati privati di tutto ciò.
Ma non dal caso, da un incidente fortuito, secondo una vile
riduzione della sua morte e del significato di questa, a cui ci
opponiamo con tutte le forze del nostro sdegno e del nostro
disprezzo morale, umano, civile.
Perché altrimenti saremmo qui riuniti in una vastissima
assemblea di docenti, studenti di Roma e del resto
d’Italia, uomini di cultura, lavoratori, uomini politici,
parlamentari di tutti i partiti antifascisti, fino al vice
presidente del Consiglio Pietro Nenni, al segretario del Partito
socialista De Martino, i quali questa sera visiteranno
ufficialmente le facoltà occupate?
Perché altrimenti tutte le facoltà di architettura
d’Italia sarebbero chiuse e tante università chiuse
od occupate con la bandiera a lutto? Perché altrimenti la
parte migliore e più vera dell’Italia sarebbe qui
presente o realmente o attraverso messaggi e manifestazioni che
si svolgono contemporaneamente in tante altre città
italiane?
Perché allora il Paese sarebbe, com’è noto
scosso, da un moto profondo di dolore, di collera, di protesta,
di volontà di lotta, in uno di quei rari momenti della
verità e della coscienza, che contano più della
politica pratica e che sono le radici profonde della stessa
politica e della stessa azione concreta?
Perché, perché è morto Paolo Rossi?
Anzitutto perché egli era un giovane democratico e
antifascista, e in Italia, dopo la Liberazione, da tempo muoiono
violentemente solo i democratici e gli antifascisti! Tale sua
qualità lo designava insieme agli altri giovani
democratici antifascisti alle aggressioni brutali, alla abbietta
volontà distruttiva di quei gruppi di azione squadrista
che da tempo agiscono indisturbati e incoraggiati
nell’Università di Roma esercitando, con pertinace
bestialità, quel costume di violenza, ancora pubblicamente
difeso e propagando fino in Parlamento da quei tetri straccioni
intellettuali e morali che dànno l’avvio ai giovani
teppisti.
Straccioni e teppisti e, a livello più profondo,
sventurati che cercano con l’attivismo squadrista e la
violenza, di compensare la loro incapacità a vivere nella
dimensione e nella misura degli uomini veri, essi che non hanno
nulla capito della vita e della storia, nulla della
civiltà, nulla dell’umanità, di cui essi
rifiutano e spezzano i vincoli profondi, nulla delle parole
inutilmente rivolte loro da chi si sforza (e con quanta fatica e
ripugnanza!) a volerli considerare pur uomini, a proporre loro
una superiore legge di discussione, di rispetto
dell’avversario, invece della sua distruzione fisica.
Ma Paolo è morto anche perché troppo grande
è la sproporzione, la tragica sproporzione del nostro
Paese fra una maturazione vasta di ideali democratici e una
prassi di avversione, o quanto meno di diffidenza a questa,
là dove essi dovrebbero essere tutelati e difesi contro i
velenosi frutti della educazione alla violenza.
Perché troppa è la distanza fra la Costituzione
nata dalla Resistenza e la mentalità e la pratica dei
detentori di strumenti repressivi spesso inadeguati o spesso
addirittura contrari al loro scopo costituzionale.
In questa sproporzione, troppo a lungo, troppo a lungo, si
è persistito, sin nel recente passato, nel costruire
quegli strumenti, che dovrebbero funzionare a difesa dei diritti
costituzionali dei cittadini e della vita democratica, in maniera
decisamente contraria, sostenendo, e a volte incoraggiando e
premiando arbitri e sopraffazioni, purché compiuti a danno
dei democratici. Né ci si può accontentare delle
più recenti buone intenzioni certo interessanti,
promettenti, ispirate da coscienza antifascista e democratica, se
ad esse non seguono atti concreti e coerenti, di cui
l’attuale governo democratico ha non solo tutte le
possibilità, ma anche il dovere.
In questo contesto più generale la morte tragica di Paolo
Rossi deriva da una causa più vicina e legata
all’Università di Roma.
So di pronunciare un giudizio gravissimo e durissimo, e come
vecchio professore universitario avrei preferito non dover essere
stato costretto dai fatti a pronunciarlo come esso è e
deve essere, così opposto recisamente agli avalli assurdi
da parte di chi, per la sua stessa autorità specifica,
avrebbe potuto e dovuto almeno attendere di conoscere
l’ordine del giorno votato dal Consiglio della
Facoltà di lettere, il verbale della relativa seduta, le
numerose dichiarazioni e testimonianze di docenti, studenti,
parlamentari dei partiti di opposizione e di governo.
Quell’ordine del giorno e quelle dichiarazioni denunciano
fra le responsabilità del tragico avvenimento, un modo di
governo di questa Università e un uomo di cui non intendo
qui fare il nome, perché esso macchierebbe, con la sua
vicinanza, quello del giovane morto per l’aggressione
fascista e per le possibilità ad essa concesse da quel
deten- tore del potere universitario romano.
Di quell’uomo non si sa se più condannare
l’incoscienza e l’imprevidenza o la cosciente
faziosità, l’assenza o la presenza negativa in
queste tragiche giornate, quando egli, oltretutto, non ha neppure
considerato doveroso di venir di persona sul luogo della tragica
vicenda, non ha ritenuto doveroso e umano di prendere diretto
contatto con i genitori di Paolo, di recarsi, dove un suo
studente agonizzava e moriva a causa dell’aggressione
fascista e viceversa si è preoccupato, con gesto inaudito
nella storia dell’Università italiana di chiamar
subito la polizia per invitarla a sgomberare con la forza (come
purtroppo la polizia ha fatto e poteva non fare) la
Facoltà di lettere occupata pacificamente da studenti e
docenti. E poi non si è vergognato di rilasciare ad una
stampa compiacente ed interessata dichiarazioni patentemente
false e insultanti per la memoria della vittima.
Quell’uomo, dico, è certamente da un punto di vista
morale e non solo morale responsabile della morte di Paolo Rossi.
Egli ne ha preparato la morte con infiniti atti di assenza e di
presenza negativa, con l’incoraggiamento dato ai gruppi
violenti e anticostituzionali, lasciandoli liberi di provocare e
aggredire gli studenti democratici e inermi, di insultare docenti
ed uomini del più alto valore morale ed intellettuale,
tollerando e difendendo la presenza di scritte anticostituzionali
in locali da lui controllati, rifiutando di prendere nella dovuta
considerazione denunce precise degli organismi studenteschi
democratici, proteste di illustri docenti, lasciate spesso
villanamente senza risposta.
Quale meraviglia allora se in questo clima da lui creato si
poteva giungere alla tragica morte di uno studente
democratico?
D’altra parte, quale meraviglia, se neppure una tragedia
simile è bastata a far comprendere a quell’uomo i
suoi doveri e - una volta che ancora questi venivano da lui
ignorati - a fargli comprendere l’elementare
necessità di abbandonare un posto così indegnamente
occupato.
Dolore, sdegno, protesta, si fondono e convergono di nuovo nella
memoria bruciante e nell’omaggio che rendiamo alla giovane
vittima che abbiamo accompagnato verso la tomba.
Vittima inerme e pure non inconscia delle ragioni e degli ideali
che l’hanno condotta a morte, Paolo credeva e voleva che il
mondo fosse liberato da ogni oppressione, fosse più
aperto, più puro, più degno degli uomini veri. E
perciò prendeva posizioni ed impegni con se stesso e con
gli altri. E, poiché era studente, riteneva suo dovere
lottare per un rinnovamento profondo
dell’università. E poiché era studente a
Roma, riteneva suo dovere anzitutto lottare contro la vergogna
della violenza fascista in questa Università.
Per questo (e non per un’impossibile consolazione ai suoi
genitori, a cui ci stringiamo affettuosi e fraterni, pregandoli
solo di sentire il grande amore che sale verso di loro da tutti
noi, la riconoscenza nostra per avere dato vita ed esempio ad un
giovane di così alte qualità) noi intendiamo
salutare Paolo Rossi, non solo con un rimpianto profondo, ma con
un impegno virile e civile. Egli stesso, per la sua vita e per la
sua morte, non ci chiede tanto onoranze e rimpianto (nessuno di
noi lo dimenticherà mai, lo avremo presente nelle
ispirazioni più alte della nostra vita) quanto ci chiede -
anzi comanda- con la voce assoluta dei morti (i morti non si
possono tradire, non si possono smentire, non si possono
abbandonare alla morte e alla solitudine del sepolcro), ci
comanda un impegno coerente al significato della sua vita e della
sua morte. Ci comanda di essere fatto vivere da noi nella nostra
azione costante e indomabile per i suoi e i nostri ideali.
Un’azione concreta, coraggiosa, intesa a far sì che
Paolo sia l’ultima vittima di una situazione assurda e
vergognosa, a far sì che, intanto e subito, questa
Università sia resa pulita e decente, a far sì che
tutta l’università italiana abbia una vita
interamente democratica, sicura, degna, e che ciò trovi
posto in una energica trasformazione democratica di ogni aspetto
della vita del nostro paese; poiché la lotta per
l’università non è che una parte della nostra
lotta per il rinnovamento del nostro paese.
Questo impegno viene qui preso da quanti qui siamo riuniti. Ma
soprattutto, pensando a Paolo io mi rivolgo ai giovani, agli
studenti. Essi sono il nostro futuro (quel futuro che Paolo
portava in sé e che gli è stato crudelmente
negato), essi sono la nostra virile speranza (quella speranza che
è stata atrocemente recisa nella vita di Paolo), essi sono
coloro che porteranno più avanti nel tempo la prosecuzione
di questa nostra lotta: una lotta democratica, coerente ai metodi
e ai fıni della democrazia, decisissima nella scelta di
ciò che rende degna la vita degli uomini e nel rifiuto di
tutto ciò che la deturpa, la contamina e la rende peggiore
della morte.
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"Le giornate romane" (1966)
Nell’articolo, pubblicato sul numero di maggio della
rivista fiorentina "Il Ponte", Binni ricostruisce il contesto
degli avvenimenti di aprile, iniziati con la morte di Paolo Rossi
e conclusi con le dimissioni del rettore
dell’Università. Una ferma denuncia delle
responsabilità, una serrata riflessione sui compiti degli
intellettuali.
Le drammatiche giornate dell’Università di Roma,
iniziate con la tragica morte di Paolo Rossi e concluse con le
dimissioni del rettore romano, con la volontaria cessazione
dell’occupazione delle facoltà da parte delle forze
universitarie antifasciste, con il lungo e acceso dibattito
parlamentare e l’ordine del giorno della maggioranza
governativa, costituiscono insieme una vicenda di eccezionale
importanza nella storia dell’università romana ed
italiana e un importante test di reazioni, valutazioni e
atteggiamenti della stampa, dei partiti, dell’opinione
pubblica, degli stessi protagonisti della vita universitaria
romana e italiana.
Mentre si preparano, da parte dell’Interfacoltà
romana, piú approfondite documentazioni sia sulla base
della prima parte del "Libro bianco", riprodotto in questo numero
del "Ponte", sia in ordine all’amministrazione
dell’Università di Roma, sia in forma di ricerche
sulla composizione studentesca, sulla sistemazione urbanistica,
sui rapporti fra la città universitaria e la città
di Roma (alcune di queste ricerche saranno affidate a neolaureati
che fruiranno di borse istituite alla memoria di Paolo Rossi), si
possono raccogliere alcune considerazioni relative ad alcuni
aspetti della vicenda e della sua ricordata qualità di
test.
Credo anzitutto doveroso e non inutile ricordare ancora una
volta come la spiegazione piú superficiale di questa
gravissima vicenda sia quella che la fa risalire ad uno stato di
disordine "goliardico" su cui si sarebbero innestate
artificiosamente lotte di opposte organizzazioni studentesche e
l’impiego di opposte violenze di fazioni estremistiche.
La verità è che sulla base di una generale
condizione anormale della vita universitaria italiana,
macroscopicamente ingigantita nell’Università di
Roma (mancanza di strutture democratiche, ad ogni livello,
insufficienza degli ordinamenti degli studi, contrasto tra
professori insegnanti e professori impegnati in tutt’altre
attività professionali, sproporzione fra il numero degli
studenti e quello dei docenti, inesistenza di un vero diritto
allo studio ed effettiva discriminazione classista ed economica
dell’accesso all’università), si sono aggiunte
nel caso dell’Università romana alcune cause precise
che hanno ulteriormente aggravato la generale situazione
universitaria: la presenza di squadre teppistiche
antidemocratiche e di una massa cospicua di studenti neofascisti
e qualunquisti, il comportamento passivo degli organi di polizia,
oreposti alla tutela dell’ordine costituzionale e legale
nella città universitaria, il modo di governo
dell’Università da parte di un rettore in carica da
molti anni.
Io che venivo a Roma dopo circa vent’anni di insegnamento
nelle Università di Genova e di Firenze, e che già
avevo potuto in quegli atenei verificare i difetti di fondo
dell’università italiana (per quel che riguarda
Firenze e l’agitazione del 1961 rimando al mio relativo
articolo sul numero del "Ponte" del maggio di quell’anno),
provai un’impressione profondamente penosa al mio arrivo,
nel 1964, di fronte ad una situazione mal immaginabile in base
alle sole notizie e voci che giungevano da Roma in altre
città.
Tutto ciò che lo stralcio del "Libro bianco" documenta non
è che una parte di quanto hanno verificato da tempo coloro
che lavorano nell’università di Roma: anzi un
ulteriore materiale di fatti criminosi non è stato potuto
raccogliere proprio perché l’intimidazione e lo
stato di terrore erano tali che molti studenti e studentesse
vittime di soprusi, di aggressioni, di insulti, hanno preferito
tacere o non sottoscrivere denunce per non aggravare la loro
posizione in una simile università, dove spadroneggiano
indisturbate squadre organizzate dai movimenti studenteschi del
hIovimento Sociale Italiano ("Caravella", FUAN, "Avanguardia
Nazionale", etc.) e dal gruppetto pacciardiano di "Nuova
Repubblica" ("Primula goliardica") che, come si sa, in Roma fanno
le loro piú sfacciate prove di forza.
Questo stato di cose illegale e pericoloso era tollerato, e con
ciò stesso incoraggiato, dagli organi di polizia che non
volevano vedere e provvedere, come era loro dovere, credendo
cosí anche di interpretare la direzione impressa dal
rettorato alla vita universitaria romana.
Sia ben chiaro: nessuno vuole inchiodare la polizia sulle
posizioni passate, e si prende atto senz’altro del nuovo
atteggiamento che la polizia ha tenuto e tiene nella città
universitaria da quando di questa si occupa direttamente il
questore di Roma e da quando il ministro degli Interni ha fatto
dichiarazioni di lealtà democratica e antifascista. Non si
può però, per nessuna ragione, celare quel passato
e accettare certe errate difese integrali dell’operato
della polizia e dei suoi rappresentanti: la dignità della
polizia si tutela facendo sí che essa sia effettivamente
sempre "degna" e prendendo provvedimenti, ove occorra, nei
confronti di quei suoi elementi che si sono assunti gravi e
accertate responsabilità, qualunque sia la ragione per cui
cosI hanno agito. Quanto alla responsabilità
dell’ex-rettore (che si estende a quella del direttore
amministrativo e di quella ulteriormente si rende responsabile)
nessuna malintesa pietas per la vecchiaia e le "teste
canute", nessuna futile considerazione di "opportunità",
può indurci a giustificare o minimizzare le gravissime
responsabilità di chi ha ricoperto per tredici anni la
massima carica universitaria, ha ricevuto proteste e denunce, e
nulla ha fatto per prevenire, come era suo preciso dovere, la
catena di episodi culminati nella morte del giovane studente
socialista.
La verità va detta a giovani e vecchi, a vivi e morti. E
la verità è che il comportamento di quel rettore
non è stato solo di inerzia e di tolleranza colpevole, ma
ha avuto giustificazioni precise, come ha avuto appoggi legati
alla vasta rete di interessi di potere privato e politico che
avvolge paurosamente l’Università di Roma. La sua
intervista del 5 maggio al "Rome Daily American" costituisce una
presa di posizione gravissima ("mi sono costantemente opposto
all’inserimento di elementi di sinistra
nell’Università. Ma questa era la mia
responsabilità quale capo di una università di
Stato"!) piú della stessa miserevole insistenza sulla
versione della morte di Paolo Rossi dovuta ad epilessia, fondata
su di una cartella clinica che non porta la minima traccia di
simile malattia. E la stessa tardiva e penosa smentita della
propria intervista (a tredici giorni di distanza e sotto il peso
della querela dei genitori di Paolo Rossi) è ancora
elemento gravissimo per il giudizio su di un uomo a cui sono
andati elogi e riconoscimenti destituiti di ogni onesta
giustificazione. Ma tant’è. Ciò che importa a
taluni è solo la squalifica dei "rossi" anche quando
questi (come il giovane studente morto e la maggior parte degli
elementi attivi nelle giornate romane) erano o senza partito o
cattolici o socialisti, e appartenenti dunque ad un partito che
è attualmente al governo.
Sulla base di queste verità (che tali non paiono solo a
chi non vuol vederle e si preoccupa di tutt’altra cosa che
la verità), si possono ricavare alcune considerazioni
generali sulle reazioni e gli atteggiamenti presi da varie parti
e correnti di opinione pubblica, dı politici e di uomini di
cultura e di scuola. Poca attenzione meriterebbero le reazioni
degli organi di stampa e degli stessi parlamentari del partito
neofascista, che per lo piú si limitano a opporre ad ogni
ragionamento espressioni sgrammaticate e balbettamenti
insensati.
C’è però da osservare almeno guesto di fronte
a loro, e agli organi qualunquistici e scandalistici di cui si
ciba con voluttà morbosa la borghesia benpensante
italiana. La massiccia campagna di diffamazione, scatenata contro
gli uomini piú attivi dell’Università, ha uno
scopo preciso (piú chiaro agli interessati qualunquisti e
antidemocratici che non agli stessi insensati nazifascisti) non
dissimile da quello per cui sono stati a lungo sostenuti
l’ex-rettore e la violenza teppistica
nell’Università di Roma.
Con questo attacco, come prima con l’azione del teppismo e
l’azione di favoreggiamento di questo, si mira a bloccare
un’azione che si teme, a ritardarne i tempi, a diminuirne
le forze.
Prima si arrestava l’azione di discussione e promozione
della riforma universitaria attirando le forze universitarie
democratiche della capitale in una continua tensione di difesa
contro il teppismo e il malgoverno universitario. Oggi si vuole
diminuire la forza di sviluppo dell’iniziativa democratica
e rinnovatrice impegnando uomini e gruppi (con una scelta tutta
corrispondente alla stessa energia dimostrata da quelli) in una
difesa della propria dignità e del proprio passato,
cercando di squalificarli, se possibile, non tanto presso
l’opinione dı destra, quanto presso i giovani, gli
studenti stessi democratici, cercando di metterli fuori lotta ora
puntando su di loro individualmente ora confrontando le singole
storie dei viaggi lunghi o brevi "attraverso il fascismo"
nell’accusa globale a quasi tutta una generazione, rea
soprattutto di essersi, a vari livelli cronologici e con varia
energia, distaccata dal fascismo, in cui era stata educata tra
infiniti inganni e in quella falsificazione della verità
che ora di nuovo si adopera nella polemica ricattatoria.
Alla fine è ben assurdo che coloro i quali, cresciuti in
un paese pieno di fango, da cui poterono riportarne sporcate
almeno le scarpe, fecero di tutto per ripulirsene e per ripulirne
il proprio paese, ven gano ora accusati da parte di quelli che si
adoperano in ogni modo per riportare nel nostro paese un fango
anche peggiore di quello di prima.
Ma piú importante è discutere con ferma chiarezza
la posizione per lo meno equivoca di quanti, in questi giorni,
hanno rivolto moniti e rimproveri agli uomini e alle forze
democratiche e rinnovatrici dell’Università, alla
luce di una concezione dell’uomo di cultura,
dell’intellettuale, dell’educatore e dei suoi doveri,
che deve essere smascherata nella sua configurazione
inaccettabile sia nella sua sostanza sia nel suo riferimento alla
situazione attuale.
Mi riferisco a pubbliche prese di posizione di professori
ordinari della stessa Università di Roma e ad articoli di
uomini ed organi che non possono certo essere accomunati sic
et simpliciter alla stampa scandalistica neofascista e
qualunquista, anche se ad essa hanno offerto aiuti preziosi,
contribuendo a confondere le idee sui rapporti fra cultura e
politica.
Accanto ad ordini del giorno e comunicati emessi da alcune
facoltà o da gruppi di professori romani. diretti ad una
difesa del rettore, ad una falsificazione della verità di
fatto, ad un’accusa docenti e studenti generosamente
insorti contro la violenza fascista e i suoi sostenitori, si
può distinguere quello di un gruppo di ordinari della
Facoltà di Magistero che (votato in contrasto con un
ordine del giorno della stessa Facoltà e prontamente dato
alla stampa "indipendente") si presenta particolarmente insidioso
per la stessa serenità e superiorità da cui si
dichiara improntato.
Il tono della mozione è magnanimo ed autocritico
dichiarando una corresponsabilità degli stessi firmatari
nella tragica morte di Paolo Rossi "giacché evidentemente
la loro opera educativa non ha raggiunto - almeno per la
totalità dei discepoli come sarebbe stato ed è
necessario - il suo scopo primo: quello di persuadere al rispetto
della dignità e libertà propria ed altrui, e di far
considerare ogni violenza come segno di immaturità e di
inciviltà" e sostenendo, in altra parte del testo, che "il
disinteresse alla vita comunitaria, che giunge in alcuni casi
sino al sistematico assenteismo, da parte della grande
maggioranza degli studenti e degli insegnanti, sia alle radici
del male, giacché apre la via all’azione di gruppi
faziosi e pertanto antidemocratici per definizione".
Ottimamente. Anche se i gruppi faziosi e la violenza non vengono
- come si doveva - indicati con la parola che ad essi competeva
(fascista) e se l’assenteismo di cui si parla non è
solo quello di quanti non partecipano di fatto alla vita
universitaria, ma anche quello di chi, pur variamente operando in
quanto docente con lezioni e magari esercitazioni, non si
è proposto il problema di un impegnativo rapporto
educativo, non solo specialistico, con gli studenti.
Come se lo sono invece proposto e lo hanno esercitato proprio
quei docenti che divengono il centrale obbiettivo polemico e
denunciatario del docurnento, là dove i firmatari "credono
loro dovere di manifestare il loro stupore e dolore per
l’atteggiamento di alcuni pochi colleghi che, travalicando
di molto l’adesione alla semplice occupazione delle
Facoltà, hanno creduto di associarsi a chi opponeva alla
violenza altre violenze". Quali altre violenze? Le azioni intese
a dimostrare pubblicamente che l’unica violenza era quella
delle squadre teppistiche, a promuovere l’interessamento
del parlamento e del governo su di una situazione drammatica e
assurda?
E che dei professori sentano il dovere di porsi a fianco dei loro
studenti minacciati, aggrediti, in un primo tempo duramente
trattati dalla polizia, che essi sentano il dovere di partecipare
alle assemblee comuni di studenti, incaricati, assistenti a cui
li legano l’interesse "comunitario", scientifico ed
educativo, esponendosi agli oltraggi delle canaglie, alle
rappresaglie di ogni genere e insieme rifiutandosi, con gli
studenti, di usare qualsiasi forma di violenza, non può
suscitare stupore e dolore se non in chi al fondo condivide
l’idea del professore cui compete solo il dovere
"scientifico" e risolve di fatto la sua missione educativa nel
non intervenire, ne] chiudersi nella sua "purezza" scientifica
per poi parlare genericamente di assenteismo e puntare sulla
denuncia, ad ogni effetto, di quei "pochi" della cui precisa
azione ha avuto notizia solo indiretta e tendenziosa. Questo non
è l’ideale del professore e dell’intellettuale
che hanno avuto ed esercitato uomini come Francesco De Sanctis,
come Salvemini, come Calamandrei, come Russo e tanti altri che, a
diverso livello di tempi, di situazioni, di forza personale,
dettero alti esempi insieme di magistero scientifico e di
magistero morale e politico. E non rifiutarono contatti,
là dove era necessario, con quelle forze politiche che
nello stesso documento vengono ammonite a tenersi lontane
dall’Università.
Qui (e al di là di ogni possibile identificazione o
diversificazione attuale dei singoli professori e di ogni
schematizzazione che abbisogna sempre di precisazioni e
gradazioni di giudizio) è il punto di discrimine fra i
professori che si richiamano al De Sanctis e magari al Leopardi
(il Leopardi poeta di supremi interventi e "Malpensante", come si
definí nei Paralipomeni, supremo nemico di ogni
evasione e di ogni "purezza" passiva e reazionaria) e i
professori che si tengono nei limiti dell’insegnamento
specialistico ammantandolo di parole solenni ed austere di
dignità, di serenità, di missione educativa,
esercitata, di fatto, a parole e smentita specie quando le
situazioni impongono decisioni e posizioni attive. Lietissimi
naturalmente se differenze pronunciatesi in queste giornate
potranno ridursi entro ripensamenti piú meditati e in
quella azione per la riforma universitaria su cui debbono
concentrarsi le forze piú serie
dell’Università.
Ma quali sarebbero i "chierici traditori" di cui si torna a
parlare, fuori dell’ambito universitario, in questi giorni?
Ecco (come ulteriore controllo di una concezione inaccettabile
dell’educatore e dell’intellettuale che educa non
educando, eludendo i suoi doveri verso la scuola e il paese,
ignorando la realtà delle situazioni concrete e delle loro
inevitabili implicazioni politiche) altre due prese di posizione
che dimostrano l’urgenza di una discussione - qui appena
iniziata - sul tema generale dell’intellettuale e
dell’educatore, dei suoi doveri e dei suoi rapporti con la
politica.
Una è (anche se non legata alla situazione
universitarıa, quella del presidente Johnson, che ricevendo
una laurea honoris causa ha tracciato il ritratto del
"buon professore" che non deve "orientare", ma "chiarire", e che
soprattutto non deve mai occuparsi di politica, accettando
cosí di fatto la politica dei governi qualunque essa sia,
anche quando essa - come notava Aladino sull’"Astrolabio"
del 22 maggio - "si dimentica della Repubblica di Platone" e
obbliga tanto piú gli intellettuali "a testimoniare contro
la feccia di Romolo".
Poiché gli intellettuali non vivono nell’Olimpo, ma
su di una terra intrisa di male e di sangue, una simile
concezione è da rigettare recisamente come quella,
cosí concorde nella sostanza, che nella "Fiera letteraria"
del 12 maggio conclude un articolo non firmato (I volti della
violenza) e pur cosí accettabile nella sua prima
parte.
Nella prima parte infatti (con un consenso assai interessante
alle nostre interpretazioni dei fatti da parte di un organo non
certo di sinistra) si definiva lucidamente come assurda la
versione della morte di Paolo Rossi quale "incidente"
assimilandola ad altri "incidenti" della nostra triste storia
nazionale: quelli di Matteotti, di Gobetti e di Amendola. Ma
nella seconda, la mano abile dello scrittore, tutt’altro
che inesperto di politica, porta per gradi a ben altre
conclusioni da quelle che l’inizio poteva farci attendere
(e cioè una coraggiosa denuncia dei "chierici" che non
sentono i loro interi impegni educativi e lasciano i loro
studenti isolati e senza punti di riferimento - magari polemico -
nella concreta figura e presa di posizione dei loro docenti).
Vero e giusto l’invito all’esame di coscienza, vera e
giusta l’indicazione della responsabilità dei
"maestri" nell’educazione dei giovani ("professori che non
sempre sentono di dover essere so prattutto dei maestri e di
dover creare rapporti reali, concreti, diretti con la vita della
scuola, con gli studenti"), vero e giusto almeno l’avvio
sui pericoli delle organizzazioni studentesche a riprodurre nella
vita universitaria null’altro che le formule dei partiti.
Ma qui dalle verità accettabili e generali si passa a
conclusioni assai discutibili. Come e soprattutto la conclusione
secondo cui all’Università "i maestri" stanno
abdicando alla loro funzione di guida, non insegnano piú
le cose concrete del sapere, ma esortano piuttosto a sistemare il
mondo di domani secondo questo o quel sistema politico che
prevede, in pratica, l’uso della forza e la cancellazione
della libertà, anche della libertà del sapere.
È sempre dalla "trahison des clercs" che nascono le
dittature".
Certo noi non amiamo il "chierico rosso o nero" della denuncia
montaliana di Piccolo testamento e abbiamo sempre
protestato ed agito in ogni caso concreto contro ogni
asservimento, di tipo zdanovista o meno, della cultura
all’autoritarismo e alla costruzione illiberale della
società e dello stato.
Ma qui c’è un problema piú generale. Non
è vero che le dittature nascono dalla trahison des
clercs solo e soprattutto nel senso indicato
dall’articolista della "Fiera letteraria". Anzi nel nostro
paese la dittatura fascista è nata dalla trabison des
clercs nel senso di una rinuncia di responsabilità
etico-politica da parte degli intellettuali e degli educatori.
Essa è stata aiutata potentemente dalle "società
degli apoti" di prezzoliniana memoria, dal disprezzo di molti
intellettuali per la politica e poi dal loro ruere in
servitium, avidi di feluche e di spadini accademici, da certa
stessa predicazione e pratica della "purezza scientifica e
letteraria, dal silenzio di tanti maestri sui problemi storici e
civili. Né è giusto contrapporre come salutare un
simile atteggiamento solo perché si pensa (come certo fa
l’articolista della "Fiera") alla paventata "dittatura
comunista". Perché, pensando anche a quella ipotesi, per
gli educatori e gli intellettuali non si pone il problema di un
assoluto disimpegno, di un rifugio nelle "cose concrete del
sapere" (e sono poi concrete queste cose se mancano di un
orientamento e di un nesso generale con i problemi della vita e
della storia?), bensí quello di un piú profondo
impegno (parola svalutabile solo nella sua accezione piú
esterna e rozza), di una piú profonda chiarezza di prese
di posizione. Chi vive da decenni nell’Università sa
che i giovani migliori, quelli che saranno i maestri di domani,
vogliono insieme dai loro insegnanti verità e
coraggio di verità, sicurezza scientifica e offerta di
orientamento generale, su cuí poter discutere, consentendo
o dissentendo; vogliono ed amano insegnanti che non si nascondono
sotto l’impenetrabilità della dignità
scientifica e accademica e che, quando le situazioni lo chiedono,
testimoniano di persona e con i fatti sulla coerenza delle loro
idee e della loro missione educativa.
È da qui che dovrebbe cominciare un discorso piú
complesso sui rapporti fra politica, cultura e scuola, come
può essere svolto da un intellettuale socialista
liberissimo e proprio perciò non privo di un doveroso
senso di responsabilità politica e civile. Credo di averne
indicato alcuni agganci iniziali entro le occasioni non
pretestuose di una polemica, primo momento di un esame che pur di
quella necessitava: cosí come l’azione per la
riforma universitaria necessitava di una battaglia decisa contro
le forze che ne bloccavano ogni proficuo sviluppo.
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Un telegramma di Ferruccio Parri (1966)
Nei giorni successivi al funerale di Paolo Rossi, la destra
neofascista e collusa con gli ambienti fascisti si scatena:
sostenendo che la morte di Rossi sia dovuta ad un banale
incidente provocato da una sua presunta malattia, in
un'interrogazione parlamentare il fascista Caradonna reclama
sanzioni disciplinari contro i docenti che, in particolare Binni,
hanno "istigato all'odio politico"; di fronte a
ripetute minacce di morte, a Binni viene imposta - per circa un
mese - una scorta di polizia. La radicalità del discorso
funebre di Binni crea malumori anche negli ambienti democratici
moderati. Contro questo clima reazionario ed equivoco interviene
Ferruccio Parri, massimo rappresentante della Resistenza.
Federazione Italiana Associazioni Partigiane sente dovere
testimoniare amico Binni inalterata affettuosa stima che
Resistenza habet per valoroso compagno lotta liberazione e
testimonianza ammirazione per discorso recente Università
di Roma.
Ferruccio Parri Presidente
Lamberto Mercuri Segretario nazionale
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"A sette mesi dalla morte di Paolo Rossi" (1966)
Nel numero di novembre-dicembre della rivista "La
conquista", mensile dei giovani socialisti romani, Binni insiste.
Il testo non è mai stato ripubblicato.
Circa sette mesi fa, il 28 aprile, moriva all'Ospedale di
S.Giovanni, appena ventenne, Paolo Rossi, studente del primo anno
di Architettura, rappresentante della lista dell'UGI (Unione
Goliardica Italiana, ndr), iscritto alla Federazione
Giovanile Socialista. Moriva per la caduta da un muretto alto
pochi metri in seguito ad un malore causato da percosse ricevute
(come ormai si va sempre più chiarendo in base a
testimonianze e documenti, raccolti dalla famiglia) durante
un'aggressione a studenti democratici da parte di elementi
nazifascisti specializzati ed attivi da tempo nel più
brutale pestaggio dei loro avversari.
Durante quell'aggressione Paolo Rossi si era trovato nella
mischia soprattutto (come dimostra chiaramente una delle
fotografie scattate in quell'occasione dal fotografo Mordenti)
nell'intenzione di trattenere i suoi compagni dal rispondere alle
provocazioni fasciste, convinto, com'egli era, della
superiorità del metodo della persuasione e del civile
confronto rispetto a quello della violenza, della sopraffazione
fisica, e non perciò meno persuaso della
intollerabilità della sopravvivenza appunto di metodi e di
atteggiamenti che più di vent'anni prima avevano
subìto la sanzione di una sconfitta definitiva nella
guerra di liberazione e nella Resistenza.
Agli ideali dell'antifascismo, della Resistenza, della
Costituzione democratica egli era stato educato nel seno di una
famiglia cattolica-democratica che aveva partecipato alla
Resistenza. E a quegli ideali egli aveva tenuto fede
approfondendoli personalmente con una volontà di
partecipazione alla causa della giustizia sociale e del
rinnovamento civile del nostro paese che lo aveva condotto ad
aderire al Partito socialista e alle sue organizzazioni giovanili
politiche e studentesche.
E' per tutto ciò che noi ricordiamo e piangiamo ancora la
sua morte, la sua giovane vita stroncata nel momento più
luminoso del suo sviluppo (quando si apriva sempre meglio a
impegni culturali, civili, umani con impetuosa freschezza) non
solo come ogni morte precoce, come ogni scomparsa di giovani - in
ogni caso crudelmente rapiti agli affetti e all'esercizio dei
valori, quando questi in loro sono più puri ed
entusiastici - ma come una morte tanto più crudele e
insieme tanto più degna di attivo ricordo, perché
dovuta non alla malattia e al caso, ma ad una violenza pertinace,
stolta e malvagia, e alle circostanze ben precise che permisero a
quella violenza di pronunciarsi e di esercitarsi indisturbata e
addirittura favorita.
Ciò che in ogni caso, nessuna persona onesta e
intelligente può dimenticare è appunto il contesto
preciso in cui quella morte avvenne (attività illegale e
anticostituzionale di bande teppistiche neofasciste
nell'Università di Roma e colpevole tolleranza o
favoreggiamento di quella da parte delle autorità
accademiche e degli organi preposti alla tutela della legge e
della Costituzione) e che fu ben avvertito dalla stessa
maggioranza governativa se essa, a conclusione di un lungo
dibattito parlamentare su quella morte e sulle vicende
dell'Università di Roma, si accordò su di un ordine
del giorno inequivoco nel denunciare "l'anormale situazione che
per le violenze fasciste si è venuta a determinare nella
Università di Roma".
Alla luce di quella diagnosi, che molti degli stessi professori e
studenti dell'Università di Roma precisarono energicamente
e con documenti inoppugnabili, la morte di Paolo Rossi non
può in alcun modo essere ridotta ad un caso incidentale,
insignificante e slegato dalla intollerabile situazione generale
in cui essa avvenne.
Lo ha autorevolmente, per tutti noi, ribadito pochi giorni fa, a
Tribuna politica il compagno De Martino nella sua sdegnata
risposta ad un giornalista di destra (illustratosi a lungo nella
campagna di diffamazione e alterazione della verità in
vari organi di stampa di cui la destra abbondantemente dispone):
"Nego assolutamente che negli episodi che lei riporta vi sia
stata una speculazione e nego anche che sia stata una pura e
semplice disgrazia. La Magistratura può dire quello che
crede giusto dire sul piano giudiziario. Noi diamo un giudizio
politico. Se lei chiama disgrazia il fatto che un pmovero ragazzo
di diciannove anni, che si trova in mezzo a tumulti e violenze
all'interno dell'Università, e lì, magari anche per
caso, cade e perde la vita, se lei la definisce disgrazia, io la
definisco un delitto politico, ricollegandolo al clima che si era
creato nell'Università di Roma, all'intolleranza non certo
della sinistra, ma di elementi di destra, che ha creato poi le
premesse per quelle conseguenze, e che è costata la vita,
ancora una volta, a un giovane socialista" ("Avanti!", 7 ottobre
1966).
Ma va aggiunto, a completamento della risposta di De Martino, che
il più assillante e spregiudicato esame dei fatti non
può non indurci a confermare il carattere non casuale di
quella morte. Infatti le fotografie di quella tragica mattina e
le testimonianze di tre studenti, che conoscevano Paolo ed erano
dunque in condizione di individuarlo durante l'aggressione
fascista, ci confortano nella versione delle percosse come causa
della sua caduta (la versione degli avvocati e dei periti della
famiglia Rossi). E invece nulla prova la presunta malattia di
Paolo a cui ostano d'altra parte le infinite testimonianze sulla
sua buona salute, sulla sua attività di rocciatore,
scalatore, che lo avevano fatto scegliere dai suoi professori fra
i giovani adatti a rilievi sulle parti più alte e
pericolose di S. Giorgio in Velabro.
Sono queste le ragioni che hanno motivato (insieme alle perizie)
la richiesta degli avvocati dei Rossi per una istruttoria formale
e che ci danno tanto più il diritto e il dovere di
contestare energicamente sia le notizie singolarmente "fuggite"
dagli ambienti giudiziari in merito ad una richiesta di
archiviazione da parte del Procuratore (e poi in merito ad una
archiviazione del Giudice Istruttore che immediatamente si
è dimostrata invece non avvenuta), sia la lunga campagna
di stampa di destra e "indipendente", intesa, da una parte, a
isolare la morte di Paolo dalle circostanze in cui è
avvenuta e, dall'altra, a risolverla nell'incidente dovuto alla
presunta malattia.
E' qui che il discorso dovrebbe ampliarsi a dismisura sui metodi
e le ragioni di quella campagna che, inizialmente promossa dai
più direttamente interessati, è stata poi raccolta
e rilanciata da tutti gloi organi e settimanali, centrali e
periferici, del qualunquismo e "benpensantismo" italiano.
Lo spazio non mi permette di svolgere qui tale discorso
amarissimo ed estremamente significativo per la bassezza, la
spregiudicatezza faziosa di tanta stampa italiana e per i suoi
rapporti con forze precise e con un settore dell'opinione
pubblica più proclive a gustare notizie scandalistiche sui
partiti e sugli uomini democratici che a cercar di capire la
verità dei fatti e il loro significato.
A noi, per amore della verità, per il dovere contratto con
il giovane compagno morto, per il dovere perenne di una lotta
democratica mai esauribile, spetta di non cedere all'amarezza
degli oltraggi, al senso di disgusto che si prova di fronte ad
una campagna di stampa così chiaramente falsa,
deformatrice, profondamente antidemocratica per contenuti e
metodi.
Spetta a noi di condurre avanti, senza opportunismi e remore
falsamente prudenziali, una battaglia democratica e civile che,
mentre mira a stabilire la verità di fatto sulla morte di
Paolo Rossi, non può insieme non mirare a chiarirne i
nessi sociali e politici con una situazione più vasta e
pericolosa, a colpire i settori che di quella situazione e della
stessa campagna di stampa sono stati e sono interessati
sostenitori, a sollecitare le forze democratiche ad una assidua
vigilanza, ad una estrema chiarezza di intenti, ad una azione
energica di fronte al complesso panorama di interessi, di
connivenze, di antidemocratica volontà che la morte di
Paolo Rossi e la lunga polemica che ne è seguita, ci hanno
ancor meglio rivelato.
Noi non chiediamo vendette e violenza (parole di un vocabolario
non nostro e indegne del giovane puro che qui ricordiamo), non
chiediamo sopraffazioni e alterazioni della verità da
contrapporre a chi ne fa la stessa ragione della propria vita
meschina e rattratta. Chiediamo però giustizia,
verità, rispetto e realizzazione delle leggi
costituzionali, come elementi di una decisa lotta contro un mondo
vecchio e duro a morire, contro concezioni (se tali possono
dirsi) che non hanno diritto di cittadinanza in una
società democratica. Perché rifiuto della violenza
e fede nella forza delle idee non voglion dire indulgenza inerte
e accettazione passiva. Anzi lo stesso amore che proviamo per
ogni creatura umana non può non essere severo ed esigente,
non può mancare mai di giudizio e attiva presa di
posizione su fatti, idee e comportamenti. Altrimenti esso diventa
una falsa, sbagliata pietà che lascia i mali e i veleni
circolare pericolosi nel corpo della nazione, che lascia le cose
come stanno e come vorrebbero che stessero le forze
conservatrici.
Per questa sete di giustizia e di verità, per questo
inesausto sdegno morale e civile, noi dobbiamo a Paolo Rossi e a
noi stessi, al nostro paese e al nostro partito l'impegno di non
interrompere la battaglia democratica e antifascista per cui e in
cui Paolo Rossi è morto, e in cui si inserisce la lotta
per il chiarimento delle circostanze della sua morte e per la
giustizia che ad essa va resa.
Come potremmo altrimenti pensare a lui, a lui morto e perduto
alla vita? Come potremmo sentirci in pari con lui e con la nostra
coscienza?
I morti non si possono tradire, non si possono smentire, non si
possono lasciare alla solitudine del sepolcro. I morti ci
chiedono di vivere attraverso l'onore concreto che a loro
rendiamo proseguendo la lotta per le ragioni che li condussero
alla morte. Non è vero che essi chiedono di essere
lasciati nella pace del sepolcro e dell'oblio. Non è vero
che essi chiedono di essere posti "al di sopra della mischia".
Vogliono, comandano, invece, di vivere nella prosecuzione della
lotta in cui sono caduti.
Perciò a Paolo Rossi, in questa ricorrenza, promettiamo
ancora una volta di averlo vivo con noi, di batterci per la
verità e il significato della sua morte, di proseguire la
lotta per cui egli morì, senza odio, ma senza indulgenza,
senza violenza, ma senza viltà, affinché dal nostro
paese siano cancellate le vergogne che resero possibile il suo
sacrificio, affinché gli ideali di democrazia e di
socialismo in cui credeva divengano forze e forme effettive della
società italiana.
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Da una lettera di Aldo Capitini (1967)
Da una lettera del 26 agosto 1967. Il colloquio tra
Capitini e Binni, iniziato negli anni '30, si sta avviando alla
sua conclusione. Capitini morirà nell'autunno del 1968,
rimanendo una voce centrale di riferimento - "compresente" - per
l'amico fraterno.
Questa mattina che è di domenica ho rivissuto
un'altra simile di luglio: non hai idea della bellezza di tutte
le campane e piccole campane che suonano in questa grande conca
verso il cimitero ed Assisi: tutta la parte Est della
città. Se uno si mettesse alle 6 a Favarone e stesse
lì fin verso le 10 si godrebbe una grande cosa. Io non la
conoscevo.
Tra me e me discorro con te, e anche del o col Leopardi, insieme,
noi tre. Spesso mi torna in mente di fare un quadro sintetico di
questo secolo in Italia, con la grande morsa anticattolica a due
bracci, quello del Croce per gli intellettuali (Gramsci ha detto
che dopo del Croce molti intellettuali non potranno tornare
cattolici), e quello del Gramsci e dei comunisti a un altro
livello. Un'utile morsa, indubbiamente. Ma ora che si delinea nel
mondo la scelta guerriglia o no, c'è il bisogno che si
delinei in Italia una certa consistenza della scelta pura
nonviolenta, dal basso e rivoluzionaria in religione: solo allora
potrò scrivere il quadro perché si vedrà il
posto e il limite di Salvemini, ma anche perché i miei
temi vengono a contare ora. E allora si capisce il primo decennio
del secolo, ma ora. Il mio compito mi pare sia stato e sia
questo (se ce la farò! Se no, faranno altri).
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"Estremo commiato" (1968)
Sono le parole pronunciate da Binni ai funerali di Aldo
Capitini, a Perugia, il 21 ottobre 1968. Il testo è stato
poi raccolto nel volume La tramontana a Porta Sole. Scritti
perugini ed umbri (1983 e successive edizioni).
Queste inadeguate parole che io pronuncio a nome degli amici
più antichi e più recenti che Aldo Capitini ebbe ed
ha, per la sua eccezionale disposizione verso gli altri,
vorrebbero più che essere un saluto estremo e un motivato
omaggio alla sua presenza nella nostra storia privata e generale,
costituire solo un appoggio, per quanto esile e sproporzionato,
ad una tensione di concentrazione di tutti quanti lo conobbero e
lo amarono: tutti qui materialmente o idealmente raccolti in un
intimo silenzio profondo che queste parole vorrebbero non
spezzare ma accentuare, portandoci tutti a unirci a lui, nella
nostra stessa intera unione con lui e in lui, unione cui egli ci
ha sollecitato e ci sollecita con la sua vita, con le sue opere,
con le sue possenti e geniali intuizioni. Certo in questo "nobile
e virile silenzio" suggerito, come egli diceva, dalla morte di
ogni essere umano, come potremmo facilmente bruciare il momento
struggente del dolore, della lacerazione profonda provocata in
noi dalla sua scomparsa? In noi che appassionatamente sentiamo e
soffriamo l’assenza di quella irripetibile vitale presenza,
con i suoi connotati concreti per sempre sottratti al nostro
sguardo affettuoso, al nostro abbraccio fraterno, al nostro
incontro, fonte per noi e per lui di ineffabile gioia, di
accrescimento continuo del nostro meglio e dei nostri affetti
più alti. Quel volto scavato, energico, supremamente
cordiale, quella fronte alta ed augusta, quelle mani pronte alla
stretta leale e confortatrice, quegli occhi profondi, severi,
capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri cuori ed
intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso
fraterno e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma
così carico di intima forza di persuasione quella voce dal
timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino alle sue minime
vibrazioni.
Tutto ciò che era suo, inconfondibilmente e sensibilmente
suo, ora ci attrae e ci turba quanto più sappiamo che
è per sempre scomparso con il suo corpo morto ed inanime,
che non si offrirà mai più ai nostri incontri, al
nostro affetto, nella sua casa, o in questi luoghi da lui e da
noi tanto amati, su questi colli perugini, malinconici e sereni,
in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci sembrano
improvvisamente privati della loro bellezza intensa se da loro
è cancellata per sempre la luce umana della sua figura e
della sua parola.
E ognuno di noi, certo, in questo momento, è come
sopraffatto dall’onda dei ricordi più minuti e
perciò più struggenti quanto più remoti
risorgono dalla nostra memoria commossa in quei particolari
fuggevoli e minimi che proprio dalla poesia del caduco, del
sensibile, dell’irripetibile, traggono la loro forza
emotiva più sconvolgente e ci spingerebbero a rievocare, a
recuperare quel particolare luogo di incontro, quella stanzetta
della torre campanaria in cui un giorno - quel giorno
lontano - parlammo per la prima volta con lui, o quella piazzetta
cittadina - quella piazzetta - in cui improvvisamente lo
vedemmo illuminato dalla gioia dell’incontro inatteso, o
quel colle coronato di pini in cui insieme ci recammo con
altri amici.
E ognuno di noi ripensa certo ora alla propria vicenda e al segno
pro fon d o lasciatoci dall’ incontro con Capitini, fino a
dover riconoscere - il caso di quanti furono giovani in anni
lontani - che essa sarebbe per noi incomprensibile e non
ricostruibile come essa si è svolta, senza
l’intervento di liu, senza la sua parola illuminante, senza
i problemi che lui ci aiutò ad impostare e a chiarire,
spesso contribuendo a decisive svolte nella nostra formazione e
nella nostra vita intellettuale, morale, politica.
Ma appunto proprio da questo, dalla considerazione
dell’immenso debito contratto con lui, dalla nostra
gratitudine e riconoscenza per quanto, con generosità e
disponibilità inesauribile, egli ci ha dato, veniamo
riportati - al di là del nostro dolore che sappiamo
inesauribile e pronto a risorgere ogni volte che ci
colpirà un’immagine, un’eco, una labile
traccia della sua per sempre scomparsa consistenza concreta - a
quel momento ulteriore della nostra unione con lui che in
occasione della sua morte, e soprattutto dalle sue parole e dalle
sue opere abbiamo appreso a considerare come l’apertura del
"muro del pianto", della buia barriera della morte.
Perché qualunque siano attualmente le nostre diverse
prospettive ideologiche, esistenziali, religiose o non religiose
(e così, coerentemente, pratiche e politiche), una cosa
abbiamo tutti, credo, da lui imparata: la scontentezza profonda
della realtà a tutti i suoi livelli, la certezza dei suoi
limiti e dei suoi errori profondi, la volontà di
trasformarla, di aprirla, di liberarla.
È qui che il ricordo e il dolore si tramutano in una
tensione che ci unisce con Aldo nella sua più vera
presenza attuale, nella sua non caduca presenza in noi e nella
storia, e ci riempie di un sentimento e di una volontà
quale egli ci chiede e ci comanda con tutta la sua vita e la sua
opera più persuasa di combattere per una verità non
immobile e ferma, ma profonda ed attiva, concretata in quella
prassi conseguente di cui egli sosteneva proprio in questi ultimi
giorni, parlando con me, l’assoluto primato.
Il morto, il crocifisso nella realtà, come egli diceva,
suggerisce infatti insieme il senso della nostra limitatezza
individuale in una realtà di per sé ostile e
crudele (quante volte abbiamo insieme ripetuto i versi di Montale
con il loro circuito chiuso: "la vita è più vana
che crudele, più crudele che vana!") e la nostra
possibilità o almeno il nostro dovere di tentare di
spezzare, di aprire quella limitatezza, di trasformare la
realtà, dalla società ingiusta e feroce alla natura
indifferente alla sorte dei singoli e al loro dolore. Lì
è il punto in cui convergono tutte le folte componenti del
pensiero originalissimo di Capitini: il tu e il tu-tutti, il
potere dal basso e di tutti, la nonviolenza, l’apertura e
l’aggiunta religiosa. Lì convergono in una profonda
spinta rinnovatrice le idee, le intuizioni (tese da una forza
espressiva che tocca spesso la poesia), gli atteggiamenti pratici
di Capitini.
Non accettare nessuna ingiustizia e sopraffazione politica e
sociale, non accettare la legge egoistica del puro utile, non
accettare la realtà naturale grezza e sorda, e opporre a
tutto ciò una volontà persuasa del valore
dell’uomo e delle sue forze solidali e arricchite dalla
"compresenza" attiva dei vivi e dei morti, tutte immesse a
forzare ed aprire i limiti della realtà verso una
società e una realtà resa liberata e fraterna
anzitutto dall’amore e dalla rinuncia alla soppressione
fisica dell’avversario e del dissenziente, sempre
persuasibile e recuperabile nel suo meglio, mai cancellabile con
la violenza.
Di fronte a questo sforzo consapevole e ai modi stessi della sua
attuazione e della sua configurazione precisa alcuni di noi
possono essere anche dissenzienti o diversamente disposti e
operanti, ma nessuno che abbia compreso l’enorme portata
della lezione di Capitini può sfuggire a questo nodo
centrale del suo pensiero, nessuno può esimersi di dare ad
esso adesione o risposta, tanto esso è stringente,
perentorio, come perentoria è insieme la lezione di
intransigenza morale e intellettuale di Capitini, la sua netta
distinzione di valore e disvalore, la severità del suo
stesso amore, pur così illimitatamente aperto e persuaso
del valore implicito in ogni essere umano.
Proprio per questo amore aperto e severo, questa nostra unione in
lui e con lui - in presenza della sua morte - non può
lasciarci così come siamo di fronte alle cose e di fronte
a noi stessi, non può non tradursi in un impegno di
suprema lealtà, sincerità, volontà di
trasformazione.
Capitini fu un vero rivoluzionario nel senso più profondo
di questa grande parola: lo fu, sin dalla sua strenua opposizione
al fascismo, di fronte ad ogni negazione della libertà e
della democrazia (e ad ogni inganno esercitato nel nome formale
ed astratto di queste parole), lo fu di fronte ad ogni violenza
sopraffatrice, in sede politica e religiosa, così come di
fronte ad ogni tipo di ordine e autorità dogmatica ed
ingiusta (qualunque essa sia), lo fu persino, ripeto, di fronte
alla stessa realtà e al suo ordine di violenza e di
crudeltà. Questo non dobbiamo dimenticare, facendo di lui
un sognatore ingenuo ed innocuo, e sfuggendo così alle
nostre stesse responsabilità più intere e
rifugiandosi nel nostro cerchio individualistico o nelle nostre
abitudini e convenzioni non soggette ad una continua critica e
volontà rinnovatrice.
Forse non a tutti noi si aprirà il regno luminoso della
realtà liberata e fraterna nei modi precisi in cui
Capitini la concepiva e la promuoveva, ma ad esso dobbiamo pur
tendere con appassionata energia.
Solo così il nostro compianto per la tua scomparsa,
carissimo, fraterno, indimenticabile amico, diviene concreto
ringraziamento e risposta alla tua voce più profonda: solo
così non ti lasceremo ombra fra le ombre o spoglia inerte
e consunta negli oscuri silenzi della tomba e proseguiremo
insieme, severamente rasserenati - come tu ci hai voluto - nel
nostro colloquio con te, con il tuo tu-tutti, attuandolo nel
nostro faticoso e fraterno impegno di uomini fra gli uomini, come
tu ci hai chiesto e come tu ci hai indicato con il tuo altissimo
esempio.
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da Italo Viola, Critica letteraria del Novecento (gli studi
dello stile e della poetica), Mursia, Milano 1969
Dal capitolo "Walter Binni".
La prima definizione della "poetica" si legge
nell'introduzione dello studio sul decadentismo: è
l'incipit del primo volume, e indica "essenzialmente" la
"consapevolezza critica che il poeta ha della propria natura
arttistica", l'"ideale estetico", il "programma" del poeta, "i
modi secondo i quali si propone di costruire". Questa definizione
assomma fatti essenzialmente culturali: volta, nello stesso
proporsi, allo studio dei poeti, ritaglia nella realtà,
diciamo pure nel "quadro storico", una natura letteraria:
letteraria nel senso più ampio, è, ovviamente, la
natura artistica di cui il poeta ha consapevolezza, letterari il
programma e i modi operativi, letterarie le forme di cui si
riveste l'ideale estetico. Beninteso che seguitiamo a parlare
della "poetica", perché non vogliamo dire plateali
ovvietà, come che letteraria è l'opera degli
scrittori: vogliamo invece dire che la prima definizione di
poetica elaborata dal Binni mette la poesia in rapporto con la
storia attraverso lo spessore di questa che a quella è
più prossimo, si dica pure che lo studio si applica a una
materia contigua alla poesia, agli spazi superficiali della
storia. S'intenda questo aggettivo, superficiali, in senso
puramente morfologico. E' convenzione degli studiosi di
psicologia rappresentare la psiche come una costruzione conica
con molti piani sotterranei: i pochi emergenti sono quelli della
vita cosciente, il subconscio e l'inconscio sono i piani
affondati nelle cavità della terra. Si rappresenti con
simile immagine anche la storia di un'attività e di un
atto. Più vicini alla poesia, in evidenza, saranno gli
atti culturali, "grammaticalmente isolabili": ideale estetico,
programma e modi operativi. Orbene la definizione di poetica del
Binni abbraccia ora i piani della coscienza che stanno in
superficie: i piani della "consapevolezza critica"; e abbraccia i
piani della storia corrispondenti: quelli morfologicamente
contigui al valore. A parte i riferenti di subconscio ed
inconscio, l'immagine ci pare efficace, anche perché
consente di arguire uno sviluppo e un approfondimento della
nozione e del metodo, o, in altri termini, non lascia supporre
nel progresso superamenti o revisioni e smentite più o
meno estese, centrali o marginali. Ci pare che la situazione sia
proprio questa: il Binni ora vede il lavoro e la materia in una
prospettiva, e avanza in questa prospettiva; naturalmente quello
che tace o non rileva costituisce un limite obiettivo del suo
lavoro; ma quello che dice e pone in evidenza non è
astratto o irrelato: afferma, già nel porsi, parti e
strutture lasciate in ombra: come particolare struttura o membro
vivente, afferma in sé l'organismo che non si vede. Il
progresso del metodo e del lavoro del Binni sarà
soprattutto un collocare nella luce ciò che era nascosto,
sotterraneo, un fare esplicito l'implicito, appunto un
approfondire e uno sviluppare: che è praticamente
incominciare e crescere nella "consapevolezza critica" o generare
e maturare nella critica la coscienza di se stessa. Ora il limite
contingente quanto naturale del lavoro che si fa discorso
consiste soprattutto nel non vedere e quindi nel tacere e nel non
realizzare alcune possibilità che appartengono al metodo
essenzialmente, nel non distendere tutte le strutture del lavoro.
Ma la situazione contraria sarebbe speciosa: la critica è
ricerca che si fa giudizio e coscienza, se si vuole è modo
di progredire nella conoscenza, "metodo", appunto: non è
mai certezza totale, si oppone per natura all'immobilità
del teorema filosofico e al dogmatismo. Tutta la storia della
critica italiana dopo Croce può anche essere intesa come
una storia di reazioni ed opposizioni alla fissità del
sistema, che si oppone, senza tuttavia poterla negare, alla
critica come continuo conoscere, e fonda la critica come
teoresi, la quale si compie sostanzialmente e in modo
definitivo nel giudizio di valore, cui seguono, ma non
necessariamente, i momenti e i modi pedagogici della
descrizione e spiegazione. Il Binni stesso asserisce che in quel
suo primo volume si trovano le premesse del suo "successivo
svolgimento"; noi prendiamo il discorso come ci pare che il Binni
lo pensi nel pronunciarlo: alla lettera. Conosciamo lo sviluppo
della nozione di poetica e dello studio, e ci pare che sia
contenuto come possibilità nella prima enunciazione
dell'una e nel primo aspetto o modo dell'altro.
In una pagina della dichiarazione metodologica più recente
- che è anche la più costruita e l'unica fatta dal
Binni al di fuori delle occasioni del lavoro e quindi non
è momento chiarificatore e organizzatore di una ricerca,
ma ripensamento di tutto il lavoro e del metodo - leggiamo una
definizione rielaborata, per la quale la poetica si presenta come
il "connettivo" che "raccoglie e commuta in coscienza,
volontà e direzione artistica, la complessa vita
personale-storica dei poeti e le spinte tensive vitali e
culturali delle varie epoche letterarie". Anche la parola
"dichiarazione" va presa alla lettera: nelle pagine è un
continuo chiarire le strutture e i risultati del lavoro,
così che anche il discorso definitorio continuamente varia
e si arricchisce, mettendo a fuoco ora un aspetto o momento ora
un altro. Insomma nella "dichiarazione" la nozione e il metodo
sono guardati e interpretati da più punti prospettici: e
accanto alle proposizioni definitorie sopra riportate ne potremmo
mettere molte altre, lette in altre pagine dello scritto. Ma per
ora ci basta la citazione fatta: rechiamo le proposizioni di
questa in raffronto con quelle della prima definizione per
fermare un'idea, sia pure approssimativa, del senso e delle
misure assunte dallo "svolgimento". Si è compiuta una
penetrazione della materia, tutte le dimensioni su cui opera la
ricerca sono ingrandite, è ampliato lo spazio di questa e
della conoscenza, è cresciuto e si è addensato lo
spessore della storia connesso da un "vivo rapporto" con la
poesia; insomma, lo schema dell'attività è
più ampio e articolato: ma alcune sue linee continuano lo
schema del primo lavoro, e le altre, quelle nuove, partono da
punti compresi in questo schema. Il movimento dello studio, e del
discorso metodologico che man mano lo riflette, dalle dimensioni
culturali e storico-letterarie a quelle storico-sociali, il
distendersi del metodo ad esplorare una materia sempre più
vasta e più ricca comportano naturalmente innovazioni e
correzioni: di fatto il primo schema ne ha subito. Ma ogni
correzione e innovazione è maturata e si è
determinata proprio come un aspetto dello sviluppo metodico: in
prospettive più ampie alcuni luoghi e punti di riferimento
rientrano in ombra, altri emergono e adunano e organizzano la
ricerca, gli stessi problemi si presentano sotto nuovi aspetti.
Quel che si vuol dire è che la correzione o l'innovazione
si compie sempre per una naturale crescita del metodo nelle
strutture e nelle possibilità operative, parallela al
crescere dell'esperienza - come materia, come conosciuto e
specialmente come forma, come conoscere - e parallela al crescere
della consapevolezza critica: il metodo ha uno sviluppo e una
storia, e presenta anche qualche aggiustamento e correzione
opportuna, ma le istanze e le ragioni che l'hanno fondato non
ricevono smentite, anzi si approfondiscono e si accertano in una
organizzazione sempre più robusta e articolata del lavoro.
A nostro parere il primo volume contiene "in nuce" lo studio di
poetica del Binni: non nella forma di un discorso sull'essenziale
o di un "progetto" dell'essenziale - non leggiamo infatti le
pagine della ricerca storico-letteraria come applicazioni
esemplari, intenzionate o meno, dei postulati teorici e
delle enunciazioni metodologiche -, ma in concreto, come momento
storico, come atto iniziale e fondazione. La ricerca è "in
nuce" non nella sfera riflessa delle sintesi o delle proposte, ma
nella realtà, che è rappresentata dal tessuto e
dalle strutture embrionali di quel primo studio: nella concreta e
parziale forma assunta per prima, nell'aspetto primamente
prodotto, è sostanzialmente contemplata per intero.
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Una lettera a Eugenio Montale (5 giugno 1972)
Il 5 giugno 1972 Walter Binni scrive a Montale una lettera con cui lo ringrazia per la copia con dedica del Diario del '71 inviatogli dal poeta a Natale del 1971.
Lido di Camaiore, 5 giugno 1972
Caro Montale,
come scusarmi dell'enorme ritardo con cui ti ringrazio dell'invio di Diario del '71 e della dedica affettuosa, graditissima?
Il fatto è che le cose più care si rimandano tanto più a lungo delle faccende che non impegnano affetto e attenzione. E il tuo ultimo volume l'ho letto e riletto tante sono le implicazioni, tanti i suggerimenti che comporta in un ammiratore schietto e disinteressato (e cioè dunque "interessatissimo"!) della tua poesia, che è al centro, sempre, della mia riflessione sulla poesia contemporanea e sulla poesia tout court (insieme, lo sai, a quella di Leopardi, di Holderlin, di Vigny e di pochi altri maestri-compagni della mia vita modesta, ma inquieta: sì che potrei ripetere, scusandomi dell'avvicinamento, "mai fu gaio - né savio né celeste il mio saper".
Penso che nella nuova edizione, in lenta preparazione, del mio libretto Poetica, critica e storia letteraria utilizzerò molto il tuo Diario '71 sia per le pagine che in quella proposta metodologica dedicavo a te sia in generale per certe mie osservazioni sulla poesia e sui poeti (Il poeta, Positivo e Negativo, La mia musa, Lettera a Malvolio, Il dottor Schweitzer) e sull'intervento storico della poesia.
Insomma, il mio profondo interesse per la tua opera è sempre sollecitato da quanto pubblichi anche se le tue posizioni pratico-politiche (il tuo passaggio al gruppo senatoriale liberale) sembrano voler dar ragione (e certo, permetti, me ne dispiace) alle diagnosi del mio allievo Umberto Carpi, ma per me in un modo che va inteso in maniera tutta particolare, a suo modo intraducibile in "immediate" relazioni ed equazioni vita-poesia, ideologia-poesia.
Se non ti darò troppa noia, una volta che sia sicuro di trovarti al Senato, ti cercherò lì e ti verrò a fare qualche domanda anche su punti dolenti della posizione civile cui sopra accennavo: certo tu seguiti a rispondere con la tua poesia (e ciò è quello che più importa), ma sarò lieto se mi permetterai di essere con te - in un colloquio amichevole - anche un po' indiscreto e non illegittimamente interessato a qualche spiegazione tua; dato che non condivido l'opinione di un vecchio storico, Roberto Cessi, il quale a proposito del Foscolo e delle sue posizioni politiche affermava, senza ombra di dubbio: "xè un poeta; el pol dir, el pol far quel che vol, no m'interessa…"
Scusami per questa anticipazione di un interrogatorio (?) che - se ti infastidirà - potrà non aver luogo e prendilo per quel che è più veramente: prova di un interesse profondo di un tuo ammiratore, studioso ed amico.
Ancora grazie e saluti ed auguri affettuosi
dal tuo
Walter Binni
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"Professione reporter di Antonioni"
Articoli pubblicati nel numero 245, gennaio-febbraio 1977,
della rivista "Cinema Nuovo" diretta da Guido Aristarco, poi
raccolti nel volume Poetica e poesia (1999).
"Professione reporter di Antonioni"
L’autodistruzione sostanziale (pur nell’apparenza
della ricerca di una diversa vita) in cui culmina
l’"avventura" di Locke mi sembra ben interessante e attuale
e vivamente sollecitante anzitutto proprio in se stessa, in
quanto il viaggio verso la rinuncia dell’identità
precedente e verso la morte è condotto con maturi moduli e
ragioni interne della poetica di Antonioni nei suoi esiti ultimi,
in una maniera di poesia conoscitiva e problematica propria di
questo grande regista. Né poi, a ben guardare, e pur senza
isolatamente ipervalutarli, mancano nel viaggio di Locke acuti
segnali politici e sociali propri del nostro tempo,
espressivamente risolti, e agganci a problemi su cui il fılm
fa "riflettere" lo spettatore: i problemi propri del reporter e
del suo "documentare" che la società capitalistica vuole
neutro e a cui Locke si ribella, i problemi più fondi del
rapporto fra solitudine e diversi raccordi dell’individuo
con la società, voluti, non voluti, subiti, desiderati, i
problemi dei rivoluzionari in cerca di armi, i problemi
dell’Africa fra rivoluzione e tirannide, e i problemi di
una Spagna desolata.
Ma il fondo del mio interesse di pessimista rivoluzionario per
questo fılm, e in genere per la produzione di Antonioni -
tanto intellettuale quanto artisticamente sapiente fıno a
un’esasperata specificità - è proprio la
maniera lucida e, ripeto, valida artisticamente, con cui questo
intellettuale-regista fa vedere problemi propri dell’uomo
attuale in una negatività risoluta, premessa, a mio awiso,
di ogni vera possibilità di alternativa alla
società-realtà in cui orrendamente viviamo. Alla
fıne punterei decisamente sul "racconto del cieco" o meglio
monologo (dato il rapporto così distaccato che Locke ha
con la ragazza incontrata nel labirinto del palazzo di
Gaudì, raffıgurato nel suo gelido furore
fantastico-onirico), punta estrema delle dichiarazioni reticenti
del reporter nel suo viaggio-abbandono a un’altra vita, in
realtà diversifıcata da quella abbandonata proprio
dalla coscienza di questa parabola-apologo. Locke stesso è
il cieco che recupera la vista e perciò si "suicida", e il
suo è l’"occhio" aperto che vede la società e
la vita, in certo senso, l’"occhio" stesso
dell’intellettuale-regista che a sua volta fa recuperare la
vista allo spettatore.
E il suicidio del cieco, ora veggente, come il "suicidio" di
Locke entrato in una vicenda che non può non condurlo alla
morte, sono la sigla forte della insostenibilità
dell’esistenza in questa società, in cui
l’individuo che "vede" è costretto a desiderare di
perdere la sua identità e di rifiutare la vita. Allo
spettatore sta poi ricavare l’alternativa (essa stessa
problematica e non trionfalistica e sicura): o la morte o
l’abbietta rassegnazione. Ma la presa di coscienza, la
vista dell’occhio aperto (prima chiuso nelle illusioni
quotidiane e nella accettazione di falsi valori e del vitalismo
qualunquistico) è momento essenziale anche e soprattutto
per chi, solo a questo costo, può profılare la sua
protesta e la sua alternativa rivoluzionaria priva essa stessa di
ogni "ottimismo". A questo momento essenziale mi pare che porti
forte contributo (e con la forza moltiplicatrice e conoscitiva
dell’arte) anche l’"occhio" di Antonioni e del suo
ultimo fılm.
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"Orizzonti di gloria di Kubrick"
In me è nettissimo il ricordo (già prova della sua
consistenza e della sua forza espressiva) di Orizzonti di
gloria (o meglio Paths of glory, sentieri di gloria,
secondo il titolo originale) visto da me nel ‘58, in un
periodo in cui un uomo di sinistra poteva anche ipervalutare, per
la loro simile tematica, fılm come Ultima spiaggia di
Kramer (ma forte resta di questo il fınale, prima con i
cittadini in disciplinata fıla a ricevere la pillola mortale
e con gli ingenui canti dell’Esercito della salvezza, poi
con la città, deserta e mossa solo dalle foglie e dalle
carte sparse dal vento) o Non uccidere di Autant-Lara, tanto
inferiori per spessore ideologico e artistico. Ecco: il fılm
di Kubrick resiste proprio perché la sua ideologia era
più profonda, e risolta - al di là di qualche
eccesso oratorio dovuto alla stessa esacerbata passione civile
del giovane regista - con energia coerente a livello
espressivo.
Ne sono tuttora testimonianza evidente l’immagine ossessiva
del "formicaio", visto dalla trincea francese, i lividi colloqui
fra i due generali tra stucchi e mobili antichi in un vasto
salone gelido e aristocratico, o il conclusivo canto, innocente e
dolente, familiare e popolare della spaurita ragazzina tedesca
(esibita con lazzi volgari dal verboso organizzatore della
rappresentazione "offerta" ai soldati), che di per se stesso e
nella profonda umanizzazione che provoca nei soldati "proletari"
divenuti strumenti di massacro di se stessi e dei loro awersari
"compagni", è giudizio fermo, e risolto nel visivo e nel
sonoro, sull’infamia della guerra in generale e di
quell’orribile guerra in particolare.
Tale attacco antimilitarista e antibellicista non a caso ritorna,
pur nel successivo svolgimento della politica del regista, nel
caos-geometria delle battaglie settecentesche di Barry Lyndon
(con un’accusa alla guerra che "macina" i soldati che si
battono per gli interessi dei propri oppressori), ingiustamente
limitato, con l’accusa di calligrafısmo, da certi
settori della sinistra che, mentre giustifıcano i prodotti
più scadenti e basso-decadentistici purché
ammantati di falso trionfalismo "positivo", finiscono poi per non
capire prodotti di ben diverso valore e di ben diversa
profondità ideologica e problematica.
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Questo testo, inedito e pubblicato sul periodico umbro “Micropolis” nel numero di ottobre 2007, fu scritto da Binni nel dicembre del 1981, alla morte di Ferruccio Parri (8 dicembre). Nell'Archivio del Fondo Walter Binni sono conservate la scaletta con i punti da sviluppare, con il titolo “Un volto nobile fra tanti volti ignobili”, e la stesura del testo definitivo con un titolo modificato in “Un volto nobile fra tanti visi ignobili”. Un ulteriore intervento sul titolo è operato da Binni sul dattiloscritto della stesura: la parola “visi” è sbarrata e sostituita con “ceffi”.
Un volto nobile fra tanti ceffi ignobili
Ho conosciuto Parri nel 1938 a Milano (insegnavo a Pavia e da un paio di anni percorrevo l'Italia a diffondere le idee del ‘liberalsocialismo' soprattutto nella versione di Capitini e mia - il problema della libertà nel socialismo più socialmente radicale, non del socialismo nella libertà in senso socialdemocratico - e ad aggregare gruppi più vasti di antifascisti) e riportai da quell'incontro un'impressione indelebile di fermezza e coraggio nella semplicità e modestia, nell'ironia e autoironia dei modi nobilissimi e antiretorici e, a parte la sua storia precedente, sentii di aver conosciuto un uomo insolito e raro pur nella ricchezza di personalità diverse e ben notevoli nell'intellettualità militante antifascista. Poi quell'impressione si rafforzò quando - dopo le vicende della guerra e della lotta partigiana in cui Parri aveva preso il posto che doveva prendere - lo ritrovai nel '45 e con più lunga consuetudine alla Costituente (io non avevo aderito al Partito d'Azione ed ero entrato nel '43 nel Partito Socialista di cui ero deputato per l'Umbria) ed ebbi modo di apprezzare ancor più le qualità intellettuali e morali persino quando ad un violento attacco del separatista Finocchiaro Aprile rispose pacatamente e quasi sommessamente con un insolito tipo di eloquenza così antiretorico e spezzato; che tanto più mi colpì per la sua efficacia profonda, quando ne ascoltai a Lucca una commemorazione dell'eccidio nazista di Stazzema, impressionante per certe pause commosse, per certi improvvisi moti di sentimento profondo quasi in un incrinato e sommesso singhiozzo che mi faceva pensare al Kutuzov di Guerra e pace e dunque a una specie di capo e comandante così umano, così “antieroico”, così capace di far pensare e sentire senza travolgere con l'enfasi e la retorica. Né quei discorsi (come le conversazioni avute con lui specie in certe fasi della diaspora socialista, dopo la scissione del '47 e dopo la sua parentesi repubblicana, quando collaborammo in tentativi di formazioni politiche socialiste per una rifondazione della sinistra a cui Parri si era sempre più avvicinato) mancavano di rivelare le caratteristiche di un intellettuale non à la page, ma tanto più sostanzioso e rigoroso di tanti snob della sinistra di cui oggi si vede la vertiginosa perdita di tensione morale e ideale, ma tanto saldamente radicato in una cultura otto-primonovecentesca che trovava in De Sanctis una autorità intellettuale, intelligenza e cuore inseparabili per adoperare appunto parole desanctisiane, valida anche per il senso della storia e della letteratura di cui Parri si dimostrava cultore, ben orientato nei suoi giudizi e nelle sue domande a me, come professionista di critica letteraria, anche se la sua specializzazione era diventata sempre più l'economia e la politica. Ma anche proprio della politica egli dimostrava un senso tutt'altro che ingenuo e moralistico, ma certo impiantato in una salda e disillusa visione morale che rimandava ad un'altra politica ben diversa da quella puramente machiavellica, che veniva mostrando il suo pieno trionfo nella prassi del partito maggioritario con la sua bassa furberia, con i suoi intrighi, con la sua spregiudicatezza e corruzione che ha spesso contagiato anche i suoi avversari più risoluti.
Profondamente pessimista ed esperto dei vizi profondi del nostro paese e della sua classe dirigente, Parri opponeva la sua onestà, la sua instancabile caparbietà intransigente, estremamente consapevole della sua essenziale diversità.
Sicché quando - in occasione della incredibile elezione di Leone a Presidente della Repubblica - gli telefonai per sfogare la mia indignazione e gli dissi che solo un uomo come lui avrebbe dovuto essere il candidato dell'opposizione in sfida antitetica con il degno candidato della Democrazia cristiana, egli mi rispose “ma in che mondo vivi, in quale paese credi di essere?”.
Ripenso a quella risposta, ripenso a tanti suoi scritti, atti (la proposta di scioglimento del partito neofascista), a tanti colloqui e contatti anche per me personalmente importanti (quando pronunciai un discorso funebre per la morte dello studente Paolo Rossi, morto in seguito alle percosse dei fascisti e mi si scatenò contro un feroce attacco non solo dei fascisti, ma dei benpensanti di destra e di sinistra, mi ripagò di tutto un telegramma affettuoso e fermo di Parri), a tante telefonate fino a quando lo colpì l'arteriosclerosi, in cui il timbro leale ed amaro della sua voce mi portava ancora l'eco di una personalità così eccezionale, così diversa, così inquietante e sollecitante proprio nel suo pessimismo e nella sua ironia e autoironia (nell'ultima telefonata consapevole chiamò la sua eroica e amata compagna “la mia tiranna”) e tanto più mi indigno di fronte all'indifferenza generale (non parlo certo dei suoi veri amici ed estimatori: ma pochi rispetto ai suoi meriti altissimi) che ha accolto la notizia della sua penosa malattia, dei suo ricovero al Celio (addirittura, per colmo di amara ironia, mi si assicura, nella stanza che ospitò l'aguzzino nazista Kappler!), la sua morte (sommessamente onorata). Chi è Parri?
Ma poi mi dico che è giusto, che non c'era e non c'è posto, in un paese così degradato, per un uomo come Parri, che un volto nobile come il suo non può essere riconosciuto dove compaiono continuamente tanti visi ignobili quali sono quelli di tanti nostri reggitori democristiani agli occhi di un paese (e di un'opposizione) che hanno tollerato a lungo il viso risibile di un capo dello Stato che ballava la tarantella, che faceva le corna agli studenti che giustamente lo fischiavano, che coltivava l'amicizia dei Lefèvre, che parlava come un paglietta di infimo ordine e che tuttora tollera i visi dei sacrestani furbastri pseudo-scrittori di melensi libri di papi e di altre simili amenità, di mediocri corporativisti aspiranti pittori (cui non mancano gli elogi di intellettuali artisti dell'opposizione), di ministri che scrivono poesie o che si esibiscono in suonate al pianoforte (la cultura e l'arte sono finalmente al potere!), di politici che frequentano l'eletta compagnia dei Caltagirone, dei Sindona, dei nemici più neri della democrazia, e che sono dentro fino al collo in tutti gli scandali e in tutte le trame reazionarie. È giusto che un paese che tollera senza battere ciglio, quei visi, ignori o rimuova da sé il volto nobile di Parri, troppo acerbo rimprovero alla sua frivolezza e alla sua colpevole tolleranza in un tetro periodo in cui la stessa sinistra è attraversata dalla destra e persegue disegni abominevoli e assurdi di alleanze e compromessi con i nemici capitali della democrazia e della classe proletaria. Perché Parri non è un rivoluzionario, a parole, ma è la faccia onesta, severa, profondamente alternativa di un paese per tanti aspetti e per tante parti disonesto ed ignobile.
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Premessa al volume "Umbria", di autori vari, pubblicato dalla Regione Umbria, Uemme Editore, 1985
Stiamo preparando una nuova edizione ampliata del volume binniano "La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri", per la collana "Quaderni storici del Comune di Perugia". Tra i nuovi testi che saranno raccolti, questa "Premessa" di Walter Binni a un volume collettivo sull'Umbria, coordinato da Umberto Marini e pubblicato dalla Regione Umbria nel 1985. Risultano di particolare utilità per il momento che stiamo vivendo le considerazioni su un' "identità regionale" che "lungi dal risolversi in una semplice seppur ampliata prospettiva locale, contribuisca, con i propri caratteri, all'affermazione di una vasta e articolata prospettiva nazionale e mondiale che abbia per mèta, ideale e necessaria, una società umana e fraterna, rispettosa di realtà e ispirazioni diverse, pur tutte convergenti in una scelta di 'vera pace' e autentica promozione del bene comune di tutti gli uomini", sulla linea del capitiniano "potere dal basso".
Accolgo volentieri il cordiale invito a stendere una brevissima premessa a questo volume edito dalla Regione Umbria, invito rivolto a me, come perugino ed umbro profondamente legato alla mia città e alla mia regione (lo testimonia anche il mio recente volumetto La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri, pubblicato dalla stessa Regione), da parte del Presidente della Regione, Germano Marri e dall'ideatore e da alcuni realizzatori del libro, tra i quali soprattutto Raffele Rossi, vicesindaco di Perugia e Presidente dell'Istituto per la Storia dell'Umbria Contemporanea, mio vecchio amico e compagno nella lotta contro la dittatura e nel nuovo sviluppo della vita democratica a Perugia e in Umbria, prima della mia ormai lontana partenza per altre città e regioni.
Questa brevissima premessa non intende tanto entrare nel merito delle singole parti della vasta e complessa materia trattata nel volume, quanto sottolineare l'utilità e la funzione che può avere questa iniziativa divulgativo-didattica destinata e rivolta ai giovani e giovanissimi che frequentano le varie scuole dell'Umbria, come strumento di avvio alla conoscenza della loro regione, come stimolo all'interesse per i vari aspetti della sua realtà, della sua storia, cultura e arte, della sua conformazione geografica, economica, delle sue tradizioni profonde e varie, dei suoi problemi attuali. E quindi non solo avvio alla conoscenza della regione, ma ad una presa di coscienza dell'appartenenza ad essa, in funzione di una partecipazione attiva al suo sviluppo e alla sua civiltà, di cui certo l'istituzione della Regione nel 1970 e la politica amministrativa e culturale delle giunte regionali che si sono susseguite fino a quella attuale, hanno costituito un rafforzamento della sua generale e articolata consistenza, favorendo una più dinamica armonizzazione della peculiarità delle varie zone che costituiscono l'Umbria, senza con ciò livellarne le irripetibili caratteristiche.
Spetta dunque ai giovani umbri ricavare da questa iniziativa non solo una spinta ad approfondire ulteriormente, secondo i personali livelli culturali, la conoscenza e l'interpretazione dei caratteri della propria terra, ma, ripeto, tradurre conoscenza in coscienza della propria identità regionale, sì che questa, lungi dal risolversi in una semplice seppur ampliata prospettiva locale, contribuisca, con i propri caratteri, all'affermazione di una vasta e articolata prospettiva nazionale e mondiale che abbia per mèta, ideale e necessaria, una società umana e fraterna, rispettosa di realtà e ispirazioni diverse, pur tutte convergenti in una scelta di "vera pace" e autentica promozione del bene comune di tutti gli uomini, opposta ad ogni ingiustizia e sopraffazione; proprio quel "potere dal basso" e "di tutti" e quella pace di cui tanto originalmente parlò, e per cui tanto attivamente operò, con inspirazione così inconfondibilmente umbra, la più complessa e alta personalità umbra di questo secolo, Aldo Capitini, riprendendo tra le sue più congeniali sollecitazioni profonde la prospettiva di Francesco d'Assisi e quella del supremo appello leopardiano della Ginestra, sempre più valido per gli uomini di un tempo posto di fronte ad una scelta decisiva fra uno scontro catastrofico e una totale collaborazione fraterna:
"… Tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor…"
Walter Binni
Roma 1 marzo 1985
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Roma, 23 gennaio 1990. Il funerale di Giorgio Caproni
"Italia ingrata dimentichi i tuoi poeti"
Articolo non firmato, "l'Unità", 24 gennaio 1990, sul funerale di Giorgio Caproni.
ROMA. I poeti, si sa, non amano i "potenti", e questi ultimi li ripagano della stessa moneta. Ieri a Roma, ai funerali di Giorgio Caproni, uno fra i più grandi poeti italiani non era presente neppure il più modesto fra i rappresentanti del governo e dell'Italia per così dire "ufficiali". Caproni non se non se ne sarebbe avuto a male: schivo e solitario in vita, anche in morte è rimasto coerente al suo stile scabro e austero. Ma l'assenza totale di "potenti", solleciti invece ad ogni benché minima apparizione spettacolare, è in sé medesima assai eloquente.
Nella chiesa di Santa Maria Madre della Provvidenza, a Roma, ove Caproni abitava da moltissimi anni, accanto ai figli Silvana e Mauro, c'era solo un gruppo di amici, estimatori, ex scolari del maestro elementare, quale il poeta era restato fino a tutti gli anni Cinquanta. Tra gli altri Walter Binni, Guglielmo Petroni, i poeti Elio Filippo Accrocca, Rossana Ombres, Bianca Maria Frabotta, Valerio Magrelli. Un breve rito funebre è stato officiato da un sacerdote, lontano parente del defunto, che ha voluto ricordare come Caproni fosse dotato di una grande cultura religiosa e spesso amasse discutere anche delle prediche che ascoltava.
L'assenza di esponenti ufficiali del governo e delle istituzioni è stata duramente stigmatizzata sia da Petroni, presidente del sindacato scrittori ("Se la cultura non fa anche spettacolo viene emarginata"), sia dal professor Walter Binni. Quest'ultimo ha commentato che "il fatto non è certo unico ma clamorosissimo" ed "è solo una conferma che chi lavora seriamente per l'arte e la cultura viene escluso dal cerchio".
Andrea Barbato: "Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti."
"Cartolina" di Andrea Barbato, trasmessa da RAI 3, 24 gennaio 1990, ore 20,25. Il testo della "cartolina" è stato inviato da Barbato a Walter Binni l'8 aprile 1991 con un biglietto di accompagnamento: "Gentile professor Binni, Le invio il testo di quella remota 'cartolina' che trasmisi in omaggio a Caproni (e un po' di sdegno al Potere). La ringrazio per la Sua attenzione. Con molta stima, Andrea Barbato". La cartolina era indirizzata al sacerdote che aveva officiato il rito funebre.
Caro don China,
ieri, nella sua parrocchia romana del quartiere Montesacro, Santa Maria madre della Provvidenza, ci sono stati i funerali di un poeta, Giorgio Caproni. Era un grande poeta, fra i maggiori del Novecento italiano. Così grande, che lei, don Pietro, ha pensato e temuto per un po' che la sua chiesa fosse troppo piccola per accogliere l'omaggio della prevedibile folla. Intorno alla bara di Caproni, c'erano Binni e Petroni, Accrocca e Ombres, Frabotta e Magrelli. Poeti e letterati come lui. C'era il sindaco di Roma Signorello. C'erano i familiari, naturalmente, qualche amico, qualche ex scolaro. Già, perché Caproni è sempre stato un maestro elementare, oltre che un poeta. Solo poche file di banchi si sono riempite, la parrocchia della Provvidenza è rimasta quasi vuota. Caproni aveva un carattere schivo, viveva appartato, e non si sarebbe rammaricato di quella solitudine. Un rito rapido, un amaro commento del professor Walter Binni sulle assenze del mondo ufficiale, poi tutto è finito.
O meglio, tutto comincia ora. Perché un poeta vero - e Caproni lo era - malgrado le assenze oltraggiose, sopravvive. Il fatto che quella chiesa di Montesacro fosse semivuota è solo una minuscola notizia, in una giornata affollata di fatti, di votazioni, di polemiche, di riunioni politiche. La cronaca rimane indifferente.
Eppure, l'assenza di tutti è scandalosa. Dovrebbe far riflettere sul groviglio, sulla confusione di valori che abbiamo creato intorno a noi. Se non c'è lo spettacolo, ha detto Binni, si viene emarginati. La cultura seria non ha cittadinanza, non ha nemmeno onoranze funebri. Non si sa riconoscere neppure dopo la morte chi ha veramente onorato la sua terra. "La poesia di Caproni ha dato un senso alla nostra vita", aveva scritto Geno Pampaloni. Giusto: ma chi se ne è reso conto? Che l'Italia sia immemore e ingrata con i suoi poeti, lo studiamo nelle storie del liceo. Ed è anche vero che "carmina non dant panem" e che "chi vive di penna vive di pena". Certo, per un poeta appassionato, ironico, raziocinante come Caproni, è già stato difficile vivere. Ma, a quanto pare, è anche difficile morire.
Ho sotto gli occhi la cerimonia del funerale di Mariano Rumor. Lo stato italiano, praticamente al completo, era inginocchiato nel duomo di Vicenza. Corone, stendardi, corazzieri in alta uniforme. Il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il presidente del Senato, quasi tutti i ministri, le massime autorità dello Stato. Un omaggio funebre certamente dovuto all'uomo che è stato per cinque volte alla guida di un governo. Ma quelle solennissime immagini della diretta televisiva da Vicenza, facevano pensare ancor di più, con un'associazione forse impropria, alla sua chiesetta vuota di Montesacro, don Pietro. La morte, lo sapevamo, non è uguale per tutti.
Possibile, insomma, che non si sia trovato un sottosegretario, un viceprefetto, un funzionario della Camera o del Senato, che rappresentasse lo Stato nell'addio funebre a Giorgio Caproni? Eppure, i versi di questo poeta livornese saranno ancora letti, amati, studiati, stampati, quando il potere attuale sarà ridotto in polvere, e dimenticati gli uomini che lo detengono. Possibile che, al di fuori di quella pattuglia di amici e poeti, la grande schiera degli intellettuali italiani, quelli che si affollano a discutere sul nome del Pci ma anche sulla lana caprina, la gente delle giurie e dei premi, la mondanità culturale dei salotti e dei ninfei… possibile che nessuno abbia sentito l'obbligo di salutare Giorgio Caproni? Davvero conta solo il potere, la macchina spettacolare della politica, il modello del successo?
Era già accaduto. Ricordiamo, come unico esempio fra tanti, lo scandalo di quel funerale dell'87 a Montecarlo di Lucca, quando dietro al feretro di Carlo Cassola (che aveva arricchito con i suoi scritti editori e produttori cinematografici), c'era solo Mario Capanna. Caproni ha vissuto una vita senza potere, senza aneddoti. Aveva suonato il violino, fatto la Resistenza in Val Trebbia, insegnato ai bambini delle elementari. La sua poesia è stata definita un controcanto ironico, una straordinaria prova stilistica, la testimonianza di un laico appassionato. L'estate scorsa era venuto qui in uno studio della Rai, a ricordare il ventennio della Luna, che gli aveva ispirato dei versi. Certamente, non avrebbe voluto alcuna cerimonia solenne: ma la vergogna dello Stato assente non è meno bruciante per questo. "Sono giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento", scriveva Caproni. Chissà se un giorno vivremo in una società che non si vergogni dei suoi rari poeti. Un saluto da Andrea Barbato.
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Una dedica di Pietro Ingrao (1994)
Dedica del volume di versi L'alta febbre del fare,
Mondadori, Milano, pubblicato da Pietro Ingrao nel 1994.
Caro Walter,
"La poetica del decadentismo" italiano è stato uno dei
libri che mi ha aiutato ad avvicinarmi alla poesia del Novecento.
E poi i tuoi studi, la tua ricerca, le cose bellissime che hai
scritto su Leopardi, a tutti noi carissime. E' con questi ricordi
e con l'antica, grande stima e amicizia che ti mando questo mio
libretto. Mi piace che tu lo legga ... Un abbraccio, Ingrao.
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Da una lettera di Norberto Bobbio (31 ottobre 1994)
Questa lettera di Norberto Bobbio, che riproduciamo parzialmente per vincoli di copyright, è in risposta ad una delle molte lettere che Binni, negli ultimi anni della propria vita, angosciato e indignato per l'involuzione politica italiana, inviò ad amici e compagni di una lunga esperienza intellettuale e civile.
Torino, 31.10.94
Caro Binni,
sono tornati, ne sono convinto anch'io, e saranno applauditi. Non so se hai letto su "Il secolo d'Italia" un articolo contro "gli inverecondi ruderi che ammorbano il bel pensiero dell'italica saggezza", "i gerontocrati che sputacchiano sentenze", e poi una frase volgare che non scrivo per non sporcarmi.
Li abbiamo lasciati crescere, anche per i nostri errori, per la nostra impotenza di fronte al malgoverno di ieri.
Anni tristi, questi ultimi, anche per me, gli ultimi. Diceva Croce: "continuare a fare il proprio lavoro, come se vivessimo in un mondo civile". Come se…
Ma è difficile, almeno per me. Il corso della vecchiaia è sempre più rapido.
(…)
Affettuosamente,
Norberto Bobbio
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Carteggio Walter Binni - Sebastiano Timpanaro
Maria Augusta Timpanaro, vedova di Sebastiano Timpanaro, sta ricomponendo l'archivio epistolare dello studioso, depositato - insieme alla biblioteca - presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Alla dr.ssa Timpanaro abbiamo consegnato copia delle lettere inviate da Timpanaro a Binni tra il 1963 e il 1995. Riproduciamo in parte, per vincoli di copyright, l'ultima lettera di Timpanaro.
Da una lettera di Sebastiano Timpanaro (3 marzo 1995)
Carissimo Binni,
ho ricevuto e letto d'un fiato le tue Lezioni leopardiane. Non esiterei a dire che questo è il punto più alto da te raggiunto come studioso e "seguace" del Leopardi; ed è il tuo libro leopardiano al quale io mi sento più vicino.
Riceverai tra poco (o forse avrai già ricevuto) un mio ultimo libro ottocentesco, edito dal solito Nistri-Lischi. Dalla prefazione - e non solo da essa, se avrai voglia di scorrere tutto questo volumetto, uscito in ritardo (avevo consegnato tutto il materiale nel 1992, poi ho potuto fare solo alcune aggiunte e modifiche sulle bozze) - vedrai che il mio debito verso di te per Leopardi e per tutta l'amara e tuttavia non "rassegnata" visione della realtà che ci accomuna, è ancora una volta riaffermato. Ma quella prefazione la scrissi nella primavera scorsa, quando il "punto di approdo" dei tuoi studi leopardiani era La protesta di Leopardi. Se avessi potuto leggere prima queste tue lezioni, avrei dichiarato con gioia che alcuni punti di dissenso - sulla mia "sopravvalutazione" del Giordani, sulla contrapposizione globale tra classicisti e romantici - non compaiono in queste tue Lezioni, o compaiono in forma molto attenuata. Per questo dicevo che le Lezioni sono il tuo libro leopardiano al quale mi sento più vicino, e per questo mi dispiace molto di non averle ancora lette quando scrissi quella prefazione. Ero, senza saperlo, più vicino a te quando tenesti quei corsi universitari che più tardi, al tempo della Protesta di Leopardi! Ma, a parte ciò, quante osservazioni nuove per i lettori di oggi (che poi avrai dovuto in parte omettere per esigenze di spazio) vi sono in queste tue pagine degli anni Sessanta! (…)
A te auguro ogni bene, e così pure alla Signora. Il tuo
Sebastiano Timpanaro
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"Questa lotta tra vecchio e nuovo" (1997)
Intervista di Eugenio Manca per "L’Unità"
del 2 febbraio 1997. Il testo è stato quindi raccolto nel
volume Poetica e poesia (1999).
E' allarmato lo sguardo di Walter Binni sul panorama che ci sta
intorno. Definisce intollerabile il clima di "ottuso
revisionismo" dentro cui scompaiono differenze storiche,
responsabilità morali, riferimenti ideali. Italianista fra
i nostri maggiori, elaboratore di un metodo storico-critico che
ha profondamente innovato gli studi sulla nostra letteratura,
membro dell’Assemblea Costituente, affıda a questa
intervista le sue amare "impressioni di fine secolo".
In conclusione domando: professore, ma esiste un criterio
oggettivo che ci aiuti a riconoscere ciò che è
"nuovo" da ciò che non lo è? Risponde: "Mi
orienterei così: è nuovo ciò che contiene
elementi di promozione della vita sociale, civile, culturale di
un paese; è vecchio ciò che quella vita ostacola e
fa regredire. L’anagrafe da sola non basta. Un valore
innovatore può avere molti secoli, e la conservazione
può vestirsi di falsa modernità". E poi cita lo
Zibaldone, il passo in cui Leopardi rammenta come "a un
gran fautore della monarchia assoluta che diceva la Costituzione
d’Inghilterra è cosa vecchia e adattata ad altri
tempi e bisognerebbe rimodernarla, rispose uno degli astanti:
"è più vecchia la tirannia"".
Indigesto, pericoloso, intollerabile appare a Walter Binni -
italianista insigne, deputato alla Costituente, accademico dei
Lincei e maestro di maestri - l’equivoco, che oggi teme
dilagante, in forza del quale ciò che si presenta come
inedito rechi in sé il segno dell’innovazione
positiva, mentre ciò che viene dal passato sia
irrimediabilmente regressivo: "Se così fosse - nota -
dovremmo mettere in dubbio molti dei valori che hanno mosso il
cammino dell’umanità. Hitler era considerato nuovo,
e vecchi i suoi non molti awersari; in Italia i principî
dell’89 erano giudicati vecchiume in periodo fascista; e
mentre ancor oggi alcuni fondamenti della Magna Charta inglese
sono da ritenersi nuovi, non potrebbe davvero considerarsi
moderno chi volesse distruggerli. È un equivoco che mi
riempie di sdegno, e temo che ad alimentarlo sia quel clima di
ottuso revisionismo storico che tende ad annebbiare differenze e
distinzioni, e induce persone insospettabili, anche
nell’ambito della sinistra, ad equiparazioni assurde".
Binni non è uomo di nostalgie: di rotture, invece, di
scoperte e di forti innovazioni. La sua nozione di "poetica", che
s’è venuta articolando fin dal 1936 sulla base di un
metodo storico-critico antitetico a quello di Croce, ha
illuminato di luce nuovissima gli studi sull’intera
letteratura italiana, da Dante a Leopardi. Né meno moderno
e franco di pregiudizi è stato il suo itinerario civile di
formazione liberalsocialista, la cospirazione antifascista in
quella sua Perugia "dalla bellezza solenne e invernale", la
Resistenza, la Costituente, il sodalizio col rivoluzionario
nonviolento Capitini, la vivida presenza nelle battaglie
culturali prima tra le file dei socialisti, poi - dal ‘68 -
in posizione autonoma ma non isolata. E dunque gratuita e
offensiva suona alle orecchie di questo precursore
ottantaquattrenne l’accusa di conservatorismo che sembra
riservata a chi oggi è dubbioso o dissenziente.
Ma, professore, non è forse legittimo obiettare che
sempre le generazioni più adulte hanno guardato attraverso
un velo di scetticismo se non proprio di sospetto al cosiddetto
"nuovo avanzante", specie quando esso si poneva in posizione
polemica nei confronti del "vecchio persistente"?
Non so quanto sia vero. Al tempo dei miei vent’anni tutto
ci passava per la testa tranne una contrapposizione fondata sul
semplice dato anagrafico. Ma andiamo al merito: che il nuovo sia
rappresentato da questa nebbia in cui sbiadiscono i valori della
democrazia, si attenuano ie differenze fra destra e sinistra,
tutte uguali sono reputate le ragioni dei vivi e perfino quelle
dei morti - tanto quelli che caddero per la libertà e
l’indipendenza quanto quelli che perirono nel tentativo di
ripristinare dittatura e nazismo-, ebbene che questo sia il nuovo
io proprio non lo credo. Che sia nuovo il modello liberista,
nuove le teorie del mercato, nuova una parola come "privato",
nuovo lo scambio tra i concetti di "garanzia" e di
"opportunità" in un progetto di revisione dello stato
sociale, nuova un’ipotesi di affidamento presidenzialista,
neppure questo sono disposto a credere. Li vedo piuttosto come
pessimi segnali di involuzione, spie di un clima volto alla
ricerca di "normalità" e "serenità" da cui vengano
espunti non solo le ideologie ma anche gli ideali, cancellate le
differenze, offuscate le responsabilità storiche, avallate
tendenze culturali regressive. Lasciamo stare Popper, che
ciascuno tira di qua o di là, ma dawero si può
considerare nuovo il pensiero di Heidegger o di Nietzsche?
Non negherà che ogni transizione sia difficile.
Studioso delle epoche di transizione e partecipe lei stesso di un
drammatico passaggio della storia italiana, vorrà
ammettere che il compito è immane...
Ne vedo tutte le diffıcoltà ma non posso
nascondere la mia contrarietà al diffondersi di un clima
denso di equivoci. Al sindaco di Reggio Emilia, che invitava
anche me, coi pochi altri costituenti soprawissuti, alle
celebrazioni per il Tricolore, ho scritto confermando il
significato rivoluzionario, giacobino che per me assume il
Tricolore, e il suo stretto legame con i valori della Resistenza
antifascista. Il sacrifıcio umano merita rispetto, ma
l’equiparazione dei fronti e perfino l’invito alla
venerazione dei morti per qualunque causa schierati, questo mi
pare inaccettabile. È questo clima, in fondo, che rende
possibili episodi come quello che ha per vittima Sofri. Né
per lui né per "Lotta Continua" ho mai nutrito grande
entusiasmo, e l’approdo di quasi tutto quel gruppo a
posizioni prestigiose legate al potere me ne offre conferma. E
tuttavia sento come una grave, dolorosa mancanza di giustizia il
fatto che da un lato venga comminata una condanna assoluta e
definitiva 25 anni dopo e sulla base delle parole di un teste
palesemente inattendibile; e dall’altro che un uomo come
Licio Gelli se ne stia tranquillo nella sua villa e, se
arrestato, venga rilasciato pochi minuti dopo e con tante
scuse.
Lei insiste sul clima. Le pare davvero così
infausto?
È un clima che sembra propiziare fenomeni
preoccupanti: una sentenza aberrante che raccoglie il plauso
dell’estrema destra; l’insistenza, in verità
ben poco contrastata dal Pds, su forme più o meno spinte
di presidenzialismo che molti temono foriere di rischi
autoritari; i tentativi di smantellamento di "mani pulite",
l’attacco ai giudici; il riproporsi degli appetiti privati
sul sistema scolastico, laddove la Costituzione prevede sì
la piena libertà della scuola privata, ma "senza oneri per
lo Stato"
.
Che cosa pensa della possibile revisione del testo
costituzionale?
Penso che la prima parte, contenente i principi fondamentali,
vada considerata intangibile. So bene che per Cossiga e altri,
tutta la Costituzione sarebbe da rivedere, mentre la "Bicamerale"
non potrà che limitarsi a intervenire solo sulla seconda
parte. Mi attendo che le forze democratiche si mostrino ferme e
unite nella difesa di quei caratteri di libertà, giustizia
sociale, laicità, che a suo tempo si vollero a fondamento
della repubblica.
Non coglie anche lei, professore, la rilevanza, la
novità della presenza di una grande forza di sinistra alla
guida del Paese?
La colgo interamente ma temo che tale prospettiva venga messa in
forse dalle concessioni che vedo profilarsi su vari terreni: la
giustizia, la scuola, lo stato sociale, il presidenzialismo.
Sarò franco: considero pericolosissimo oltre che illusorio
pensare di poter procedere, insieme con minoranze composte di ex
fascisti e di uomini che sono espressione di un partito-azienda,
ad un raddrizzamento della situazione italiana. Pensare di poter
operare una trasformazione - o come un tempo si diceva con troppo
orgoglio "cambiare il mondo" - con interlocutori di questo genere
non mi pare possibile.
E tuttavia in passuto lei stesso fu testimone di un grande
sforzo unitario ad opera di gruppi e partiti di ispirazione la
più diversua...
Non vorrà confondere il clima che si respirava
cinquant’anni fa con quello dei giorni nostri ... Una
tensione, una speranza fortissima animavano allora non solo gli
uomini di sinistra ma i rappresentanti di ogni settore
dell’Assemblea Costituente, dalla quale l’estrema
destra era totalmente esclusa. Noi tutti avevamo
l’impressione di collaborare ad un’impresa
importante, e ciascuno vi partecipava portando le riflessioni
maturate nella propria e spesso drammatica esperienza di
combattente, di esule, di perseguitato. C’erano Parri,
Terracini, Gronchi, Calamandrei, Concetto Marchesi, c'era
Benedetto Croce ... Fu un anno e mezzo di eccezionale fervore.
Lei trova possibile un raffronto tra quel clima, quegli
obbiettivi, quello sforzo unitario, e ciò che accade oggi?
Si è salutata con entusiasmo la fine delle ideologie, e
certo i sistemi di pensiero rigidi e ossificati non meritano
alcun rimpianto. Ma non trova anche lei che una società
povera di valori forti, privata di punti di riferimento ideale,
sia come un corpo senza spina dorsale? Capisco, sono vecchio, e
forse vedo le cose con occhi troppo allarmati, ma aver consonanza
in questo giudizio con uomini come Bobbio e Garin non allevia la
pena.
Un altro severo osservatore della vicenda italiana, Mario
Luzi, muove agli intellettuali il rimprovero della renitenza,
quasi della diserzione civile di fronte all’incombere del
disastro...
E mi par vero. Per lungo tempo ci fu l’intellettuale
"impegnato", che non voleva necessariamente dire partiticamente
schierato ma impegnato a un livello più profondo,
più ambizioso. Oggi la parola impegno è diventata
dispregiativa e ciò è molto grave: l’impegno,
non certo in forma "zdanoviana", è importante: è
importante dare una prospettiva al proprio lavoro, sono
importanti l’impegno stilistico, la ricerca linguistica, la
sperimentazione, la creatività. Confesso che se guardo
alle nuove generazioni di scrittori, portatori di quella moda di
porcheriole che si definisce "letteratura trash" e li raffronto
alle generazioni precedenti, dei Gadda, dei Calvino, di Bilenchi,
di Pratolini, di Cassola, diTobino, dello stesso Pasolini, sono
dawero imbarazzato.
Professore, che cosa ci sulverà: la poesia, forse?
Io ho molti dubbi sulle virtù taumaturgiche della poesia,
la quale del resto non sfugge a quel clima di ambiguità ed
equivoco cui accennavo. Neppure il grande Leopardi è stato
risparmiato da una revisione in chiave nichilista e persino
reazionaria ad opera di Cioran e dei suoi seguaci italiani, in
opposizione alla interpretazione, che è mia da gran tempo,
di un Leopardi profondamente pessimista e perciò
violentemente protestatario e ansiosamente proteso verso una
nuova società fondata su di un assoluto rigore
intellettuale e morale e su di un "vero amore" per gli uomini
persuasi della propria miseria e caducità senza "stolte"
speranze ultraterrene. Comunque la poesia da sola non basta, essa
va innervata in ogni altra attività umana. Alla base
c’è la vita civile che deve essere intessuta di
democrazia. E c’è la scuola - la scuola pubblica,
laica, che non si alimenta di alcun credo già fatto,
strumento fondamentale di formazione delle nuove generazioni -
che va difesa strenuamente, sottratta a qualunque patteggiamento,
senza incertezze di antica o nuova origine.
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Perugia nella mia vita. Quasi un racconto (1997)
La prima stesura di questo profilo autobiografico, una sorta
di bilancio esistenziale, risale al 1982; Binni vi ritorna
più volte nel corso degli anni, con aggiunte e
cambiamenti, finché lo "chiude" nel 1997 a pochi mesi
dalla morte. Il testo è stato pubblicato nel 1998 a cura
degli eredi, e quindi raccolto nella nuova edizione 2001 di
La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri.
Quando qualche amico perugino che ancora mi rimane mi dice:
"Perché vai tante volte a Lucca e vieni così
raramente a Perugia?", rispondo: "Perché a Lucca ho ancora
una casa, la casa della mia compagna. A Perugia ho solo la tomba
dei miei. Finché sarò vivo mi servirà una
casa. Quando sarò morto, mi servirà una tomba". A
Lucca, dalla casa di Elena, vedo i rossi tetti della
città, le sue mura alberate, la curva idillica dei monti
pisani, il mareggiare petrificato delle Alpi Apuane. A Perugia
dal luogo della tomba in cui dormirò il mio sonno ("sonno
profondo e senza sogni", "via dagli affetti, via dalle memorie")
accanto a mia madre (a mio padre, ai miei nonni paterni; gli
altri miei antenati sono sepolti o in chiese di Perugia, Foligno,
Rimini, Bologna, Fermo, Arezzo e Camerino o in cimiteri di quelle
e altre città) accanto alla mia compagna, non potrò
più "vedere", dal sommo del colle del nostro cimitero, il
Subasio, Assisi, Monte Pecoraro, la valle del Tevere, che ancora
vedo, con passione implacata, le rare volte che vengo a Perugia e
mi reco a colloquiare (senza risposta, se non tutta immaginaria e
sentimentale) con mia madre, o, più a destra, nella parte
nuova del cimitero, con Aldo Capitini, mentre guardo dal luogo
della sua tomba San Domenico, con il suo bosco, San Pietro, lo
sprone del Muraglione, in cui mi si profila, a ricordo
appassionato, la figura elegante, il volto ansioso e proteso di
mia madre, che così spesso ci si recava solitaria e
pensosa.
Con quell’amaro scherzo mi libero dalla domanda affettuosa
dei rari e cari amici che ancora conservo a Perugia. Ma la
verità vera è che Perugia (che sogno spesso di
notte e spesso anche desto, ad occhi aperti) è ormai per
me, nei rari ritorni e malgrado l’incontro con i vecchi
amici rimastimi, una specie di discesa nel regno delle ombre, la
visita dolente e stupita di luoghi cari, e per sempre vuoti della
vita che amai, a cominciare dal vecchio Brufani in cui tutti i
miei amici Bottelli e Collins sono scomparsi e dove sopravvivono
solo i ricordi di una infanzia felice, quando ci venivo a giocare
con Giorgio Bottelli e con tanti altri bambini e ricevevo,
orgoglioso e affascinato, il bacio sorridente della bella Muriel
Collins.
Perugia è ormai occasione di un duro confronto fra la
vecchiaia che vivo, sorpreso, irato e mai rassegnato, e gli anni
lontani della mia infanzia, adolescenza, gioventù,
così gremite di vitalità e attività: dal
periodo in cui abitavo nella casa paterna e natale, in Via della
Cupa, sotto l’arco dei Mandolini nel palazzo omonimo (piena
di care persone, fra cui le tenere e troppo laboriose "donne di
servizio", piena di animali amati e rispettati da me come vere e
proprie persone: gli eleganti e snelli "pointers" da caccia, i
gatti d’angora come la deliziosa Chérie, il volpino
Fifino, geloso di me e spesso beccato da un vecchio pappagallo
che, iroso, gridava le sole parole apprese: "Guerra" e
"Caffè", la coppia fedele dei minuscoli bengalini a cui
mia madre affettuosamente paragonava certe giovani coppie di
innamorati o di "sposini") a quello in cui, più tardi,
vivevo con la mia giovane compagna lucchese – Elena, la
"luminosa", la "splendente" secondo l’etimologia del nome
greco: tale era allora, tale è rimasta e rimarrà
per me "fur ewig" "in eterno", cioè finché
avrò vita – e con i miei figli bambini in via
Lorenzo Spirito Gualtieri, fuori Porta S. Susanna, sopra la
Piaggia Colombata, protesa sulla vallata da Prepo fino a Monte
Malbe e Monte Morcino.
Qui non è cosa
ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé, ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato ancor tristo, e il dire: io fui,
mi ripeto con Leopardi, il poeta della mia vita. Appunto. Ormai
il vecchio "pessimista rivoluzionario", il "vecchio capriolo" che
(secondo le parole dell’amico Rigorni Stern nel suo ultimo
libro) "pascola lontano dal branco, con fare sospettoso e
irascibile", a Perugia si sente tanto più sottoposto al
triste paragone con il passato infantile e giovanile, tanto
più si sente sradicato che altrove, perché qui
avrebbe voluto stendere le sue radici, mentre oramai le affonda
solo nel ricordo e nell’impegno pertinace, ma più
stanco, negli affetti rari e forti che gli rimangono, nella
tenace volontà e proiezione utopica, e pur persuasa, di
una società e realtà diverse (non garantite da
nessuna legge meccanica o divina) e nei dolci-amarissimi ricordi,
nelle larve del passato "per sempre". E qui più si sente
nella situazione leopardiana dello scomparso o del presto
destinato a sparire: "ad altri il passar per la terra oggi
è sortito – e l’abitar questi odorati colli",
colli e terra che per me sono sempre quelli di Perugia e dei suoi
dintorni, paesaggi e luoghi cittadini e campestri, che sempre
scattano nella memoria, mai cancellati da altri paesaggi e luoghi
in cui la vicenda vitale mi ha portato a "passare" e vivere, a
bruciare la breve fiamma di materia che sente e passa.
*
Mentre scrivo queste brevi pagine nella mia casa romana, davanti
al giardino di Villa Torlonia, di colpo mi ritrovo nella mia casa
natale, nel nulla da cui qui a Perugia uscii tanti anni fa’
piccolo e ingenuo bambino, in una giornata di neve e di
tramontana, di prima mattina, caldo nel letto e protetto dalle
cure materne, ad ascoltare rapito la voce festosa di un
giornalaio, a me noto come eroico combattente nella grande guerra
da poco finita, che gridava: "Corriere dei piccoli, piccoli,
piccoli, brr: che freddo"; o mi ritrovo, ragazzo, a una finestra
aperta sul Monte Malbe e Monte Lacugnana accanto a mia madre (era
il 1929, l’anno del "nevone"), ambedue sorpresi e commossi
dalla vista inattesa del cielo divenuto improvvisamente tutto
sereno e della luna che illuminava la vallata e i tetti colmi di
neve, o mi ritrovo, pure in quell’anno, in un’aula
del Liceo, a leggere, sotto il banco, i romanzi di Svevo, gli
Indifferenti di Moravia o gli Ossi di seppia di
Montale, sottraendomi così alle noiosissime lezioni di un
vecchio e dotto professore di greco ma viceversa pronto ad
accendermi alla lettura che il preside, il toscano Chiavacci, ci
faceva a volte delle poesie di Michelstaedter ("il porto è
la furia del mare") o, adolescente, nella sala della Biblioteca
Augusta (allora era nel palazzo comunale) a leggere antiche
cronache perugine che alcuni vecchi inservienti mi portavano,
riluttanti e brontoloni ("sono libri difficili per la sua
età") e da cui traevo, oltre un esagerato orgoglio
campanilistico, un rinforzo al mio nascente anticlericalismo (la
rivolta antipapale del 1378, la guerra del sale contro Paolo III,
la difesa repubblicana contro i sanfedisti aretini del ‘99,
la trascinante narrazione del 20 giugno) sollecitato anche dai
ricordi materni delle gesta del nonno garibaldino alle battaglie
di Bezzecca, di Monte Rotondo e Mentana, o, già
venticinquenne e sposato, sul balcone della mia casa di via
Spirito Gualtieri, meditabondo e tristissimo per la morte
immatura di mia madre (che alle mie stolte giovanili parole,
affannate e impersuase, a lei morente: "Spera, abbi fiducia ... "
aveva opposto le sue estreme nude parole: "In che?")
improvvisamente sorpreso dal canto di due giovinette che
salivano, tenendosi per mano, gli ultimi gradini della Piaggia
Colombata, ritmando il passo sulla canzonetta di moda, stretto da
una inattesa attrazione della vitalità giovanile, che
intrecciandosi alle mie cupe meditazioni mi provocavano una
rabbia profonda contro me stesso e gli inganni della vita (pur
così autentici nella loro qualità di impegni e di
affetti profondi come quello per la mia giovane compagna che
attendeva il nostro primo figlio, nato sei giorni dopo la morte
di mia madre). O, più tardi, nei giorni dopo l’8
settembre del ‘43, con altri antifascisti in una sala del
comando della zona militare alle prese con un generale scettico e
pronto a passare al nemico nazista, nel vano tentativo di
organizzare una disperata e temeraria resistenza a Perugia contro
i tedeschi giunti a Città della Pieve (tentativo replicato
con una folla di popolani, uomini e donne, che invano richiedeva
armi davanti alla caserma di S. Agostino) o, ancora più
tardi, nella Piazza Matteotti, la vecchia piazza delle Erbe e
prima di Sopramuro, il primo maggio 1945, impegnato in un
comizio, illuminato dalle speranze di quegli anni
indimenticabili, speranze illusorie, ma allora ben persuase (mi
riferirono che un vecchio popolano socialista-massimalista diceva
di me "quello è uno che ce crede": non ebbi mai più
un omaggio così schietto e gradito). O infine sulla torre
della porta S. Angelo (c’era uno dei molti circoli
socialisti che io avevo contribuito a creare) alla fine del
‘48 (quando, finita la mia attività di deputato
all’Assemblea Costituente e vinto un concorso universitario
con cattedra a Genova, avrei lasciato Perugia il giorno
sucessivo) solo e meditabondo a contemplare la città e il
paesaggio scuro e montuoso fra Monte Ripido e Monte Tezio e a
dipanare i tanti ricordi dell’infanzia,
dell’adolescenza, della gioventù che con quella
partenza mi pareva già finita (avevo trentacinque anni) o
destinata ad esser ripresa tutta da capo in quella veste di
"professore" che mi sembrava troppo stretta per la varietà
intrecciata di impegni che avevo vissuto da Perugia, a Roma,
Firenze, Pisa, Pavia, Milano e altrove, ma sempre con la primaria
residenza e cittadinanza perugina. Ripensavo alle semplici,
schiette feste che proprio su quel torrione intorno alla rossa
bandiera con la falce, il martello e il libro si erano svolte con
compagne e compagni socialisti e comunisti, con i loro cari volti
a cominciare da quello soavissimo di Maria Schippa comunista a
quelli fraterni di Bruno e Maria Enei socialisti, i più
amati dalla mia compagna. E sentivo, fra attrazione e malinconia
nostalgica, che quella era la svolta decisiva della mia vita di
uomo maturo. La mia sorte mi portava altrove, non sarei
più tornato a vivere e a lavorare a Perugia.
Poi mi riscuoto da questo sogno, mi ritrovo nella mia abitazione
romana, e contemplo, fra stupore e fastidio, il mio ritratto di
giovane ardente e malinconico, dipinto da Andrea Scaramucci a
Perugia, nel ‘37, confrontandolo con il volto attuale,
profondamente segnato dalla vecchiaia e appena ancora
riconoscibile nelle pieghe della fronte caparbia, delle labbra
serrate e sottili, del mento volitivo e spavaldo, del grosso
naso, eredità non gradita del mio bisnonno paterno,
perugino, Giustiniano degli Azzi Vitelleschi, testimoniata
inequivocabilmente da uno sbiadito dagherrotipo di metà
Ottocento che conservo ad una parete di una stanza gremita di
oggetti provenienti dalla sua villa di Casaglia.
Egli era (come il bisnonno materno, Girolamo Barugi di Foligno e
lo stesso più amato nonno materno garibaldino Francesco
Agabiti di antica famiglia fermana e poi riminese-bolognese) un
aristocratico: solo il ramo di cui porto il cognome è di
origine borghese terriera, accomunata agli altri rami da un
tracollo economico tra la fine dell’Ottocento e il primo
Novecento, causato da una pari inadeguatezza alle regole della
civiltà industriale e capitalistica.
Così, disorganico alla classe borghese in cui mi ha posto
assai marginalmente la mia situazione sociale, sradicato dalla
vecchia classe giustamente battuta da cui sostanzialmente
provengo, scomodo, ma pertinace e volontario alleato della classe
proletaria (ormai in gran parte imborghesita e disgregata dal
consumismo e dallo sviluppo economico tardo-capitalistico in
gruppi sociali per ora mal definibili) e allontanatomi da tanto
tempo dalle formazioni partitiche socialiste in cui ho militato
sempre più con difficoltà e contrasti, ma non dalla
"sinistra", vivo e soffro la condizione di un intellettuale
assolutamente disorganico e sradicato, anche se ostinatamente
proteso ed attento ad ogni segno di cambiamento rispetto alla
società attuale in cui sono costretto a vivere. Ma,
ripeto, fra tante ragioni di sradicamento mi pesa molto quella di
essere ormai anche così realmente sradicato dalla
città in cui sono nato e cresciuto (e di cui ho quasi
dimenticato il dialetto, pronto però a vibrare se sento
– come mi accadde una volta in treno nei pressi di
Castiglion del Lago – una ragazza dire ad un’altra
"Gliel’è ditt ta lia?", lo hai detto a lei?) a cui
son pur legato da ragioni bioereditarie e, più, da ragioni
di congenialità e di formazione, la città cui devo
sostanzialmente l’etimo della mia personalità, dei
miei gusti, della mia prospettiva etico-politica, l’inizio
incancellabile della mia vicenda vitale, i primi incontri
essenziali con luoghi, storia, usanze, persone, profonde
amicizie, seppur debbo l’incontro essenziale della mia
compagna alla civile Toscana (durante gli studi universitari a
Pisa), di cui Perugia mi pare poi come una originalissima
continuazione e propaggine, sia per la comune origine etrusca,
sia per la sua storia medievale, quando Perugia era ancora
considerata città toscana come la qualifica il novelliere
trecentesco del Pecorone (del resto i Degli Azzi, il ramo
perugino della mia famiglia, divennero perugini solo nel
‘600 e più tardi si imparentarono con i Vitelleschi
e i Barugi di Foligno: prima vivevano dall’Alto Medioevo ad
Arezzo).
Così, per ragioni familiari e ambientali, devo tutto a
Perugia (o così mi piace pensare: il che è poi la
stessa cosa) per le origini e la formazione della mia
personalità e del mio carattere temerario ed impratico,
cui contribuirono anche le prime tenaci impressioni del suo
paesaggio, il retaggio dei suoi impeti protestatari e ribelli, la
sua lezione di essenzialità che scaturisce da ogni aspetto
della sua asciutta, petrosa natura che si rivela interamente e si
esalta soprattutto nell’inverno duro e dominato dalla
tramontana.
Qui si è svolta la mia infanzia felice e protetta, fra
timida e altera di figlio unico, fra i dubbi ultimi bagliori
della belle époque, segnata fin dal vestiario
femminile (rivedo nel giardinetto dei carabinieri mia madre, alta
ed elegante nel suo vestito, lungo fino ai piedi e protratto in
alto nel "coprigola" di satin, con il vasto cappello infiorato,
con il manicotto di pelliccia) e i segni della "grande guerra"
(lo zio materno, lo zio ufficiale in guerra, lo zio
"oppi-uno-due, no dui", il passo dei soldati, le mantelline
azzurre degli ufficiali di artiglieria e i colletti rossi dei
cacciatori delle Alpi, le uniformi grigio-verde con mostrine
rosso-bianche del reggimento cecoslovacco che si formava e
addestrava a Perugia, le notizie di mio padre dal fronte) e i
primi indizi puerili di aggressività, come quando, ad una
festa in maschera di bambini all’Hôtel Palace, mi
picchiai con un ragazzo più grande e più forte per
far coppia con una coetanea, dolce e bella, di nome Nerina, da
tempo scomparsa.
Qui si svolse la irrequieta adolescenza ("du traumerische,
ruhelose Jugend") quando collocavo i miei primi sogni di azione e
di poesia sui colli e sui luoghi della mia città e del suo
paesaggio (Dante nella selva tra S. Pietro e S. Domenico, Ariosto
sul colle di S. Marino, Leopardi fra l’idillio di Monte
Pecoraro e di Prepo e la severa bellezza di S. Bevignate, del
colle del cimitero o lo slancio rupestre di Monte Tezio) e mi
avvicinavo alla cultura fra il Liceo, le conferenze
dell’Università per Stranieri (dove la cultura si
personificava in modelli ammirati ed emulati nel desiderio
– ricordo ancora Borgese, che tanto allora ammiravo, mentre
contemplava fuori del Brufani la vallata umbra, pensoso e severo,
con le mani ai fianchi-) fino alla scoperta essenziale di
Capitini, nel suo studiolo nella cella campanaria del Municipio,
fra i suoi libri che accrescevano e disciplinavano le mie
precedenti letture disordinate e casuali (a lui soprattutto debbo
l’abbandono definitivo degli inganni nazionalistici e
corporativi del fascismo di "sinistra" e il decisivo passaggio
all’antifascismo militante) mentre insieme mi educavano qui
a Perugia la musica e il teatro, fra la Società degli
amici della musica e il Pavone e il Morlacchi, e il cinematografo
(fra il Turreno e il Minerva) mi forniva, in una frequentazione
quasi quotidiana (iniziata fin da bambino con mio nonno e con mia
madre) la sollecitazione dei drammi italiani con Francesca
Bertini, delle comiche con Ridolini, Max Linder, Fatty e Charlot,
dei films con l’ammiratissima Greta Garbo (il suo volto che
si sfa sotto le dure parole del vecchio marito tradito in
Maria Waleska ) e dell’espressionismo tedesco, fino
alla sconvolgente scoperta della Dietrich in Angelo
azzurro .
E qui a Perugia (nell’intreccio con le offerte di altre
città e paesaggi naturali e culturali: il ricco ambiente
culturale dell’Università di Pisa con la
frequentazione delle "Giubbe rosse" a Firenze, quello di
Heidelberg, di Pavia, di Milano, di Torino o di Bolzano, dove fui
ufficiale di artiglieria e per sei mesi insegnante di italiano e
storia prima di sposarmi e ritornare a Perugia
all’Università per Stranieri) sono iniziati i miei
impegni etico-politici nel gruppo di amici e compagni legati
all’esempio e alla lezione di Aldo Capitini, prima nel
gruppo liberalsocialista, intorno al ‘37, che il mio
giovanile attivismo contribuì (come ricorda Capitini nel
volume Antifascismo fra i giovani) a rendere appunto un
movimento attivo e da Perugia propagato in tutta Italia, poi, nel
‘43, nel ricostituito partito socialista che rappresentai,
per la circoscrizione Perugia-Terni-Rieti, all’Assemblea
Costituente.
Qui a Perugia (nelle vacanze estive, natalizie, pasquali, durante
l’Università a Pisa) ho ideato e iniziato i miei
primi libri critici (La poetica del decadentismo) e
soprattutto la nuova interpretazione del grandissimo Leopardi,
qui a Perugia ho iniziato la mia vita di compagno e di padre (i
miei due figli sono nati a Perugia). Qui a Perugia ho pur
cominciato a comprendere la legge del "mondo" ("Dico che il mondo
è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili
contro i generosi" come scrive Leopardi) e ho compiuto scelte
essenziali e mai smentite cercando di praticare la via ardua e
quasi paradossale della "virtù" (vecchia ma sempre
fondamentale parola: a un mio caro allievo che mi chiedeva che
vale l’etica senza la politica risposi che vale la politica
senza l’etica) fedele, a mio modo, alla grande parabola
evangelica dei gigli dei campi "amate la giustizia e il resto vi
sarà dato per sovrappiù" e mi sono persuaso, per
sempre, che la vita val solo leopardianamente a "spregiarla", se
ai falsi valori del potere e della ricchezza non si preferiscono
quelli, veri, della lealtà ("bella come una pura fronte"
scriveva ispirato Capitini), dell’autenticità, della
giustizia, della verità, del "bene comune", senza di cui
la vita non è solo, per sua natura, infelice
(l’infelicità è parte e limite essenziale
della condizione umana, e la vita alla fine è più
"crudele che vana" per dirla con Montale) ma indegna
poiché essa "vale" solo per usarla coraggiosamente per
terminarla senza viltà e senza stolte speranze.
Certo l’ho imparato dai grandi, essenziali testi fisolofici
e poetici, frequentati nel lungo corso della mia vita ("Fais ta
longue et lourde tâche... et puis souffre et meurs sans
gémer", "the reste is silent"), ma, mentre questi in gran
parte li ho già assimilati per sempre nella mia
gioventù perugina e mentre la mia dura esperienza del
"mondo" l’ho appresa nell’attrito
dell’esperienza qui a Perugia, tutto ciò me lo ha
anche ispirato il senso profondo di una città scabra ed
essenziale, antiretorica e intensa più che edonisticamente
"bella", il senso profondo della sua storia, ricca di ribellioni
e proteste, spesso temerarie e sconfitte, così come il mio
stesso lavoro di intellettuale e di scrittore, il mio stesso
metodo critico, fondato sulla tensione di forze e di impegni,
commutati nella forza suprema della grande poesia, mi sembra
ispirato alla struttura ascensionale e complessa della
città, alla metafora tensiva della sua tramontana, che
spesso mi è apparsa idealmente tradotta nelle più
alte espressioni della poesia, "conforto" stimolo,
moltiplicazione di sentimenti e pensieri e non abbietta
"consolazione" e frivolo piacere nella lotta pertinace con la
realtà ostile della natura e del "mondo": "come fiamma
più arde più contesa – dal vento, così
alta virtù che’l cielo esalta – tanto
più splende quanto più è offesa" secondo la
sublime isolata terzina di Michelangelo.
Quella fiamma, quella "tramontana" reale e ideale che hanno
acceso dalle radici il mio essere personale e sociale si
spengerà interamente solo quando il mio filo biologico
(così resistente e così fragile, avviato quasi per
ardita scommessa da mia madre, se figlio unico di un figlio unico
sono nato fra due fratelli nati morti) si troncherà e io
tornerò (si fa per dire) per sempre a Perugia (ma senza
alcuna vita né presente né futura) nel Cimitero in
cui desidero di essere sepolto accanto a mia madre e alla mia
compagna. 4 novembre 1982-1997
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